Il 19 ottobre scorso ha preso vita anche il Master toscano in giornalismo, in corso presso le tre Università di Firenze, Siena e Pisa – LÂ’ Ordine Nazionale ha dichiarato che questa sarà lÂ’ultima scuola che verrà riconosciuta come sostitutiva al praticantato. Nel frattempo però ci si interroga anche sulle possibili conseguenze della riforma della professione, che cambierà le modalità di accesso al mestiere – Il dibattito che si è sviluppato in queste settimane
Il 22 dicembre è stato approvato il progetto di riforma dell’ accesso alle professioni per le quali sono previsti gli esami di Stato, compresa dunque anche quella giornalistica. A partire dal 2013 potranno essere ammessi all’esame di abilitazione solamente i candidati in possesso di una laurea, almeno di primo livello. Inoltre il secondo requisito prevede sempre un periodo di pratica giornalistica, da compiersi però attraverso il conseguimento di una laurea specialistica oppure di un Master universitario biennale, presso istituti ed enti riconosciuti dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti.
Addio dunque al praticantato nelle redazioni, alla raccomandazione come modalità principale di accesso alla professione. Non basterà più il diploma di terza media e in commissione d’esame siederanno anche i docenti universitari.
Questo cambiamento, in linea con le direttive europee sulle attività professionali, modifica il modo italiano di concepire la figura del giornalista: la professione si vestirà di un nuovo manto accademico, da sempre considerato “inutile” per il lavoro quotidiano delle redazioni. Il crescente numero delle scuole e dei Master in giornalismo riconosciuti dall’Ordine, come l’ultimo istituito dalle tre Università toscane di Firenze, Siena e Pisa, è un evidente segnale di questo cambiamento.
La riflessione ora dunque si concentra inevitabilmente sulla formazione giornalistica: cosa bisogna insegnare ad un praticante che vuole accedere alla professione? E perché, oggi più che mai, diventa necessaria una integrazione tra teoria e pratica?
“I primi grandi maestri dovrebbero essere i colleghi anziani all’interno di un giornale”, almeno così era in passato, racconta il direttore delle testate del Master Toscano in giornalismo, Ettore Vittorini. Oggi nelle redazioni non c’è più tempo per imparare: la generazione dei “maestri” ha lasciato il posto a un giornalismo che non è più capace di riflettere su di sé stesso e il rischio di un crescente “dilettantismo” fa preoccupare chi crede nell’importanza della funzione sociale di questa professione.
Come sottolinea il professor Carlo Sorrentino, coordinatore del Master toscano in giornalismo e sociologo della comunicazione, “non esiste pratica senza un discorso teorico alle spalle”. La teoria giornalistica è sempre stata, in passato, una teoria inconsapevole, nascosta dietro la rapidità delle decisioni quotidiane e dietro la cultura personale di alcuni grandi capiredattori. Oggi però la complessità del mondo contemporaneo e la crescente frammentazione del sistema dei media rende necessaria una formazione teorica del giornalista. Un sapere che gli consenta di governare la condanna alla multidisciplinarietà (il giornalista è lo “specialista di tutto”), una sensibilità che gli consenta di rafforzare la mutevole e sempre più fragile concezione della cultura della notizia, e una teoria che lo conduca a rifiutare la costante banalizzazione del lavoro quotidiano, nel rispetto di un’etica professionale.
E’ da queste riflessioni che nascono gli obiettivi delle scuole e dei Master in giornalismo, progetti formativi che nascono dalla collaborazione tra gli Atenei locali e gli Ordini regionali. L’idea è quella di “allevare” i giornalisti di domani nella piena consapevolezza dell’importanza della professione e nell’intento di fornire loro gli strumenti per acquisire una buona capacità interpretativa dei fatti e delle cose del mondo contemporaneo. In questo modo si stabilisce quindi, per la prima volta in Italia, un dialogo tra due mondi, quello “teorico” delle aule universitarie e quello “pratico” delle redazioni, ancora molto lontani tra di loro.
Dietro queste nobili ambizioni formative, si nasconde infatti il rischio di una mancata integrazione tra due realtà di natura molto diversa: la sfida più grande della formazione giornalistica sarà proprio quella di mettere la teoria al servizio della pratica, di declinare gli studi e le riflessioni teoriche al servizio del lavoro redazionale. I nuovi praticanti dovranno diventare giornalisti consapevoli, ma per far questo dovranno interiorizzare nelle scelte di tutti i giorni la teoria, senza dimenticare che il loro lavoro è comunque un “mestiere”, per quanto nobile e importante.
(di Michela Finizio)
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*** Sul cosiddetto decreto Siliquini si è sviluppato spontaneamente in queste settimane un dibattito acceso con una serie di interventi che riportiamo qui sotto cronologicamente.
Franco Abruzzo, presidente dellÂ’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
(22 dicembre)
EÂ’ svolta storica nella professione
di giornalista. La formazione
ritorna nelle nostre Università .
Nel periodo settembre/ottobre
2003 la spinta decisiva
impressa dall’Ordine della Lombardia.
Siamo più liberi! Dopo 78 anni
cade il potere illimitato
degli editori di “fare” i giornalisti
(il testo integrale dell’ articolo di Abruzzo è qui)
Lorenzo Del Boca, presidente dell’ Ordine
(22 dicembre)
Con soddisfazione prendiamo atto che il Consiglio dei Ministri, approvando una serie di disposizioni per il riordino delle professioni, ha accolto le nostre proposte per rendere il lavoro dei giornalisti più moderno, più efficiente e culturalmente più attrezzato per rispondere alle responsabilità che gli competono. Un ringraziamento per il ministro Letizia Moratti e – doverosamente – per il sottosegretario Maria Grazia Siliquini che ha seguito l’iter e le procedure che hanno consentito un risultato per noi positivo.
Prima di entrare in vigore, la legge deve passare al vaglio del Consiglio di Stato ma ci auguriamo che si tratti soltanto di un passaggio burocratico.
Quando le disposizioni diventeranno operative, i giornalisti dovranno formarsi all’università con un percorso di studi accademici che prevedono il conseguimento di una laurea di primo livello, seguito da un master biennale destinato a coniugare preparazione teorica e tirocinio pratico. Come avviene per gli avvocati a giurisprudenza o gli ingegneri al politecnico… L’esame di stato sarà poi l’ultimo atto per l’abilitazione professionale.
Sono tante le accuse che vengono rivolte ai giornalisti – a volte ingiustificabili e altre volte immotivate – ma di una non vogliamo assumerci la responsabilità : quella di rifiutare di andare a scuola, per studiare e per saperne di più”.
Michele Urbano
(24 dicembre)
La laurea diventa obbbligatoria per l’accesso alla professione. Sì, è una svolta. Che aspettavamo. Anche se prima di esultare è meglio aspettare la pubblicazione sulla gazzetta. Non si sa mai. Qual è il problema? Di non ritrovarci il capoverso sul doppio canale d’accesso che nella prima stesura della bozza Siliquini c’era (su pressione degli editori) e che poi su nostra iniziativa sparì.
Insomma, non vorrei che il fantasma fosse tornato. Mi spiego meglio.
Il doppio canale significava che si prevedevano due accessi diversi alla professione:
1) quello universitario – con esame di stato non più solo a Roma – con una commissione formata da un magistrato (presidente), due professori universitari, tre giornalisti (laureati e con 10 anni di anzianità ; oppure non laureati, ma con 20 anni di anzianità professionale), un rappresentante della Fieg (laureato).
2) il vecchio sistema (o se si preferisce quello ancora attuale).
E’ evidente che se fosse rimasto il doppio canale l’accesso universitario sarebbe stato subito svilito. Della serie: perchè assumere un laureato se io editore posso prendere e far fare il praticandado a chi voglio?
Dopo lunghi mesi di discussioni con la Siliquini finalmente il doppio canale sparì. Rimase invece la fase di transizione (fino al 2012) per permettere un passaggio (secondo me fin, troppo lungo: ma non è il caso di disquisire) morbido. Questi gli elementi essenziali. Purtroppo non ho notizie su come l’abbiano presa gli editori.
Amedeo Vergani
(24 dicembre)
Caro Michele,
a proposito di svilimenti, proporrei anche qualche riflessione sul fatto che, nonostante tutte le buone intenzioni della riforma per l’ accesso alla professione, gli editori continueranno, in tutto l’incasinatissimo mondo del lavoro esterno alle redazioni, ad avere mano libera nel far fare il giornalista proprio a chi cavolo vogliono. Esattamente come accade ora, con un lavoro cosiddetto freelance nel quale ingaggi e incarichi vengono affidati senza alcun distinguo di ruoli, diritti e competenze tra chi è giornalista professionista, chi pubblicista e chi non c’entra proprio nulla con le regole dell’Ordine, dell’Inpgi 2 e dell’imposizione fiscale prevista per i giornalisti.
Tra l’altro dovremmo chiederci che tipo di incavolamenti e frustrazioni avranno, dopo l’applicazione del nuovo decreto legge, quei neo giornalisti professionisti che, assolto l’obbligo di laurea triennale più master biennale sostitutivo del praticantato e di un esame di stato di tutto rispetto più il dovere dell’esclusività professionale, si troveranno sulla piazza del lavoro autonomo assediati dalla concorrenza di migliaia di soggetti che per scrivere, parlare o “far vedere” nei media non avranno dovuto certificare neanche, per paradosso, il possesso della licenza elementare, non avranno dovuto spendere energie e denari per l’esame di abilitazione professionale e in più, nel quantificare i loro compensi in modo da porterci vivere, potranno anche contare sui proventi, mediamente molto più considerevoli, di mestieri e professioni che non hanno nulla a che vedere con l’attività giornalistica.
Pensarci su un po’ forse non farebbe male. Soprattutto dentro i vertici delle nostre istituzioni professionali.
Michele Urbano
(25 dicembre)
Caro Amedeo, quello che tu dici è vero ma non lo ritengo un motivo sufficiente per stare fermi. Attento a non confondere i due piani del problema: quello dell’accesso e quello contrattuale. Si rischerebbe di cadere in una trappola paralizzante: la dequalificazione professionale è forse uno strumento per arginare la precarizzazione? Non lo credo io e non lo credi nemmeno tu. La sconfitta del doppio canale non è il paradiso: è (sarà ) semplicemente una nuova fase della nostra professione che tuttavia toglie agli editori il diritto di decidere chi può fare il praticante e chi no.
Basta? Certamente no! Altri passi bisogna farli sul fronte contrattuale (dei diritti e, aggiungo, dei controlli) e sul fronte della riforma dell’Ordine. Io, personalmente, penso – e non da oggi – che il doppio albo – professionisti e pubblicisti – non serve più a nessuno, nemmeno ai pubblicisti. Anzi, con l’evoluzione selvaggia del mercato del lavoro, si sono create situazione comiche.
Ti faccio un esempio. Il pubblicista per definizione non può esercitare “esclusivamente” la professione giornalistica. Quindi a rigore quelle migliaia di pubblicisti – grazie anche ai diversi Abruzzo d’Italia – che oggi svolgono esclusivamente la professione giornalistica dovrebbero essere fuorilegge. Ma d’altro canto quei pubblicisti sono diventati tali perchè nessuno mai gli ha dato l’opportunità di svolgere un regolare praticantato!
Una situazione assurda e anche un po’ vergognosa da cui bisogna uscire non solo per ridare dignità alla professione ma anche per garantire al mercato un minino di regole. Il sistema non funziona più, è ingrippato totalmente.
Oggi si diventa giornalisti in quattro modi diversi: con il praticantato regolare vecchia maniera, con il praticantato d’ufficio, con il praticantato presso scuole riconosciute dall’Ordine, con l’scrizione all’albo dei pubblicisti. Un enorme casino che produce alibi e sfruttamento. Ripeto la via universitaria al giornalismo è solo un passo in avanti verso la chiarezza. Non sarà certo però questa novità – che pure ritengo importante e positiva – a risolvere problemi di natura contrattuale. Può, forse, aiutare. Ma se la categoria nel suo insieme – dai cdr alla Giunta Fnsi, dall’Ordine nazionale passando da quelli regionali – non si assume in pieno la responsabilità di una battaglia che non è strategica, è “esiziale”, allora non c’è laurea che tenga. Detto questo, non credo che gli editori siano oggi felici di dover rinunciare al diritto di scelta dei nuovi praticanti….
Amedeo Vergani
(26 dicembre)
Caro Michele,
non mi sono spiegato con la dovuta chiarezza. La mia proposta di riflessioni non voleva assolutamente mettere in discussione la bontà , o meno, del decreto legge sull’accesso con laurea obbligatoria. In sostanza voleva stimolare esattamente le analisi che ora hai cominciato a fare tu e che tra l’altro, sicuramente non per caso, condivido in pieno.
E’ scontato il fatto che il prossimo passo, magari anche senza aspettare i tempi lunghi di una riforma dell’Ordine, dovrebbe essere quello di mettere mano all’ “enorme casino” che si è venuto a creare nelle mille confusioni tra le varie figure previste negli elenchi del nostro Albo.
Chiarissima e più che fondata la tua affermazione che, stando alle norme dell’ordinamento professionale, chiunque svolge in modo esclusivo la professione di giornalista, o è professionista o altrimenti , pubblicista o no, dovrebbe essere fuorilegge. Idem, più o meno, lo sgarro alla legittimità lo dovrebbe commettere in parallelo anche chi, editore o giornalista, affida e commissiona compiti da giornalista professionista a chi non lo è.
La vigilanza su questi aspetti non è, comunque, solo “contrattuale”. La vigilanza in materia di esercizio abusivo della professione dovrebbe essere in primo luogo un dovere istituzionale dell’Ordine più che degli organismi sindacali delegati a pattuire e far rispettare il contratto di lavoro.
Non mi risulta però che sino ad ora, almeno negli ultimi dieci anni, qualche Consiglio regionale abbia preso provvedimenti in questo senso e neppure che qualche organismo dell’Ordine, tanto per evitare in modo preventivo confusioni e sgarri, abbia spiegato bene alla categoria quali sono i distinguo pratici tra il ruolo del giornalista professionista e quello del pubblicista. Ovvio che non mi riferisco ad elementari riproposizioni di quanto ci racconta da più di quarant’anni il testo dell’art.1 della legge sull’ordinamento, ma penso invece a spieghe sulle diversità concrete che dovrebbero esserci nel ricorso e nell’impiego da parte degli editori, e pure delle loro redazioni, di queste due specifiche e ben distinte figure che popolano il nostro Albo.
Questi chiarimenti sul campo – é proprio qui dove puntava il mio invito alla riflessione – ora sono resi più che mai indifferibili appunto per non svilire le scelte che stanno a monte della decisione della via unica dell’accesso con laurea obbligatoria. In caso contrario qualcuno dovrebbe spiegarci bene il perché un giovane aspirante al giornalismo, casi di masochismo a parte, non dovrebbe essere tentato di driblare il “mazzo”, quadro e costoso, di studi, controstudi, master ed esame di stato, e arrivare invece a fare in pratica esattamente lo stesso “mestiere” entrandoci da pubblicista, attraverso una procedura senza neppure l’onere di certificare, estremizzando un po’, persino il possesso del più basso dei livelli di scolarizzazione, e senza neanche l’obbligo di sottoporsi ad alcun genere di accertamento istituzionale su conoscenze e competenze neppure in materia, per esempio, delle più elementari norme della deontologia professionale.
Non sono però d’accordo con te quando affermi che “d’altro canto quei pubblicisti sono diventati tali perché nessuno mai gli ha dato l’opportunità di svolgere un regolare praticantato”. Quest’alibi valeva certamente molti, ma molti, anni fa. Ora, come tu sai benissimo, non regge più da un bel pezzo.
Primo perché da almeno un paio di decenni svariati Consigli regionali Odg, Milano in testa, avevano già aperto il praticantato d’ufficio anche ai pubblicisti freelance in grado di dimostrare esclusività professionale.
Secondo perché sono ormai tre anni e mezzo – dal luglio 2002 – che i pubblicisti freelance aspiranti professionisti hanno ufficialmente ed “universalmente” diritto d’accesso al praticantato grazie ad una specifica delibera del Consiglio nazionale dell’Ordine riguardante una serie di nuovi criteri interpretartivi dell’art.34 della legge istitutiva: quello, appunto, sullo svolgimento della pratica giornalistica.
Per tutto questo non dovremmo perciò avere dubbi sul fatto che chi svolge attività giornalistica in modo esclusivo e che non è ancora in ballo per diventare professionista, o non è a conoscenza delle nuove regole, oppure, per le sue più variegate opportunità , trova molto più comodo continuare nel suo seminato, facendosene un bel baffo dell’essere, o del non essere, dentro le regole professionali.
Chiarisco questo non certo per fare le pulci a te, ma perché questa argomentazione difensiva del “loro vorrebbero, ma gli è impedito” è stata ultimamente cavalcata alla grande dalle diverse congreghe che, con violenta e intollerabile arrogazana, hanno scatenato negli organismi e sui media di categoria una raffica di pretestuosi e vergognosi attacchi nei confronti di Vittorio Roidi, in un tentativo di metterlo in difficoltà prendendo spunto da un suo testo nel quale, analizzando le problematiche di fondo della nostra professione, tra le moltissime riflessioni e considerazioni, si era posto alcuni sacrosanti interrogativi pure su qualità e competenze dei settantamila pubblicisti che popolano il nostro Albo.
Meglio perciò cominciare a puntualizzare anche tra noi.
Questi sono nodi che, quando si vorrà mettere davvero mano all’ “enorme casino”, verranno pure loro al pettine.
Michele Urbano
(26 dicembre)
Caro Amedeo, mettiamola così: siamo (nel senso del nostro Ordine) andati avanti per anni – lentamente e sempre in ritardo sulla realtà – a mettere piccole pezze, tra cui quella a cui fai cenno di tre anni fa, senza mai avere la forza di dire basta e cambiare vestito. Perchè questo è successo? Non c’è, purtroppo, una sola risposta.
E’ successo, secondo me, perchè:
1) la categoria era ed è divisa (ed è divisa anche perchè c’è il peso paralizzante dei pubblicisti).
2) perchè da molti anni c’è una crisi sempre più evidente del nostro sistema di rappresentanza che porta tutti – chi più, chi meno – a giocare di sponda con i pubblicisti per mantenere o conquistare la maggioranza negli organismi di categoria. Caro Amedeo, sai quanti sono i consiglieri nazionali dell’Ordine? Beh, se non ricordo male 114. Una enormità , un’assurdità sotto tutti i profili: quello economico (la spesa per la convocazione dei consigli è da anni la principale voce di spesa dell’Ordine) e soprattutto quello politico-culturale.
Mi spiego meglio: gestire un’assemblea di 114 consiglieri è follia pura perchè, tra l’altro, con un numero così alto , non si è mai certi della maggioranza e quindi il potere d’interdizione o se preferisci di ricatto di gruppi e gruppetti diventa altissimo; ancora più folle è pensare alla qualità dei consiglieri eletti col sistema proporzionale sullo sfondo di rendite di posizione clientelari
3) perchè negli ultimi 15 anni – da quando io seguo con una una certa attenzione le problematiche dell’Ordine – non c’è stato governo che abbia fatto qualcosa (e sotto questo profilo la Siliquini (An!) ha dimostrato se non coraggio sicuramente attenzione) per discutere le nostre proposte di riforme;
4) perchè gli editori hanno sempre sabotato ogni sforzo. E lo hanno fatto perchè sono sempre stati ostinatamente contrari a qualsiasi riforma per un semplicissimo motivo: loro sono dichiaratamente per l’abrogazione dell’Ordine e non lo hanno mai nascosto.
La potenza sinergica di questi quattro fattori ha portato al degrado attuale. Una situazione, ripeto, in cui ci sono quattro sistemi diversi per accedere all’albo. E il precariato che impazza.
Tu dici, giustamente, il potere di vigilanza. Che di fatto in larghissima misura non viene esercitato. Verissimo. Ma metti insieme i miei quattro punti e forse la spiegazione salta fuori. Aggiungici però – anche questo va detto – che rispetto all’esercizio abusivo non funziona nemmeno la vigilanza di base (i Cdr) almeno là dove ci sono!
Che fare allora per cambiare questo quadro desolante? Non so, ma ti dico subito che non sono d’accordo con la tesi che pure qualcuno che stimo ogni tanto tira fuori – penso anche per rimediare alla depressione di questo quadro – di creare un’associazione privata, un club di certificazione di qualità per giornalisti doc.
Penso, invece, che la strada maestra sia quella di una battaglia più incisiva dentro e fuori la categoria. Una battaglia che sia di pulizia (interna) con degli ordini regionali più rigorosi sorretti da indicazioni più rigorose da parte dell’Ordine nazionale. Ma anche di sollecitazione esterna (il ceto politico, i pubblicitari, gli editori) per una modifica della legge del 63. Che non regge più a nessun livello. Anzi, che crea sfiducia e perfino imbarazzo.
Noi ci lamentiamo tanto dei tempi della giustizia! Ma i nostri sono forse ancora più lunghi! E per fortuna che il sistema di monitoraggio dei reati (deontologici) non funziona perchè altrimenti saremmo al delirio!
Messa così però il problema diventa: in quanti siamo disposti a condurre questa battaglia?
Mario Tedeschini Lalli/1
Obbligo di laurea per i giornalisti
I giornali ne hanno brevemente parlato subito prima di Natale, ma la novità merita un’attenzione maggiore: dopo un paio di altri passaggi burocratici, a partire dal 2006 cambia il meccanismo di accesso alla professione giornalistica in Italia. Il 22 dicembre il governo ha approvato un decreto che estende anche ai giornalisti l’obbligo della Laurea e dispone un periodo di “pratica” post laurea di ben due anni, con meccanismi parauniversitari (laurea specialistica, master biennale, scuole di giornalismo riconosciute dall’ordine). Cambia anche l’esame di Stato con sessioni nelle diverse università e non solo a Roma.
E’ un evento importante che qualcuno esalta (“Siamo più liberi!” proclama Franco Abbruzzo)), io sono invece preoccupato.
Per ora non esprimo pareri di merito conclusivi, mi riservo di leggere con attenzione il decreto. Però ho paura che la cultura universitaria italiana e quella professionale delle istituzioni dei giornalisti, combinate e composte con la cultura giuridico-legalistica del valore legale dei titoli di studio contribuiscano a mantenere in realtà meno libero il giornalismo italiano. (Ho, fra l’altro, il sospetto che tra laurea, laurea specialistica, master o scuola, prima dei 25/27 anni nessuno potrà neppure sperare di affacciarsi a una redazione…)
In omaggio alla trasparenza ecco la mia dichiarazione di valori:
Chi scrive, oltre a essere regolarmente iscritto all’Ordine dei giornalisti, insegna da 14 anni in una Scuola dallo stesso ordine riconosciuta; ha preso una laurea in Lettere in Italia e una specialistica in Giornalismo negli Stati Uniti; crede, quindi, che sia utile, necessario e specialmente possibile insegnare questo mestiere. Ritiene tuttavia che tutti i “bolli” e le “licenze” siano incompatibili con esso.
Mario Tedeschini Lalli/2
Giornalisti con laurea:
peggio di così si muore
Il decreto che impone i nuovi criteri per essere ammessi a fare i giornalisti è pessimo.
Qualche giorno fa ne avevo dato notizia sospendendo il giudizio finale, pur esprimendo il timore che le nuove norme avrebbero reso il giornalismo meno libero. Ora, avendolo letto nella sua versione integrale, confermo: peggio di così difficilmente poteva andare. Ma ho anche scoperto una cosina interessante (da nessuno, credo, notata): che tra la prima bozza pronta a luglio e quella licenziata il 22 dicembre dal Consiglio dei ministri c’è stato un piccolo, tragico emendamento, immagino dovuto ai suggerimenti di quei colleghi che ora proclamano “Siamo più liberi! Dopo 78 anni cade il potere illimitato degli editori di ‘fare’ i giornalisti”.
A luglio i requisiti per accedere all’esame professionale erano: una laurea (qualsiasi) e due anni di praticantato. Il praticantato, però, poteva “essere sostituito” da una laurea specialistica, da un master biennale o da un biennio di una scuola di giornalismo riconosciuti dall’Ordine. Il decreto attuale si limita a parlare di “pratica giornalistica da svolgere alternativamente nei seguenti modi” — e i modi sono la Specialistica, i Master e le Scuole: è sparita la pratica diretta nelle redazioni (a parte le norme relative al periodo transitorio).
Conseguenza sicura: nessun giovane potrà neppure affacciarsi a una redazione prima dei 24/25 anni, quanti ne servono per prendere una laurea, fare il concorso per il biennio successivo e frequentarlo. Non parliamo di costruirsi una vita normale da adulto.
Conseguenza probabile/1: per il combinato disposto della cultura ordinistica e delle miopie universitarie potremo vedere imposti vincoli all’accesso a Lauree specialistiche, Master e Scuole, con prerequisiti di studi di primo livello rigidi, settari e dannosissimi (tipo: ok per i laureati in Sociologia della comunicazione, no ai laureati in Matematica).
Conseguenza probabile/2: Siccome quanto sopra non è realistico e specialmente fa a pugni con la realtà delle aziende e delle redazioni, si moltiplicherà non si ridurrà il ricorso a lavoro privo di qualunque garanzia (voglio vedere un caporedattore che respinge un potenziale collaboratore che porta buone notizie dicendogli che prima deve laurearsi, fare il biennio, l’esame e poi se ne parlerà !).
Conseguenza probabile/3: chi ha pensato questo per dare spazio alla formazione e alle scuole (nelle quali io credo), si ritroverà invece con una nuova ondata di “buon senso” reazionario, tanto comune nelle redazioni, secondo il quale “il giornalismo si impara solo facendolo” (e chi ha detto che non si possa “fare” giornalismo anche in un corso strutturato?).
Sia detto chiaramente: non ho alcuna nostalgia del praticantato, bufala tutta teorica che di fatto funzionava solo come blocco a normali procedure di assunzione di un’azienda, specie se di dimensioni ridotte, o anche più spesso come scusa da parte di un’azienda per non assumerti. Da almeno 30 anni (età professionale del sottoscritto) ottiene il praticantato non chi deve fare pratica, ma chi ha già dimostrato di essere formato e quindi può essere assunto; il “praticante” è di fatto solo la prima qualifica contrattuale del giornalista. La vera “pratica”, il vero addestramento avviene fuori e prima del praticantato.
Sia detto altrettanto chiaramente: credo nella possibilità , anzi nella necessità della formazione dei giornalisti, credo nelle scuole di giornalismo se fatte bene. Non per niente ho fatto un Master di Giornalismo negli Stati Uniti e da molti anni insegno all’Ifg di Urbino.
Non credo invece nei timbri, nei bolli e nelle licenze. Credo – con buona pace di chi si illude del contrario – che “giornalista” non sia chi ha la patente di giornalista (e poi magari fa mestieri completamente diversi), ma semplicemene chi fa il giornalista. Fino a poco tempo fa questo ha voluto dire – sì – che senza un editore non si poteva fare il giornalista, ma nel sempre più mutevole quadro medial-tecnologico questo è sempre meno vero.
Posso immaginare una serie di obiezioni di tipo formale, che nulla però tolgono al quadro sostanziale qui descritto. E – specialmente – tutte le obiezioni nascono da una forma mentis, diciamo da una cultura che dà per scontate tante cose che sono invece accidenti della storia. Per esempio l’esistenza di un Ordine dei giornalisti o – ancora più nel profondo della coscienza civile italiana – il valore legale dei titoli di studio. Questa cultura porta, tra l’altro, a considerare una questione unica quella della formazione e dell’accesso alla professione.
Io propongo, invece, di riconoscere che si tratta di due questioni diverse: una riguarda il come sarebbe opportuno formare un giornalista, che cosa dovrebbe imparare, che cosa dovrebbe saper fare alla fine del corso; l’altra riguarda il cosiddetto accesso. E allora parliamone di che cosa insegnare ai giornalisti, sia a quelli in fieri sia – magari! – a quelli che già lo sono. Discutiamo di standard tecnico-professionali che non esistono come realtà comune condivisa nelle redazioni. Poi se qualche istituzione (Università o altro) sarà in grado di formare dei bravi giornalisti, dico veramente bravi, pensate che avranno grandi problemi ad “accedere” alla professione? Se invece altre istituzioni non saranno capaci di farlo, il loro corso varrà poco (o nulla) per “accedere” alla professione.
Credo così di aver risposto anche all’amica “precaria sovversiva” e al suo cortese commento al primo post. L’abusivismo è un problema gravissimo e crescente che nella situazione normativa attuale trova mille scuse e mille nuove ne troverà con la normativa entrante. Certo che il giornalismo si impara sul campo, ma chi lo ha detto che a “riconoscere la notizia e raccontarla con semplicità e purezza” non si possa fare in una scuola? So che è possibile, perché lo ho visto fare. I titoli accademici non c’entrano, c’entra – come sempre – la capacità , dico io, di “riconoscere le differenze tra una notizia e un paracarro”.
Un’ultima cosa. Mi scandalizza che su tutto questo sostanzialmente non si sia discusso. Non dico nelle stanze o nelle assemblee degli organismi professionali e tra gli addetti ai lavori, ma nelle pagine dei giornali: come si forma un giornalista e come si arriva a “fare il giornalista” è una roba che riguarda la democrazia, quindi tutti i cittadini. Tre anni fa tutte le maggiori testate americane (New York Times, Wall Streeet Journal, ecc.), oltre a quelle professionali, hanno dato conto del grande dibattito che si era aperto per la decisione della Columbia University di cambiare radicalmente il curriculum della più famosa Scuola di Giornalismo degli Stati Uniti. Il dibattito è stato pubblico, passionale, aspro. Al termine di esso la Scuola non ha modificato più il curriculum di base, ma ha offerto la possibilità di un anno supplementare. L’opinione pubblica conta, perché i giornalisti italiani non parlano di queste cose di fronte ai loro lettori?
Letizia Gonzales
Ci sono dei giovani che non se la sentono di entrare nelle redazioni, perché preferiscono di gran lunga rimanere liberi battitori esterni. E’ una tendenza in crescita in questi ultimi anni, anche per lo svilupparsi della precarietà del lavoro giornalistico. Se in Italia, come succede ad esempio in altri Paesi fosse possibile un percorso parallelo a quello redazionale, come libero professionista, ben retribuito, pagato mese dopo mese, rispettato nella sua dignità professionale come qualsiasi libero professionista, forse avremmo anche giornalisti che preferiscono per loro scelta la via della collaborazione.
Tutto ciò non accade perché il libero mercato è oggi terra selvaggia di conquista degli editori, che a poco prezzo con il sistema usa e getta, si avvalgono della collaborazione di moltissimi precari, senza contratto, che a volte lavorano per lungo tempo anche gratuitamente con la speranza di un contrattino e che arrivano all’Ordine per diventare professionisti attraverso il praticantato d’ufficio.
Secondo me un organismo di tutela della deontologia professionale, attento ai mutamenti della professione, del ruolo del giornalista (attraverso l’istituzione di osservatori magari collegati con le università ) che segnali ai propri iscritti i percorsi professionali più idonei alle richieste di mercato, che istituisca corsi di aggiornamento permanenti, che sia governato da persone elette con mandati a termine, per evitare incrostazioni di clientelismi elettorali, che lavori in sintonia con il sindacato e le altre istituzioni di categoria proprio per cogliere i mutamenti oramai velocissimi del fare informazione, che istituisca borse di studio per facilitare l’accesso alle università anche a coloro che non se lo possono permettere, sarebbe comunque utile. Quanti giornalismi oggi si esprimono sul mercato? E ad esempio, come proteggere dalle pesanti interferenze del marketing coloro che lavorano nei giornali “border line” a stretto contatto con la pubblicità senza penalizzare i singoli individui? Che questa istituzione si chiami Ordine o in qualsiasi altra maniera, non ha importanza.
Quello che mi sembra è che oggi questa istituzione sia vecchia, arroccata su schemi oramai trapassati e non rappresenti più il mondo reale dei giornali. Comunque incominciare a parlarne mi sembra molto utile. Segnalo un articolo uscito sull’inserto di economia del Corriere lunedì 9 gennaio, a firma di Ivo Caizzi, che contesta l’obbligatorietà del quinquennio di laurea che considera un vincolo alla libertà di stampa perché impedisce l’accesso a coloro che non possono permettersi un quinquennio di Università e attacca Abruzzo sostenendo che la lobby dei giornalisti che non praticano la professione ha trovato lo sbocco dell’insegnamento universitario, per aver sostenuto gli atenei a rendere obbligatori i corsi di giornalismo.
Conclude il suo articolo “… ..già ora tutta da valutare sul piano dell’opportunità appare la posizione del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo che si è battuto dalla parte degli atenei interessati a rendere obbligatori i corsi, pur essendo contemporaneamente “docente a contratto” presso le università di Milano Bicocca e Iulm”.
Continuiamo a parlarne.
dal Barbiere della Sera
Non so se qualcuno di voi si farebbe operare da un medico che non ha titolo.
Obiettivamente, però, c’è una differenza: nessuno può operare se non è medico, nemmeno se lo fa saltuariamente e non “professionalmente”.
Anche in un futuro la laurea servirà , invece, per esercitare il “giornalismo” come professione, non sarà , invece, un requisito necessario per scrivere un articolo. Confondere le due cose è pericoloso.
Proprio in questi giorni il Tribunale di Milano dovrà emettere una importante pronuncia: un giornalista nell’ambito di una causa con rito d’ugenza in tema di diritto d’autore, ha chiesto al giudice di ordinare alla controparte, non iscritta all’ordine, di non scrivere su un determinato argomento ed ha presentato un esposto al Consiglio dell’Ordine contro il direttore del giornale online che aveva pubblicato gli articoli.
Franco Abruzzo, in risposta anche a Ivo Caizzi (Corsera) e al Barbiere della sera
(Â…) Negli Usa, in base al primo emendamento, non si possono fare leggi sulla libertà di stampa e quindi sul giornalismo. I Paesi romanistici, come l’Italia, sul piano del diritto sono diversi: affidano ogni rapporto alla legge e ai Codici. Ivo è libero di pensarla come crede. Non si può, però, dimenticare che questo assetto è sostenuto dalla Costituzione, che vincola l’esercizio di una professione intellettuale al superamento dell’esame di Stato (che la Ue chiama “prova attitudinale” nella direttiva 89/48/Cee). Spetta al Parlamento affermare con legge che esiste una professione. E il Parlamento lo ha fatto nel 1963 per quanto riguarda il giornalismo professionale. La Consulta dal 1968 in poi ha scritto in diverse sentenze che l’Ordine dei Giornalisti è legittimo sotto il profilo costituzionale.(Â…)
Michele Urbano
Cara Letizia, hai ragione. La legge del 63, quella istitutiva dell’ Ordine
– è storicamente obsoleta. Secondo me, se resuscitasse, Gonella – che quella
legge ispirò – sarebbe il primo a chiederne un radicale cambiamento. Nella
direzione che anche tu indichi. Ma, attenzione, è utile precisarlo, sono
obsoleti l’ involucro e gli strumenti – quelli stabiliti dalla legge – non
i principi che 43 anni fa vennero stabiliti. Che sono – ricordo per comoditÃ
di chi legge – sostanzialmente tre:
1) Accesso e gestione dell’ albo
2) tribunale deontologico
3) osservatorio sulla professione e preparazione professionale (nella legge
si prevede addirittura la possibilità che l’ Ordine istituisca una scuola
superiore di giornalismo).
Su questi principi, su questi obiettivi, io personalmente non ho nulla da
ridire. Erano e restano sacrosanti.
Molto da dire, invece, ho sugli strumenti attuativi e sull’ albo bicefalo
professionisti-pubblicisti.
Cominciamo dagli strumenti. Facendo un esempio piccolo-piccolo che seguii
da vicino. Gli esami di Stato. Bene, oggi le macchine per scrivere non esistono
più. Tutti usiamo il computer. Che all’ esame è però vietato. Tre o quattro
anni fa, come Ordine nazionale, chiedemmo al ministero di autorizzare l’ uso
del portatile. La risposta fu che dovevamo preparare una proposta tecnica
che garantisse la riservatezza e la ‘solitudine’ del candidato. Un esperto
(pagato, ovviamente, dall’ Ordine) mise a punto un programma, un magico dischetto,
che inserito nel portatile lo riduceva a semplice macchina di scrittura.
Di più, avrebbe trascritto automaticamente (sul dischetto medesimo, da consegnare
poi ai commissari, che ne sarebbero stati edotti) qualunque operazione diversa
da quella consentita (scrivere tema, sintesi e questionario).
Il programma
ebbe l’ ok del tecnico del ministero circa la sua affidabilità a garantire
riservatezza e ‘solitudine’. Ma ciononostante ebbe il no del ministro con
il ‘buon’ argomento che l’ introduzione del portatile era comunque in contrasto
con la legge del 63. z
Conclusione: erano spiacenti di non poter accettare
la richiesta fino a riforma della legge!
Prima di fare un altro esempio più sostanziale, vorrei fare un paio di annotazioni
sulla scelta – spero irreversibile – della via universitaria al giornalismo.
Con una premessa. Che oggi rispetto al 63 la stragrande maggioranza dei giovani
che si avvicinano alla professione sono già laureati (e quindi in realtÃ
la riforma spaventa molto meno di quello che si racconta). E che le stesse
scuole di giornalismo riconosciute dall’ Ordine richiedono la laurea.
Ciò
detto dietro c’ è anche un altro problema. Quello di superare un’ anomalia
che era (ed è) peculiare della nostra professione: quella della sua ‘non
esclusività ‘. Nel senso che, a certe condizioni, all’ Ordine dei giornalisti
si possono iscrivere praticamente tutti.
La legge del 63 fa una distinzione
netta: da una parte i professionisti, ossia i giornalisti che svolgono attivitÃ
esclusiva, dall’ altra i pubblicisti, ovvero chi campa d’ altro. Due ruoli
diversi, due albi diversi, un solo Ordine.
Sottolineo il nulla di meno.
Infatti, se un giornalista che si occupa di medicina chiedesse l’ iscrizione
all’ Ordine dei medici l’ impiegato allo sportello chiamerebbe la neuro! L’ Ordine
dei giornalisti è invece tenuto a iscrivere anche il medico, l’ ingegnere,
l’ avvocato, che vivono facendo il medico, l’ ingegnere, l’ avvocato, ma che
dilettandosi a scrivere su qualche giornale, hanno titolo per chiedere l’ iscrizione
all’ albo dei pubblicisti e successivamente, se ne hanno voglia, di candidarsi
a rappresentare la categoria nell’ Ordine regionale e nazionale.
Un non senso.
Che 50 anni fa, quando ancora il ricordo del totalitarismo fascista era fresco
e terribile, si poteva forse capire. Ma oggi i problemi sono altri. E non
necessariamente meno gravi visto i giganteschi processi di concentrazione
editoriale nel mondo, Italia compresa.
Un’ anomalia concettuale che non si ferma alla definizione di chi è giornalista
e in quanto tale iscrivibile all’ ordine. La legge del 63 ha una sua implacabile
coerenza. Affermato il chi è stabilisce anche i criteri e le percentuali
di rappresentanza. Che non essendo mai stati modificati, alla luce dell’ astronomica
crescita della categoria dei professionisti, ma soprattutto dei pubblicisti,
hanno portato a una situazione semplicemente surreale.
E soprattutto nella vita concreta.
In una situazione in cui essere assunti è impresa disperata, molti colleghi
freelance non hanno altra strada che chiedere l’ iscrizione all?albo dei pubblicisti.
Insomma, ormai siamo alla logica della toppa sulla toppa. Che inevitabilmente
richiederà altre toppe.
Vado al sodo: il doppio albo, pubblicisti e professionisti, ha ancora senso?
La mia risposta è no. Ma sia chiaro: mi guardo bene dal risollevare l’ antica
e un po’ stantia guerra tra professionisti e pubblicisti. La semplice veritÃ
è che in 43 anni, per lo straordinario sviluppo tecnologico nel settore dell’ informazione,
intorno e dentro di noi, è cambiato tutto. Non solo le tecniche anche il
modo (anzi, i modi) di fare giornalismo.
Non condividerei, ma riuscirei a capire albi per specializzazione (carta,
tv, on line, radio). Ma francamente che senso ha il doppio albo?
La stessa
Fnsi – tre contratti fa, se non ricordo male – ha annullato, giustamente,
ogni differenza. Della serie: a eguale lavoro, eguale compenso. Perfetto.
Peccato solo che questo concetto di eguaglianza non può essere trasferito
e applicato all?’ Ordine. Anzi, a voler essere puntigliosi bisognerebbe dire
che per la legge non dovrebbe esistere nemmeno l’ eguaglianza contrattuale.
Un pubblicista, come lavoro principale, tutto potrebbe fare meno che il giornalista!
Tutto questo lungo argomentare per chiedere a tutti i colleghi una riflessione
critica e trasparente che solleciti i nostri Istituti (Ordine, Fnsi, Ipgi,
Casagit, Fondo) a rilanciare la battaglia (dentro e fuori la categoria) per
una riforma della legge professionale (e quindi dell’ Ordine) al passo con
i tempi.
Una riforma che avviando il superamento della vecchia logica dei
due albi possa certificare diritti e doveri del lavoro giornalistico, inteso
come professione esclusiva prodotta da una preparazione culturale specifica
di livello universitario.
Amedeo Vergani
Aggiungo qualche appunto per il dibattito:
1 – Sull’albo “bicefalo” e tutto l’incasinamento nella distinzione dei ruoli
degli appartenenti ai due elenchi, suggerisco ai colleghi la lettura del documento
pag.8 e 9) e e della memoria
pag 10,11 e 12 inviati ai Ministeri competenti dalla Fieg per contrastare
la via universitaria al giornalismo e nei quali emerge con chiarezza come,
laurea o meno, gli editori potranno continuare a far lavorare chi vogliono
fino a quando non verranno corretti gli attuali accordi sindacali pattuiti
con la Fnsi che permettono l’assunzione a pieno titolo dei pubblicisti anche
nelle redazioni centrali.
Chi avrà tempo e pazienza di leggere in toto
questi documenti scoprirà anche come le argomentazioni Fieg coincidano
spesso con quelle di Caizzi pubblicate dal “Corriere Economia”.
2 – Gonella &C , 43 anni fa, visto che avevano vissuto pienamente sulla
propria pelle museruole e duri reprimenda di una dittatura vera e feroce,
avevano anche il preciso obbiettivo di permettere ai cittadini di difendere
il proprio diritto ad un’informazione corretta e indipendente da qualsiasi
condizionamento attraverso uno strumento di controllo della professione
autonomo da qualsiasi altro potere, esami d’accesso compresi .
“Dettaglio” quest’ultimo che oggi mi sembra però indebolito dal fatto
che nella composizione delle commissioni previste dalla Siliquini gli
esaminatori giornalisti non rappresentano più la maggioranza.
Obbiettivo che, comunque, prima come cittadino che come giornalista,
credo dovrebbe valere ancora anche per qualsiasi altro possibile genere di
strumento sostitutivo dell’Odg e che non dovrebbe essere dimenticato anche
da chi , come appunto Caizzi sul Corriere, definisce l’Ordine “un’anomalia
solo italiana” senza spiegarci con cosa dovremmo rimpiazzarlo per
difenderci.