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1) – Salvatore Stefio, uno dei quattro contractors italiani rapiti in Iraq il 12 aprile del 2004, sarà processato perché accusato dalla Procura di Bari di aver arruolato soldati “non autorizzati a servizio di uno stato estero”. 2) – Nella zona circostante il carcere Los Cabitos, nella città di Ayacucho in Perù, è stata scoperta un enorme fossa comune contenente i resti di un migliaio di persone, comprese donne incinte e bambini, vittime dei massacri compiuti da gruppi di paramilitari che, come ha stabilito una recente sentenza, hanno spadroneggiato, fino a pochi anni fa, con la benedizione dell’ex presidente Alberto Fujimori, sotto processo a Lima per crimini contro l’umanità.
Sono solo due delle inquietanti notizie di carattere internazionale “curiosamente ignorate, nascoste o minimizzate dai grandi mezzi d’informazione anche del nostro paese, un paese del G8, dove ogni giorno sottolineiamo di essere democratici”.
E’ dedicato alla “Singolare scelta delle notizie sull’ America Latina” l’ editoriale con cui Gianni Minà apre l’ ultimo numero di LatinoAmerica.
L’informazione dei nostri media sull’America latina e particolarmente su nazioni indigeste agli Stati uniti come Cuba, Venezuela o Bolivia – rileva fra l’ altro Minà – , è stata sempre scorretta e spesso perfino grottesca. Ma ci sono periodi, come quello attuale, di profonda crisi dell’immagine degli Stati uniti e della credibilità dell’Occidente, in cui questo atteggiamento diventa quasi un insulto per l’intelligenza degli stessi lettori. Come si fa a credere ancora in un paese, definito bandiera della democrazia, dove i processi senza prove a presunti terroristi sono cominciati nella base di Guantánamo di fronte a “commissioni militari” e non di fronte a tribunali con giudici e avvocati? Ma l’informazione occidentale ha smesso di porsi questo interrogativo
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Come dimostrano, appunto, le varie notizie inquietanti taciute o manipolate dai media occidentali.
La preoccupazione più palese dei nostri media, negli stessi giorni di queste notizie- sottolinea Minà nel suo editoriale – era che Raúl Castro, riaprendo le porte degli alberghi di lusso ai cubani, non avesse considerato il fatto che, magari, una notte al mitico hotel Nacional de l’Avana costasse a un cittadino medio l’equivalente di dieci stipendi. Come se tutti i francesi, specie quelli delle banlieues, si potessero permettere una suite al Ritz di Parigi, o come se i milioni di esseri umani che in Brasile vivono nelle favelas avessero la consuetudine di passare qualche giorno negli alberghi di Ipanema o di Leblon a Rio de Janeiro. Se è lo stato a vietarti un consumo per assicurarti magari un’assistenza, una tutela, non è accettabile. Ma se te lo nega il mercato invece sì.
Quando, negli anni ‘90, crollò il comunismo sovietico e vennero meno i rapporti economici con i paesi del Comecon, Cuba, che [forse è il caso di ricordarlo] è un’isola dei Caraibi e non il Liechtenstein, l’Olanda o la Spagna, puntò tutto sul turismo. Ma, come ha ricordato in questo numero di Latinoamerica Salim Lamrani, non aveva abbastanza strutture per accogliere la massa di turisti che avrebbero assicurato la sopravvivenza al paese, ancora strangolato dall’immorale e antistorico embargo degli Stati uniti. Dare quindi la precedenza ai turisti stranieri, portatori di valuta pregiata, è stata per lungo tempo una scelta obbligata. Ma per cogliere questi aspetti ci vorrebbe un po’ di onestà intellettuale, che per Cuba dalle nostre parti non c’è mai.