IL GIORNALISMO USA VERSO L’ AUTODISTRUZIONE?


Bertrand Pecquerie


Una volta era preso come modello, ma ora sembra attraversare una profonda crisi, sostiene Bertrand Pecquerie – ‘’Tutto ciò che aveva di postivo – la ricchezza, la diversità, la credibilità, la lotta contro il potere – si è rapidamente trasformato in negativo semplicemente perché i media americani, e non soltanto la Fox News, si sono trasformati in una macchina da guerra al fianco dell’amministrazione BushÂ’Â’ – LÂ’ ondata di ‘’citizen journalismÂ’Â’ e la minimizzazione del ruolo del giornalista – Il mix confuso di informazione–intrattenimento–comunicazione sta causando un danno irreparabile al concetto di informazione come pilastro della democrazia – Dietro la cosiddetta “democrazia virtuale”, la vera democrazia si sta indebolendo?





Documento senza titolo

 

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di Bertrand Pecquerie
(da Cbsnews http://www.cbsnews.com/blogs/2006/04/13/publiceye/entry1498205.shtml)

Che tempi difficili ha passato il giornalismo americano dal 2003!

Quell’ anno, Jayson Blair ha scosso le fondamenta del New York Times e un’allucinazione collettiva ha coinvolto la stampa americana nella ricerca delle Armi di Distruzione di Massa in Iraq.

Nel 2005, Dan Rather, l’anchorman della CBS Evening News,  si è dimesso a causa degli attacchi di alcuni bloggers conservatori. Avevano ragione a sostenere che alcuni documenti controversi utilizzati da Rather erano falsi ma non hanno reso un servizio al pubblico affossando le questioni sollevate riguardo alle ambiguità e alle ombre che gravavano sul modo con cui il presidente Bush aveva fatto il servizio militare.

Sempre nel 2005, c’è stato un altro attacco contro un giornalista – questa volta il capo delle news della CNN, Eason Jordan- il quale ha osato denunciare l’esercito americano in Iraq per il suo “approccio muscoloso” nei confronti della stampa americana e straniera.     

E come dimenticare l’ultimo assalto alla credibilità della stampa americana con l’arresto di Judith Miller e il conseguente scandalo?

Finora nel 2006 non si sono avuti scandali di proporzioni analoghe. Ma i media americani in Iraq hanno ancora inventato una sorta di  “Zona Verde del Giornalismo”, una forma di giornalismo rinchiuso e cieco di cui gli ex ostaggi Jill Carroll del Christian Science Monitor e Florence Aubenas di Libération si rifiutavano di far parte.

Mi scuso se questa sintesi può sembrare esagerata, ma visto dall’Europa, il giornalismo americano, una volta un modello, sembra attraversare una profonda crisi.

In cosa consisteva questo modello? Prima di tutto, comprendeva delle newsroom fortemente popolate, spesso grandi il doppio rispetto a quelle europee, che permettevano realmente un giornalismo investigativo, fatto di settimane o mesi passati a scavare e mettere in dubbio. Poi, c’era un chiaro concetto di Quarto Potere – il ruolo dei giornalisti era quello di mettere in discussione gli altri tre poteri e il mondo degli affari. Infine, l’istruzione dei giornalisti era molto differente – i veri giornalisti erano degli esperti nei loro settori, tanto da essere capaci di anticipare le evoluzioni tecnologiche ed economiche.   

Perché al giorno d’oggi questo modello sembra star morendo? Per prima cosa, non si possono non sottolineare che una delle vittime collaterali dell’ 11 settembre è stato proprio il giornalismo americano “medio”.
Tutto ciò che aveva di postivo – la ricchezza, la diversità, la credibilità, la lotta contro il potere – si è rapidamente trasformato in negativo semplicemente perché i media americani, e non soltanto la Fox  News, si sono trasformati in una macchina da guerra al fianco dell’amministrazione Bush. Da un giorno all’altro i media, a causa del loro “nazionalismo”, hanno perso il loro spirito critico.
In circostanze simili, la stampa europea è riuscita a mantenere il suo ruolo di piattaforma di dibattito, per esempio in Francia durante la Guerra d’Algeria negli anni ’60, o in Germania e Italia con la Rote Armee Fraktion e le Brigate Rosse negli anni ’70. In questi paesi, la stampa aveva messo chiaramente in discussione le strategie dei propri governi e denunciò certi metodi di repressione.

Negli Stati Uniti, non è emerso niente del genere nella televisione “media” o nella stampa e soltanto poche organizzazioni, come ad esempio Project Censored o Media Channel, hanno osato criticare il nazionalismo dilagante. Di fronte al fallimento dello spirito critico, avvenuto progressivamente fra il 2004 e il 2005, ai media americani ci vorranno diversi anni per ripartire da zero e per rimettere in discussione le proprie azioni. Senza dubbio sarà una fruttuosa autoanalisi. 

Quello che maggiormente mi preoccupa è il processo di autodistruzione in cui il giornalismo americano sembra essere caduto a partire dall’ondata di grassroots o “citizen journalism”. E’ molto difficile comprendre come teorie quali “la notizia non è più una lettura ma una conversazione” e “ le breacking news sono l’ inizio, non la fine del processo delle news” si sono potute imporre sulla scena dei media.

 

Che le notizie  diventino una conversazione è un passo avanti se significa l’inizio di un dialogo con i lettori, un dialogo reso incredibilmente più semplice grazie ad internet. Ma nel contesto della crisi attuale, potrebbe significare anche una minimizzazione del ruolo del giornalista. Sembra che si sia dimenticato che breaking news e inchieste su scandali e corruzione fatte da professionisti sono necessarie  prima che si possa dare inizio alla conversazione.

Si prenda il caso di Eason Jordan: la grande pressione nella blogosfera era stata concentrata sulle dimissioni di Jordan, lasciando completamente in ombra la vera questione – ovvero se i giornalisti fossero stati veramente presi di mira in Iraq. Insomma, un piccolo numero di bloggers erano riusciti a distogliere l’attenzione del pubblico e dei media dalle questioni maggiori per concentrarla sui dettagli minori.

A un primo sguardo, le intuizioni di esperti di citizen journalists come Dan Gillmor sembrano  piene di buone intenzioni, ma alla fine potrebbero minacciare uno dei principi base del giornalismo: l’inchiesta.

Un’altra conseguenza è che i giornalisti vengono percepiti come maggiormente conservatori conseguentemente a queste nuove teorie che vedono un giornalista nascosto in ogni cittadino. E ciò sta accadendo senza il minimo fondamento: attualmente, i citizen journalists sono una piccola minoranza. Il mix confuso di informazione – intrattenimento – comunicazione sta causando un danno irreparabile al concetto di informazione come pilastro della democrazia.

Quello che più mi sorprende è la facilità con cui la comunità dei giornalisti americani ha accettato questo processo di autoindebolimento e, a lungo termine, autodistruzione. Perché nessuno contesta Dan Gillmor o Jeff Jarvis? Chi contesterà queste teorie, che potrebbero essere soltanto un’ altra “bolla internet”? Chi non riesce a vedere che dietro la cosiddetta “democrazia virtuale”, la vera democrazia si sta indebolendo?

Negli Stati Uniti, la gente scrive i blog ma non va a votare. La democrazia virtuale sembra non aver alcun effetto sulla democrazia reale. In Europa, andiamo a votare (alle elezioni italiane c’è stata ad esempio un’ affluenza dell’83 %), ma di blog, in senso politico, ne scriviamo veramente pochi. Quale democrazia è la più viva?        

(traduzione a cura di Chiara Rea)
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*Bertrand Pecquerie è direttore del World Editor Forum, che pubblica
Editorsweblog.org