Capire, e spiegare, perché ‘’una redazione che produca inquinamento morale al suo interno non può diffondere una informazione di qualità al suo esterno’’. Questo l’ obbiettivo di un’ analisi sul mobbing in redazione condotta da tre giornaliste – Patrizia Capua, Carla Di Napoli e Angela Frenda – all’ interno del progetto collettivo sfociato nel volume ‘’Il lavoro perverso; il mobbing come paradigma di una psicopatologia del lavoro’’.
Il volume, curato da Francesco Blasi e Claudio Petrella, è frutto del lavoro di un gruppo di ricercatori – psichiatri, psicologi, giornalisti, medici del lavoro, giuristi che in questi anni hanno riflettuto sullÂ’ intima relazione esistente tra la sofferenza mentale e la progressiva perversificazione del lavoro nel mondo industrializzato – accomunati dalla volontà di scavare in profondità , per andare oltre ‘’il chiacchiericcio pettegolo spesso associato al mobbingÂ’Â’.
‘’Il lavoro perverso’’ è stato pubblicato dall’ Istituto italiano di Studi filosofici. Nella sua prefazione Gerardo Marotta, anima storica dell’ Istituto, delinea lo sfondo generale su cui si muove la riflessione dell’ opera, sottolineando come le persone tendano ‘’sempre più a confrontarsi non in termini di valori e di norma, ma di differenza e di potere’’.
Una persona quindi non viene vessata ‘’perché il suo capo è cattivo’’, chiariscono gli autori. ‘’Un lavoratore viene aggredito perché uno o più dirigenti, selezionati in base alla loro ferocia e capacità di sopravvivenza, decidono che sia indispensabile, utile o divertente perseguitare una vittima designata, in un mondo che pensa sostanzialmente che una tale situazione sia fisiologica, necessaria o inevitabile. La sofferenza prodotta spazia, contrariamente a quello che si crede, dalla melancolia al delirio, con una intensità non rivelata dal chiacchiericcio pettegolo spesso associato al dibattito sul mobbing.
L’azienda moderna è una macchina che produce, in percentuali variabili, una grande quantità di inquinamento antropico, sotto forma di vessazione e sofferenza, oltre che merci o servizi. E’ una struttura complessa che si comporta spesso in modo sorprendente e controintuitivo, che qualcuno definisce propriamente azienda totale, ambivalente e paradossale, e che dissimula facilmente le transazioni psicotiche al suo interno. Pochi, infatti, si rendono conto dei danni umani ed economici che tale inquinamento produce, al mondo circostante ma anche alla stessa azienda’’.
Un ampio capitolo del libro è dedicato al mondo del giornalismo e alla redazione in particolare, vista come ‘’non-luogo’’, spazio ormai sempre più ‘’asettico, geometrico, svuotato di relazioni, anaffettivo’’.
Patrizia Capua, Carla Di Napoli e Angela Frenda – donne e quindi categoria obbiettivamente ad alto rischio di vessazione – osservano che ‘’nell’ era dell’ informazione globalizzata, il mobbing si diffonde come una metastasi, nel corpo asfittico di una società civile sempre più narcotizzata dal matrimonio fra informazione e pubblicità , celebrato dai teologi dell’ aziendalismo’’. Il non luogo dell’ informazione totale è ‘’la redazione multimediale, simbolo dell’ aziendalismo diffuso, dove si genera ‘’una forma degradata d lavoro che, in uno spazio chiuso e isolato appena squarciato dalla pioggia di take di agenzia, e-mail, fax e internet e tv, si trasforma in pseudolavoro, che produce quell’ inquinamento stanziale diffuso che autoproduce in sé i germi che generano il cosiddetto mobbing’’.
Ma ‘’la qualità della notizia – osservano le autrici – non è aziendalizzabile, perché è un lavorato artigianale e non un prodotto industriale. L’ informazione totale evoca quindi l’ alienazione completa del giornalista, che riesce a sottrarsi alla confusione della sua vita personale quanto più si allontana dai circuiti obbligati di una carriera coatta’’.
Il mobbing diventa strategico. ‘’Serve a fini di ristrutturazione, per garantire il ricambio dei giornalisti, sostituire i nuovi assunti, spesso a termine e senza garanzie, o i giornalisti garantiti che costano troppo e che sono considerati obsoleti’’. Tutto questo comporta una radicale caduta della percezione del senso del proprio lavoro, tanto che in una recente inchiesta della Rizzoli sul mobbing il 67% delle persone intervistate non si riconosce nel giornale in cui lavora, il 46% non considera interessante il proprio lavoro e il 43,9% lo definisce addirittura ‘’deprimente’’.
Il mobbing redazionale rischia di ‘’diventare un fenomeno fisiologico’’, osservano nella conclusione le autrici, mettendo a fuoco uno dei principali produttori di ‘’perversione’’, ‘’il giornalista spacciatore di pubblicità e piazzista di notizie’’. Una figura che ‘’inquina la società civile nel suo complesso e che non può che essere mobbizzato e mobbizzante’’.
C’ è un antidoto a tutto questo? ‘’L’ unico antidoto a questa triste evoluzione, fortunatamente ancora lontana ma non per questo meno probabile, abita nella deontologia professionale, nella solidarietà fra i giornalisti e nella coscienza dei lettori’’.
Il testo integrale del volume qui .