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Free press: profitti e miopia (della stampa)

Un articolo di Piet Bakker (nella foto) su Newspaperinnovation segnala il grande rilievo che la stampa ha dato a una sua valutazione sulla difficoltà di fare soldi anche per la free press – Ma allora, si chiede il docente olandese, considerato uno dei maggiori esperti mondiali di giornali gratuiti, che cosa si dovrebbe dire di Times, Evening Standard, Independent, New York Post, New York Sun, Washington Times, Le Monde, Le Figaro etc? – E poi, conclude, “per i giornali a pagamento che perdono soldi sembra quasi naturale che vengano erogati dei sussidi. Quando invece perdono soldi quelli gratuiti il fatto viene celebrato molto spesso come la morte auspicata di un nemico mortale”

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di Piet Bakker
(da FDN NEWSLETTER NO. 33)

 

Sull’ onda delle perdite del gruppo Metro nel primo quadrimestre 2008, della chiusura del Boston Now e del “rosso” nei conti del gratuito di Murdoch, thelondonpaper, il problema della scarsa resa in termini di profitti dei quotidiani gratuiti è stato al centro di molte discussioni.

Uno dei punti più toccati dal dibattito è stata la mia recente valutazione secondo cui il 70% di questi giornali non fanno profitti. Si trattava di una valutazione grezza anche perché molti giornali sono gestiti in maniera privatistica oppure i loro bilanci non vengono resi noti autonomamente.

Molti media hanno ripreso questa valutazione per sostenere un interrogativo di fondo: ma il modello “quotidiano gratuito” ha un futuro?

Degli oltre 300 quotidiani lanciati finora quasi un quarto (74) hanno chiuso, molti all’ inizio. Giornali sportivi, quotidiani del pomeriggio e quelli entrati in mercati già popolati sono stati i primi a chiudere i battenti. Questi, ovviamente, non facevano soldi.

Quasi la metà delle rimanenti 235 testate sono state lanciate dal 2005 in poi: i costi di lancio sono molto rilevanti e quasi nessun giornale si attende profitti nei primi anni di vita.

E in più, molti di questi giornali sono stati lanciati in zone dove già c’ erano due o tre gratuiti: Danimarca, Svizzera, Spagna, Francia, Italia, Olanda, Portogallo, Svezia, Corea, Hong Kong, Israele. La concorrenza è alta e i prezzi della pubblicità sono sotto pressione. Mentre qualche nuovo entrato ha cominciato subito a fare profitti (Svezia, UK), la maggior parte conta su almeno tre anni mentre qualcuno addirittura (Bolloré ad esempio) pensa che ne vogliano addirittura di più.
 
Fanno soldi le testate che sono sul mercato da più tempo, anche se non tutte. Qualcuno a causa della forte concorrenza oppure perché hanno lanciato qualche nuova edizione che pesa molto sui costi.

E poi la recessione non aiuta.Il fatto che i tre giornali chiusi nel 2008 siano Usa non è una coincidenza. La mancanza di qualcuno che investisse su BostonNow è sicuramente legata alla congiuntura negatva. La stampa è un settore che risente moltissimo delle oscillazioni economiche.

Molte delle 75 chiusure registrate risalgono al 2001 e al 2006/2007. Molte testate non hanno atteso il tempo necessario per cominciare a fare profitti. Attualmente molti investitori non hanno la pazienza di aspettare.

Ma più interessante è capire il perché tanti giornali hanno pubblicato articoli sulla questione della presunta mancanza di profitti.

Mi sembra che ci sia una sorta di miopia relativamente ai giornali che vanno male. Che cosa si dovrebbe dire allora di Times, Evening Standard, Independent, New York Post, New York Sun, Washington Times, Le Monde, Le Figaro etc?

Non si parla invece della differenza fra giornali gratuiti e a pagamento in relazione ai sussidi pubblici. IN Europa molti giornali vengono sostenuti dallo Stato, sia direttamente che attraverso facilitazioni fiscali o postali. Generalmente i gratuiti sono esclusi da queste sovvenzioni. Per i giornali a pagamento che perdono soldi sembra quasi naturale che vengano erogati dei benefici. Quando invece perdono soldi quelli gratuiti il fatto viene celebrato il più spesso possibile come la morte auspicata di un nemico mortale.

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