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USA: PRESIDENZIALI SEMPRE PIUÂ’ TELEMATICHE


Il ruolo di YouTube – Al confronto di Charleston con i democratici domande originali, non altrettanto le risposte: i candidati non si sono ancora abituati al nuovo mezzo – Presto toccherà ai candidati più conservatori del Grand Old Party, il partito repubblicano: molti di essi non volevano partecipare al dibattito previsto inizialmente per il 17 settembre e spostato al 28 novembre grazie alla mobilitazione di blogger e consulenti politici repubblicani —————– 

 

di Matteo Bosco Bortolaso
Antonella Napolitano

 

New York. Non sottovalutate la potenza di YouTube, il sito per condividere brevi videoclip preparati in maniera artigianale o estrapolati dal flusso audiovisivo che ci sommerge ogni giorno.

Corteggiato dalla regina delle reti televisive all-news, fa paura ai governi che non amano la democrazia. Qualche mese fa la CNN ha deciso di seguire in maniera innovativa la corsa alle elezioni per il nuovo presidente degli Stati Uniti, siglando un accordo con l’ azienda acquistata l’anno scorso da Google. “Un incontro di vecchio e nuovo”, secondo il Washington Post, che sottolinea ancora una volta come il nuovo inquilino della Casa Bianca verrà deciso da un elettorato sempre più telematico. Per il dibattito dei candidati democratici, tenutosi in luglio a Charleston (Sud Carolina), gli utenti di YouTube hanno preparato brevi interventi filmati, in cui rivolgevano –  a modo loro – domande su Iraq, sanità, istruzione e molto altro. La CNN ha selezionato le domande, introdotte nello studio di Charleston dal presentatore Anderson Cooper, che aveva richiesto agli intervistatori (e spettatori) di “essere creativi…e non giocare sporco”. Il fatto che la rete televisiva di Atlanta abbia scelto i quesiti più adatti ha suscitato non poche perplessità tra internauti e blogger: YouTube e utenti non hanno avuto alcuna parte nella scelta delle domande. La costruzione di una “democrazia dal basso”, quella che tanto piace agli enciclopedisti di Wikipedia, sarebbe stata fermata dalle decisioni di una manciata di persone in una anonima newsroom. Il sito di videosharing ha inoltre permesso a dieci degli utenti più attivi di essere presenti al dibattito a Charleston.

Alcune tra le loro domande – una minima parte, a dire il vero – sono state effettivamente mandate in onda e gli autori, dopo la risposta dei candidati, hanno potuto interagire con loro. Ad ogni modo, i quesiti sono stati posti in maniera originale: YouTube, anche in questo caso, ha liberato la creatività. In un filmato, per esempio, un pupazzo di neve si è detto preoccupato per il suo figlioletto: il riscaldamento del globo potrebbe presto scioglierlo. Una coppia gay, invece, ha chiesto candidamente perché non si potessero sposare. Un uomo di mezza età, infine, ha spiegato di aver perso padre, nonno, e un figlio in guerra, chiedendo ai candidati se faranno qualcosa per evitare che un altro suo “ragazzo” nell’esercito a stelle e strisce non li raggiunga presto.

L’impressione generale del dibattito? Domande originali, non altrettanto le risposte. I candidati, in altre parole, non si sono ancora abituati al nuovo mezzo di comunicazione. Sarà interessante analizzare la strategia dei candidati  più conservatori del Grand Old Party, il partito repubblicano: molti candidati repubblicani non volevano partecipare al dibattito previsto inizialmente per il 17 settembre e spostato al 28 novembre grazie alla mobilitazione di blogger e consulenti politici repubblicani sul sito http://www.savethedebate.com.

Il sito di video sharing, secondo molti, potrebbe essere uno strumento utile alla diffusione della democrazia. Tanto da essere osteggiato da diversi governi. “Molti Paesi si sentono minacciati dalla esplosiva crescita di popolarità di YouTube” ha detto all’International Herald tribune Ronald Deibert, direttore del Citizen Lab all’Università di Toronto e membro della Open Net Initiative, un gruppo di studiosi che controlla la censura su Internet. Secondo l’esperto, “i governi stanno diventanto sempre più esperti e sanno come le persone usano questi strumenti per promuovere le rivoluzioni”.

Il sito, comprato da Google il novembre scorso per 1,6 miliardi di dollari, terrorizza le capitali più autoritarie. La Thailandia, guidata da una giunta militare, ha oscurato il sito perché alcuni video schernivano il re Bhumibol Adulyadej. Un tribunale turco, invece, ha ordinato che i gestori locali bloccassero l’accesso al sito a causa di alcune clip che denigravano Mustafa Kemal Ataturk, il padre fondatore della democrazia nel Paese. La situazione è simle  in Iran, che da dicembre ha chiuso anche molti altri siti accusandoli di influenze “corruttrici”, oppure in Cina, che ha bloccato un contenitore simile a YouTube, DailyMotion. La Open Net Initiative ha contato almeno due dozzine di Paesi che hanno bloccato contenuti ritenuti offensivi.

In Italia, invece, YouTube solleva dubbi perché è diventato anche il contenitore di video che propagandano il bullismo a scuola. Il problema è sentito anche in Gran Bretagna, dove il segretario all’educazione del governo di Londra, Alan Johnson, ha chiesto a Youtube di non pubblicare video dove gli studenti insultano gli insegnanti. Per ora la “censura” su YouTube si limita alla rimozione di alcuni video che potrebbero essere offensivi o troppo espliciti su certi contenuti. I visitatori del sito sono invitati a segnalare i video che ritengono inappropriati. Queste clip sono controllate dai gestori di YouTube, che hanno l’ultima parola sulla rimozione o meno. L’International Herald Tribune si chiede comunque se qualcosa ritenuto inoffensivo a San Bruno, in California, potrebbe comunque esserlo in altre parti del mondo.

YouTube è nato negli Stati Uniti, ma sta crescendo rapidamente in Africa e in Medio Oriente. Secondo la ComScore Networks, che controlla il traffico di utenti su Internet, tre quarti dei 134 milioni di visitatori del sito vengono da Paesi esterni al Nord America. Secondo gli analisti, il passo di Google dopo l’acquisizione non si chiama globalizzazione, bensì localizzazione. Questa zonificazione è già cominciata: esiste un indirizzo globale, uno italiano, uno irlandese, uno francese e così via. Il punto è che proprio la versione cinese di Google (http://www.google.cn) a non piacere al governo di Pechino, che si è lamentato fino ad ottenere l’oscuramento del sito. Il pericolo, secondo Julien Pain, capo del desk di Reporters Sans Frontières che si occupa di libertà su Internet, è che la Cina, dopo aver censurato Google, possa bloccare anche YouTube. “Se Google sarà d’accordo nel bloccare YouTube, allora i cinesi avranno vinto – dice Pain – e purtroppo siamo già su una china scivolosa”.

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