GIORNALISMO CORROTTO IN CINA, LA STAMPA TACE, BASTA PAGARE

LÂ’ altra faccia di un regime basato su propaganda e censura – Soldi in cambio della non pubblicazioni di notizie – Un fenomeno sempre più diffuso
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di Matteo Bosco Bortolaso

In Cina dilaga il giornalismo corrotto: la stampa può anche tacere, basta pagare. Il blackmail journalism è una strana creatura nata da un regime basato su propaganda e censura, dove – è bene ricordarlo – almeno trenta cronisti sono in prigione per ciò che hanno scritto. Da diverso tempo reporter cinesi o sedicenti tali si recano dai responsabili di miniere e ospedali chiedendo soldi in cambio della non pubblicazione di scandalose denunce. Il fenomeno è, in un certo senso, l’altra faccia – non meno perversa – dei censori che controllano scrupolosamente ogni singola notizia, bloccando quelle che potrebbero essere dannose agli scopi del governo o del partito. Eppure sulle miniere della Cina – le più pericolose al mondo – bisognerebbe indubbiamente indagare, visto che l’anno scorso gli incidenti sul lavoro hanno ucciso più di 4.700 persone, mentre nel 2005 i morti sono stati almeno 6.000. La sicurezza nelle miniere cinesi, molte delle quali illegali, viene spesso sacrificata pur di fornire il combustibile che alimenta l’industrializzazione e la rapida crescita economica del Paese.

Il blackmail journalism “è molto, molto frequente”, dice Ma Yunlong, direttore di Henan Business Time, tra i primi a raccontare una storia di estorsione avvenuta nella provincia centrale di Henan nell’agosto del 2005, dopo l’allagamento di una miniera in un villaggio nella contea di Jiliao. Il caso coinvolge circa cinquecento persone tra giornalisti o sedicenti tali che hanno chiesto una “tariffa per il silenzio”. Diversi “cronisti”, veri o presunti, hanno colto l’occasione per presentarsi davanti alla miniera e chiedere la loro “parcella”. Fan Youfeng, che lavorava per l’Henan Business Time, il giornale diretto da Ma Yunlong, si è recato sul luogo dell’incidente e ha visto una lunga fila di persone che aspettavano di ricevere i soldi. C’era chi spingeva e chi cercava di guadagnare una buona posizione scavalcando gli altri. Pare che, dopo diversi giorni, le estorsioni avessero fruttato 200 mila yuan, equivalenti a circa 19 mila euro. Incoraggiato dal direttore, Fan scrisse quel che era successo. Era una delle prima volte in cui si rendeva pubblica un’abitudine nascosta di un giornalismo dalla schiena poco dritta. Da Pechino, il dipartimento per la propaganda disse che la storia era “falsa e inappropriata”. Le pubblicazioni del giornale furono sospese per un mese, costringendo il direttore ad andare in pensione e il reporter a ricevere una reprimenda.

Un altro episodio riguarda una clinica di Jianmin, diretta dalla dottoressa Bai, che accusa un giornalista, Zhou You, di aver rinunciato ai doveri del suo mestiere per amore del denaro. “L’ho fatto per amicizia” replica Zhou You. La dottoressa aveva chiamato il reporter del Southern Metropolitan Daily perché aveva ricevuto minacce da due giornalisti, pronti a scrivere che la clinica non aveva i certificati per garantire certi servizi, tra cui gli aborti – anche sulla politica di contenimento delle nascite, ovviamente, ci sarebbe molto da scrivere. I due reporter erano Hua Kejian del Hanfang Daily e Liang Yongjian del Southern Metropolitan Daily,lo stesso giornale di Zhou, entrambi controllati dalla prestigiosa casa editrice Nanfang, con base a Guangzhou. Un terzo reporter, Song Yi, del Yangcheng Evening News,si sarebbe aggiunto più tardi. Zhou, invece, aveva conosciuto Bai per aver scritto quella che lui descrive come una storia “critica ma obiettiva” sulla clinica. Dopo trattative con i colleghi, il reporter avrebbe detto alla dottoressa che bisognava sborsare 15 mila yuan (circa 1.400 euro) per comprare l’omertà su fatti che, da quel che si sa, nessuno ha ancora verificato. Zhou diceva che avrebbe consegnato i soldi agli strozzini e che non avrebbe tenuto niente per sè. La cifra era alta: solitamente le bustarelle per i giornalisti si aggirano sulle centinia di yuan. Bai avrebbe fatto notare il prezzo eccessivo a Zhou, che avrebbe risposto che non c’era modo di ridurre il peso della bustarella, da dividere in tre pacchetti da 5 mila yuan ciascuno. La consegna sarebbe avvenuta in un parcheggio vicino al suo ufficio, a Shenzhen. Alla vigilia del pagamento delle bustarelle, però, Gou, il trentaduenne capo ufficio di Zhou, riceve una telefonata problematica. La dottoressa parla, il capo del reporter cerca di vericare. Lo scambio di denaro avviene, ma Zhou dice che i soldi non erano stati divisi in tre buste come richiesto. Il giornalista spiega che è da solo perché gli altri reporter sono troppo impegnati e voleva far loro un favore. Gou fotografa tutto e convoca i giornalisti che lavoravano per lui, Zhou e Liang. Il primo viene licenziato, il secondo assolto per mancanza di prove. I reporter del Hanfang Daily e del Yangcheng Evening News, invece,rimangono al loro posto.

Gou sostiene che questo è un caso isolato e che licenzierà chiunque adotterà un comportamento simile, ma ammette che spesso e volentieri uomini d’affari pagano i giornalisti per avere articoli favorevoli. Si parla di bustarelle – particolare ironico – dal colore rosso, che l’amministrazione cittadina di Shenzen avrebbe dato per pagare “il trasporto” dei giornalisti che si sarebbero presentati ad una conferenza stampa. Un giornale, inoltre, avrebbe ricevuto 300 mila yuan (circa 30 mila dollari) per un buon articolo sul governo della città. Tutto ciò in un contesto in cui sono gli stessi reporter a vendere abbonamenti e pubblicità alle istituzioni su cui devono scrivere.

Un altro presunto – e non meno inquietante – caso di blackmail journalism risale al 10 gennaio scorso: Lan Chengzhang viene pestato a morte durante una visita alla miniera di carbone di Daobanfang, vicino a Datong, a 260 miglia ad Ovest di Pechino, nella provincia di Shanxi. Per alcuni, Lan è un reporter morto per la libertà di stampa. Per altri è un impostore che fingeva di investigare sulla miniera. L’omicidio è stato rivelato via Internet a metà gennaio. L’uccisione del cronista trentaquattrenne è tutt’ora avvolta dal mistero. Il governo di Pechino, pare addirittura nelle persone del presidente Hu Jintao e del capo della propaganda del partito comunista, Li Changcuhn, ha dato ordine agli amministratori locali di indagare a fondo sull’accaduto. Jin Runxi, capo della polizia a Datong, racconta che Lan avrebbe suggerito ad un collega, Chang Hanwen, di andare insieme alla miniera perché questa stava operando illegalmente e il proprietario avrebbe dato loro mille yuan a testa per non divulgare l’informazione. Arrivati alla miniera, il padrone, Hou Zhengrun, chiede loro le credenziali, notando che i due “giornalisti” non avevano i bolli ufficiali sui documenti. Li accusa di tentare di corromperlo e chiede ai suoi uomini di picchiarli. Quindi lascia sdegnosamente mille yuan a testa, andandosene. Lan muore il giorno dopo, Jin sopravvive. Lan aveva cominciato a lavorare come magazziniere in una miniera statale, passando poi ad una nuova carriera nel 2005, come uno dei 36 investigatori di Safety Education Weekly, settimanale allegato a Modern Consumer Guide, pubblicata nella provincia di Shanxi. La rivista, riorganizzata nell’estate del 2006, licenzia Lan. Il 3 gennaio scorso Lan va all’ufficio di corrispondenza di Datong del China Trade News, organo semiufficiale del Consiglio cinese per la promozione del commercio internazionale. Ma Chang Xuri spiega che tra i compiti di Lan non c’era quello di investigare sulla miniera e, secondo un collega, le motivazioni del reporter non erano la ricerca della verità, ma quella del vile denaro. Insomma, eroe o impostore? L’unica cosa certa, purtroppo, è che Lan è morto.