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di Matteo Bosco Bortolaso
New York – Può sembrare un ossimoro, ma Life è morto. LÂ’ultimo numero della storica rivista che ha rivoluzionato il fotogiornalismo è uscito il 20 aprile.
È la terza “morte” del settimanale da quando il mitico editore Henry Luce, dopo aver lanciato Time e Fortune, lo acquistò nel 1936. Il primo annuncio di chiusura risale al 1972. Sei anni dopo, passato un periodo di interregno in cui appariva di tanto in tanto come “speciale”, la rivista riaprì i battenti come mensile, per chiudere nuovamente nel 2000 per problemi economici. Quindi Life ritornò in edicola nell’ottobre 2004, allegato a diversi quotidiani.
Alla terza morte, però, pare che non seguirà alcuna resurrezione, anche perché l’enorme archivio fotografico continuerà a vivere sul web, dove gli utenti potranno consultarlo gratuitamente.
Un tempo Life ospitava le opere dei più grandi fotografi del mondo, come Robert Capa e Margaret Bourke-White. Durante gli anni d’oro, quando il motto era “finché c’è vita c’è speranza”, la redazione occupava cinque piani di un palazzo a Midtown Manhattan, mentre adesso è ridotta ad un angolino con poche persone. Durante il periodo di successo, dal 1936 alla metà degli anni Sessanta, vendeva 13,5 milioni di copie ed era così influente che Harry Truman, Winston Churcill e Douglas McArthur decisero di scrivere le loro memorie sulle sue pagine. Quando, nel 1941, gli Usa entrarono nella seconda guerra mondiale, Life fece altrettanto, con quaranta corrispondenti di cui sei donne, che spedivano testi e foto dal fronte per mostravare la guerra agli americani, proprio come la televisione avrebbe fatto, anni dopo, con il Vietnam. Il motto della rivista diventò: “vedere Life, vedere il mondo”. Una delle foto più famose pubblicate dalla rivista è di Alfred Eisenstaedt: un’infermiera di New York viene abbracciata da un marinaio il 27 agosto 1945, il giorno della vittoria degli Stati Uniti sul Giappone.
Insomma, Luce e Life hanno scritto la storia del fotogiornalismo del Novecento, settimana dopo settimana. Adesso, però, come nota tristemente il New York Times, le pagine della rivista si sono ridotte ad una ventina, in gran parte dedicate ad interviste a celebrità e a consigli di economia domestica.
La casa editrice della rivista, Time Inc. del gruppo Time Warner, recentemente ha rivoluzionato anche unÂ’altra storica rivista del gruppo, Time, spostando gran parte delle risorse allÂ’edizione su Internet, licenziando, invece, parte dei dipendenti.
Anche Life viene ripensato secondo i parametri dell’era digitale, facendo migrare le preziose fotografie sul web. Secondo l’azienda il modello attuale, ossia la distribuzione settimanale in allegato con i quotidiani, è fallito. “Mentre i consumatori hanno risposto con entusiasmo a Life – scrive Time Inc. in una nota – le vendite dei giornali sono diminuite e la prospettiva per le inserzioni nei supplementi dei giornali non fa ben sperare, quindi il modello, così com’è, non è abbastanza forte da garantire ulteriori investimenti”.
Nel combattere i concorrenti, la rivista si era piazzata terza dopo Parade, posseduta da Advance Publications, e Usa Weekend, di proprietà della Gannett. La prima ha una diffusione di 32 milioni di copie, distribuite con quattocento giornali. La seconda, invece, ne vende 23, accoppiate con 612 diversi quotidiani. Life, invece, era in partnership con 103 giornali – tra cui Washington Post, New York Daily News, Los Angeles Times, Chicago Tribune, Denver Post – e aveva una diffusione di 13 milioni di copie. Mediaweek, settimanale di New York posseduto dalla Nielsen che è il corrispettivo dell’italiano Prima Comunicazione, ha certificato che tutte e tre le pubblicazioni hanno perso nel primo trimestre di quest’anno: Parade l’1%, Usa Weekend il 12% e Life il 10%.
Secondo Rany Siegel, editore di Parade, la scelta di “rendere Life un capro espiatorio” è profondamente sbagliata. Siegel ammette che i quotidiani sono in declino e che le entrate sono diminuite fortemente nell’ultimo mese, ma “l’incapacità di Life ad avere successo è un’altra questione”. A parere dell’editore concorrente, la linea editoriale della rivista è lodevole, il problema è che l’azienda ha rifiutato la pubblicità di chi storicamente ha sempre sostenuto economicante i supplementi ai giornali, cioè gli inserzionisti che giocano sugli impulsi all’acquisto del lettore, spesso con riferimenti a cibi e diete.
“Quando hanno deciso di diventare un supplemento – spiega Siegel – avevano dichiarato pubblicamente che volevano il supporto di questi inserzionisti, che sono invece fondamentali nel nostro settore. I ragazzi di Life avevano pensato di poter puntare a pubblicità di più alto livello”. Secondo Marcia Bullard, presidente ed amministratore delegato di Usa Weekend, la rivista concorrente ha dovuto imbarcarsi in spese onerose perché ha usato carta di alta qualità e ha voluto entrare in una sola volta in tanti mercati, tutti molto ampi, aumentando in maniera spropositata i costi di ditribuzione. “Fa onore che ci abbiano provato – dice la Bullard – ma non hanno attratto la pubblicità che serviva per continuare a percorrere questa strada”. Insomma, alla redazione della storica rivista fotografica hanno voluto troppo: “l’antidoto” proposto da Bill Shapiro, managing editor che ha provato un salvataggio in extremis, non è servito. “Finché c’è vita, c’è speranza” era il motto della rivista. Adesso che Life è diventato digitale, la speranza corre sul web.