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Speranze e inquietudini sono emerse dall’ incontro dell’ONA (Online News Association), considerata la più importante conferenza Usa sul giornalismo online, che si è tenuto nei giorni scorsi a Washington.
Speranze certamente – sintetizza Eric Sherer, su Mediawatch.afp – , vista l’ energia prodotta dallo scatto dei video nelle redazioni dei giornali, e un giornalismo sempre più visuale. Dieci anni dopo l’ arrivo di Internet nella stampa, e grazie ai suoi nuovi strumenti, i media raccontano il mondo in maniera diversa.
Ma anche inquietudini, perché i conti continuano a non tornare. Anzi. Dieci anni dopo, appunto, il web arriva a rappresentare appena… il 10% delle entrate dei giornali Usa. Impossibile far vivere le redazioni. « Non riusciamo a monetizzare il web abbastanza velocemente ». Peggio : l’ obbiettivo di tutti (arrivare sul 20-25%) non sembra del tutto a portata di mano. Tutti sono d’ accordo che ci vorranno ancora attorno a « 5 o 6 anni ».
Il business model è ormai spezzato – sottolinea Sherer – con la caduta accelerata della diffusione e dell’ audience, senza che Internet, e ancor meno il ‘mobile’, siano ancora in grado di prendere, a breve o medio termine, la posizione.
Intanto, la copertura internazionale e —fatto nuovo — nazionale, sono ormai pubblicamente lasciate alle agenzie di stampa, per riservare le forze sul « locale, o anche l’ iper-locale ». Le risorse per un vero giornalismo investigativo di qualità sono sempre più volatili, salvo ricorrere a delle soluzioni tipo non di lucro (Fondazioni, ecc.). Più sorprendentemente: l’ integrazione delle redazioni (classiche e web), dove non mancano le tensioni generazionali, continua a porre dei grossi problemi.
Alcuni siti di informazione verticale, come l’ Huffington Post, riescono, ma non spendono niente per i contenuti, contentandosi di ospitare dei contributi e di segnare link verso siti giudicati rilevanti. Questa nuova « economia dei link », cara a Jeff Jarvis, è stata al centro di tutte le discussioni. Con una parola sempre più presente: « curation » o « curator » (nel senso di chi cura una mostra scegliendo i quadri da esporre – qui i link e le fonti). Il giornalismo dei link, con la sua voce e le sue scelte. L’ ironia è che i dizionari danno per primo al termine “curator” il significato di uno «incaricato di assistere una persona gravemente inabile »!
Per i giornali sono state proposte con insistenza anche delle possibili strade da percorrere:
- Separare la produzione giornalistica da tutto il resto, comprese la stampa e la distribuzione. Per cercare di preservare il giornalismo il Washington Post, come il NYTimes, lo finanziano con delle attività connesse (educazione, siti commerciali…).
- Annunciare con anticipo una data entro cui la “stampa” si fermerà, spiegando ai lettori i problemi attuali e i progetti su 3/5 anni per uscirne.
- Rafforzare il web e trasformare il quotidiano a stampa in settimanali.
Tutti moltiplicano all’ infinito le sperimentazioni digitali. Siamo ancora nella fase « trial & error », con un giornalismo che, finalmente, ha capito che si può essere « platform agnostic » (pluripiattaforma). Il problema è semmai immaginare dei nuovi mezzi per continuare a far sentire all’ esterno la propria voce e a convincere del proprio ruolo e della propria utilità.
Sherer, poi, sottolinea un altro aspetto emerso con forza dalla Conferenza dell’ ONA. La sempre maggiore determinazione con cui i nuovi responsabili editoriali, « nati » con il digitale, intendono imporre la propria leadership nei media, rispetto alla vecchia generazione, giudicata ormai superata e impotente.