IL CULTO DEI DILETTANTI:
IL LATO OSCURO DELLA ‘RIVOLUZIONE’
DEL CITIZEN JOURNALISM
Polemiche negli Stati Uniti dopo lÂ’ annuncio della prossima uscita di un saggio dal titolo provocatorio, ‘Â’Internet sta uccidendo la nostra culturaÂ’Â’ e in occasione dei dieci anni della nascita dei blog – La cultura del narcisismo digitale
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Un saggio di prossima pubblicazione (giugno) dal titolo ‘’The Cult of Amateurs: How Today’s Internet is killing Our Culture’’ sta già provocando forti polemiche prima ancora che sia in libreria. Il lavoro di Andrew Keen, storico e collaboratore di Weekly Standard, Fast Company e del San Francisco Chronicle, analizza in particolare ‘’i pericoli economici, etici e sociali della rivoluzione del Web 2.0’’ e il suo autore viene già accusato di cecità di fronte alla complessità della nuova cultura del lavoro collettivo volontario e partecipativo e di sostenere quindi, implicitamente, l’ impero in declino dei media broadcast.
Dan Gillmor
Keen ha innescato le polemiche lanciando sul suo sito Britannica blog, in occasione del decimo anniversario della nascita dei blog, un attacco molto duro a Dan Gillmor, padre del movimento del ‘’citizen journalismÂ’Â’ con il famosissimo saggio ‘’We, the MediaÂ’Â’. E Gillmor gli ha risposto altrettanto duramente. Ne è nata una discussione a più voci, che è andata avanti per qualche giorno e che può essere interessante ripercorrere per capire a che punto è il dibattito negli Usa.  Â
I blog, secondo Keen, sono ‘’il motore principale della cosiddetta rivoluzione del citizen journalism del Web 2.0’. Settanta milioni di blogger che sfornano un milione e mezzo di post ogni giorno.
 ‘’Per celebrare questa pietra miliare – dice acidamente Keen – l’ utopista della Silicon Valley Dan Gillmor, ha raccontato al Guardian:
‘’Il blogging e gli altri tipi di media fondati sulla ‘conversazione’ sono i principali strumenti di un web veramente read-write. Essi anno aiutato a trasformare i consumatori di media in creatori, e i creatori in persone che collaborano fra di loro- un cambiamento il cui impatto stiamo cominciando ad avvertire soltanto ora e ancora poco a capire’’.
Dunque – osserva Keen –, che cosa sta accadendo alle nostre tradizionali nozioni di lettori e autori in questo sistema mediatico democratizzato e partecipatorio? Per gli utopisti digitali della Silicon Valley, i mainstream media sono l’ equivalente della ‘borghesia’ nella escatologia marxista. Utopisti come Gillmor vedono i mainstream media come un racket di elite monopolizzato da inarrivabili esperti. Piuttosto che incoraggiare la cultura, essi credono, i mainstream media impediscono che vengano riconosciuti i veri talenti. La società , di conseguenza, è piena di vittime della cultura – scrittori non pubblicati, musicisti non ascoltati, registi non distribuiti…
Per questi utopisti della Silicon Valley – prosegue Keen – è qui che la rivoluzione della tecnologia digitale cambia tutto. Le ultime tecnologie di internet, che consentono a chiunque di pubblicare sui blog o di registrare la propria musica sul computer o, ancora, di distribuire i propri filmati sul web rompono le tradizionali barriere di entrata. Da piramide che era, l’ industria culturale viene trasformata in una torta. Col carburante della tecnologia digitale chiunque con un pc e una connessione a banda larga può essere uno scrittore, un regista, un musicista. La nostra creatività interiore viene liberata. Tutti possiamo scoprire l’ artista che si nasconde dentro di noi. Come Dan Gillmor rivendica in We, the media:
‘’Quando chiunque può essere uno scrittore, nel senso più ampio e per un auditorio globale, molti di noi lo diventeranno’’.
Invece di esperienza e autorità , la folla del Web 2.0 ci offre interattività e ‘’conversazioneÂ’Â’. Una delle più radicali di tutte le visioni utopistiche digitali è The Cluetrain Manifesto: The End of Business as Usual. Il libro comincia con le95 Tesi, lo stesso numero di quelle di Martin Lutero (questi del Cluetrain hanno la faccia tosta di pensare a loro stessi come dei Lutero contemporanei, che alimenteranno una nuova rivoluzione affiggendo le loro tesi ai portali elettronici). Tutte queste tesi si concentrano sulla erosione del concetto di esperienza negli affari e nel commercio. Alcune suonano così confusamente infantili che potrebbero essere state create da un teorico della letteratura completamente ubriaco:  Â
#1: Markets are conversations.
#7: Hyperlinks subvert hierarchy.
#20: Companies need to realize their markets are often laughing. At them.
#39: The community of discourse is the market.
#74: We are immune to advertising. Just forget it.
Scritto da un quartetto di digerati (digitali + -erati, come in letterati, ndr),  The Cluetrain Manifesto è un ottimo esempio del modo con cui il disprezzo della controcultura sessantottina per l’ autorità e la gerarchia si è fuso con l’ ottimismo libertario del tipico tecnologo alla Silicon Valley. Il nemico comune di entrambi sono le ‘’elite’’. Ci sono elite in ogni strato: politiche, economiche, culturali, sociali e tecnologiche.
Nel suo saggio del 1946  “Politics and the English Language’’, George Orwell scriveva che la parola fascismo aveva solo il significato di ‘’qualcosa di non desiderabile’’. Oggi l’ equivalente di ‘fascismo’ è ‘elitismo’’. Come hanno osservato critici come Thomas Frank e William Henry, la peggiore di tutti gli insulti linguistici contro qualcuno è accusarlo di essere un elitario.
Qual è l’ opposto di elite? E’ la persona normale – conosciuta a Silicon Valley come ‘we the media’. Sono questi 70 milioni di blogger che sfornano ogni giorno un milione e mezzo di post. Al posto dell’ artista creativo o dell’ uomo d’ affari o dell’ esperto, al posto di una elite, la tecnologia alimenta le masse. La tecnologia ‘’disintermedia’’ i mainstream media. I tradizionali padroni della cultura come gli studios di Hollywood o i giornali non hanno più il monopolio sulla produzione o i canali di informazione.
Ma la reale conseguenza – involontaria o meno che sia – della rivoluzione mediatica ‘’partecipatoriaÂ’Â’ della Silicon Valley è una cultura di narcisismo digitale in cui il più significativo referente culturale è il nostro io. Oggi, nel decimo anniversario dei blog, i media si stanno guardando in uno specchio. Dovunque noi guardiamo, ci troviamo di fronte a 70 milioni di versioni di noi stessi: i nostri diari elettronici, le nostre opinioni seminformate, la nostra stupidità e ignoranza. Questo sbocco antisociale della rivoluzione sociale del software sarà lÂ’ opposto dellÂ’ incubo distopico del ‘’1984Â’Â’ di George Orwell. Il Grande Fratello – che gli idealisti della Silicon Valley eufemizzano in ‘’citizen mediaÂ’Â’ – si sta trasformando in noi stessi”.
Per oltre una settimana sul blog di Keen è infuriata la polemica e il dibattito è stato ripreso da vari altri osservatori del settore.
Gillmor per primo ha replicato spiegando di essere stato completamente travisato: ho lavorato per 25 anni nei mainstream media – ha detto – e continuo a ritenere che il loro sia un ruolo vitale, ‘’tanto da aver impiegato tantissimo del mio tempo a cercare di capire come le redazioni dei media tradizionali potessero coinvolgere i lettori nel processo di produzione giornalistica’’. Più che desiderare la scomparsa dei media tradizionali – ha aggiunto – ‘’spero in un ecosistema mediatico diverso e più vibrante, che includa quelli tradizionali e serva tutti i cittadini in modo migliore’’.
Keen replica a sua volta: ‘’Dan, io non voglio un ‘ecosistema mediatico diverso’. Suona penosamente democratico e democraticamente penoso’’.
Il botta e risposta, fitto e aspro, si infittisce con l’ intervento di Amanda Chapel (alias Strumpette), che sul suo blog, Leader’s perspective, ha pubblicato una ampia intervista a Keen , e quelli di altri vari osservatori, a cui Gillmor replica punto per punto (come si può vedere nei commenti all’ articolo in questione).
Nella polemica è intervenuto anche Stowe Boyd , uno dei personaggi chiave del mondo digitale californiano, che sul suo blog ‘’/Message’’ ha scritto una lunga e articolata confutazione delle tesi di Keen, accusandolo di voler fare, snobisticamente, il bastian contrario e l’ iconoclasta a tutti i costi.
‘’Può darsi che la prossima volta – ironizza Boyd – se la prenderà col santo patrono di Internet, Marshall McLuhan, spiegandoci in tono petulante che il mondo non è un villaggio globale e che i media moderni non hanno provocato nessuna accelerazione sociale’’.
(p.r.)Â
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