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Giornalismo partecipativo: quello reale non è perfetto, ma non si può non crederci

Un ampio dibattito, anche molto critico, in Francia dopo l’ avvio di Médiapart.fr – La partecipazione – dice ad esempio Philippe Couve – non consiste nel far fare ad altri il lavoro dei giornalisti, ma nell’ apertura e nella collaborazione attiva fra redazione e non-giornalisti – E’ per questo – aggiunge – che io preferisco il termine di co-giornalismo – I cinque punti di Benoit Raphael – I falsi miraggi della partecipazione

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Se in poco tempo il “citizen journalism” reale, quello realmente praticato, di Dan Gillmor con  Bayosphere* , si rivela meno scintillante di quello raccontato**, e il dubbio sulla praticabilità  e, soprattutto, sulla resa del giornalismo fatto dai e con i cittadini continua a rafforzarsi, c’ è chi, pur con qualche distinguo, continua a ritenere che, alla fin fine, non ci si può non credere.

Uno di questi è Benoit Raphael che, sul suo blog , prende spunto dal recente lancio di Mediapart.fr e spiega perché “bisogna credere ai media partecipativi”.

Precisando di non aver niente di particolare per ora da dire sul nuovo sito, Raphael invita a lasciare al nuovo venuto il tempo di mettere a regime il suo modello di partecipazione stile-club e la sua scommessa sugli abbonamenti a pagamento (Vedi Lsdi).

Nell’ attesa, comunque,  Raphael elenca almeno 5 motivi per cui bisognerebbe credere a una testata partecipativa.

1- La partecipazione va nel senso di una democratizzazione dell’ informazione. Operando all’ interno della fabbrica dell’ informazione,  comprendendone i meccanismi, collaborando strettamente con dei media, apportando in questa dinamica il proprio vissuto dell’ attualità, il lettore (e in particolare le giovani generazioni) hanno una straordinaria opportunità di riappropriarsi l’ informazione.

2- La partecipazione moltiplica le fonti di informazione. E, tutti i giornalisti ne converranno, è una cosa piuttosto buona.
Milioni di lettori=milioni di testimoni. E’ la grande virtù del giornalismo collaborativo: permettere ai testimoni di mettere in circolo foto, video e informazioni inedite. Attraverso la moltiplicazione delle testimonianze si arricchisce la tessitura dell’ informazione.
Una volta il giornalista era il primo testimone dell’ avvenimento. Evidentemente ha perduto questo status a favore di coloro che l’ attualità la vivono. Ma il suo ruolo è ormai diventato essenziale nel lavoro di qualificazione, di verifica e di trattamento della materia bruta. E a cui fanno capo anche i processi di indagine giornalistica. 

3- L’ informazione non è più solo appannaggio dei media.  La verifica e il filtraggio invece sì.
E’ abbastanza sano che il giornalismo trovi nei meccanismi di Internet il suo contro-potere. La moltiplicazione delle testimonianze e delle fonti di informazione sulla rete è una buona cosa. Tuttavia questa situazione inedita pone oggi un problema di chiarezza e di tracciabilità all’ internauta in cerca di infrmazioni. I lettori (come i giornalisti d’ altronde…) non sanno mai come reagire di fronte a una informazione bruta lasciata andare lì sulla rete via  YouTube o Facebook. Di fronte a questo aumento delle fonti, si rivolgeranno prioritariamente ai media che conoscono. Quindi (se non rifiutano questo ruolo), verso dei giornalisti la cui pratica resta sempre nell’ orizzonte di un artigianato rigoroso: verificare, ritagliare e contestualizzare questa nuova materia informativa di provenienza amatoriale (che la CNN definisce il reportage personale).

4- La partecipazione permette ai giornalisti di lasciarsi di nuovo sorprendere nel loro trattamento dell’ attualità.
Prima perché sono ormai in conversazione permanente con i lettori e i testimoni (che possono correggerli). Ma non solo: mentre alcuni media tradizionali hanno ancora la tendenza ad andare a cercare LA testimonianza che illustri un servizio dell’ AFP (a volte passandosi lo stesso testimone fra duversi media), la partecipazione fa espolodere questo meccanismo. E costringe i giornalisti a confrontarsi con la complessità del terreno, specialmente quello locale.

Infine, i lettori (che influiscono sulla gerarchizzazione degli argomenti di trattare), giocano anche un ruolo di veglia sull’ informazione, di messa in prospettiva.
Possono far tornare a galla l’ informazione detta “off” (off the media). E così pongono delle domande ai giornalisti ( o alla comunità) su deu fatti che secondo loro erano stati ingiustamente ignorati.

5- La partecipazione aiuta a riformare i codici del giornalismo.
Inutile ricordare tutto quello che i blogger, col loro trattamento “pirata” dell’ attualità, hanno apportato al mestiere in termini di editing, di approccio dell’ informazione in reti, di condivisioni di dati, di conversazione…

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Naturalmente, secondo Benoit Raphael, ci sono varie osservazioni che non collimano perfettamente con questo quadro sostanzialmente ottimistico del giornalismo partecipativo. Molti hanno criticato il suo approccio sottolineando delle osservazioni altrettanto giuste e motivate.

Per esempio:     

– Partecipare non vuol dire che il lettore si trasformi in giornalista, ancor meno in “giornalista cittadino”. Lo si è visto .

Ciò nonostante, il mezzo partecipativo non è soltanto una redazione che lasci a la parola ai “lettori” (che d’ altra parte non hanno nessun bisogno di giornalisti per prendere a parola). E’ una redazione che fabbrica l’ informazione in forma di conversazione – ma soprattutto in collaborazione attiva – con dei non-giornalisti: cioè con gli attori diretti di questa attualità (che possono essere degli anonimi come delle personalità).

Si tratta di una rete iper-dinamica di fonti di informazione che il giornalista deve saper animare.

Essendo l’ obbiettivo quello di produrre una informazione che sia la più vicina al quotidiano dei propri lettori.

I giornalisti costruiscono dunque le loro informazioni in maniera porosa, superando le nozioni di oggettività e soggettività con quella di onestà (formula presa in prestito a Philippe Couve).

– La partecipazione non ha niente di nuovo. In ogni momento i non-giornalisti hanno partecipato all’ informazione. Creando essi stessi i propri media (lo si è visto con le radio libere).

Internet, ce non è un mezzo ma un meccanismo, ha reso questa dinamica di condivisione dei dati più spontanea e più libera. 

– Gloriarsi di essere un mezzo partecipativo oggi non dovrebbe più essere necessario. In breve qualsiasi mezzo sulla rete sarà dotato di una dimensione partecipativa.

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Considerazioni a cui si aggiunge, più in generale, l’ accusa di troppi fumi e troppe astrattezze nella glorificazione del partecipativo.
Sul suo blog –  http://www.samsa.fr/2008/03/15/participatif-oui-non-de-plus-en-plus/Philippe Couve cita con forte “partecipazione” un articolo di Philippe Astor: les vrais faux mirages du participatif (I veri falsi miraggi della partecipazione).

La proporzione dei contributi effettuati dagli “amministratori” di Wikipedia (in pratica i superutilizzatori del cosiddetto club dei 500, quelli che dispongono del diritto digestive il sito) ha registrato un picco del 59% nel 2002. Questa influenza di una élite è continuata fino al 2004, prima di declinare progressivamente fino al punto da non rappresentare, alla fine del 2006, più del 10% dei produttori di contributi.

L’aumento o il declino della percentuale di articoli fatti dagli ‘admin’ non si spiega con un calo della loro attività editoriale o del loro carico di lavoro” – spiegano gli autori -. Al contrario, i dati raccolti “suggeriscono l’ ipotesi secondo cui questo declino sarebbe dovuto a un picco del numero di articoli scritti da non-amministratori, cosa che accrediterebbe l’ idea di una crescente influenza delle masse”.

Un articolo sulla stessa lunghezza d’ onda di un post di Couve centrato sull’  l’età infantile della partecipazione .

Couve si limita a una sola osservazione:

“la maggior parte dei giornalisti si aspettano che la partecipazione si materializzi sotto forma di interventi comparabili punto per punto con quelli che loro stessi ossono produrre? Pensano che il loro mestiere sia così semplice e le lor competenze così evidenti che il primo arrivato sarebbe in grado di padroneggiarle?

La partecipazione – ribatte Couve – non consiste nel far fare ad altri il lavoro dei giornalisti. E’ per questo che io preferisco il termine di co-giornalismo.

Bisogna considerare la partecipazione come un apporto possibile che può prendere forme diverse.
– A livello base i commenti ad un articolo (a parità di contenuto) possono servire da indicatore dell’ interesse per un argomento
– A un livello più elaborato gli internauti possono aiutare i giornalisti a raccogliere notevoli quantità di dati (cifre soprattutto, perché meno soggette a interpretazione a priori). Utilizzata più volte negli Usa per effettuare dei rilevamenti dei prezzi in zone molto vaste e analizzare poi le differenze constatate.

Inoltre gli internauti possono ugualmente mettere i giornalisti sulla pista di informazioni che provengono dalle loro testimonianze.
Infine, alcuni internauti possono giocare un ruolo di semi-giornalista (o anche di giornalisti tout court, come si vede su certi blog) facendo un lavoro di vigilanza sull’ informazione e mettendo in collegamento delle informazioni diverse in modo da dar loro un senso.  
L’ elenco non è certo esaustivo ma punta a mostrare che lo spettro della partecipazione è ampio ed è largamente ignorato.

Detto questo, gli internauti pronti a partecipare non sono troppo numerosi (proporzionalmente), come ha scoperto uno  studio di Forrester che è stato appena pubblicato. qui vient d’être publiée et dont nous parlerons dans la prochaine édition de l’Atelier des médias.

Resta da dire che il 10% di internauti pronti alla partecipazione significa su scala della popolazione francese 300.000 persone (secondo le ultime stime ). Una cifra da comparare con i  37 000 giornalisti ufficiali di Francia.

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* Un  progetto di giornalismo dal basso con l’ obbiettivo, alto, di coinvolgere, in nome del protagonismo informativo delle masse, la comunità della Baia di San Francisco in un’impresa mediatica, culturale, civica, tutta, rigorosamente, partecipativa. 

**Lo stesso Gillmor ammette:  “Hanno partecipato molti meno cittadini [di quanto ci aspettassimo], sono stati poco interessati a collaborare l’uno con l’altro, e la risposta alle nostre iniziative è stata insoddisfacente”.

Vedi:
http://mastroblog.wordpress.com/2008/03/01/meglio-non-crederci/
http://www.repubblica.it/2005/b/rubriche/scenedigitali/bayosphere/bayosphere.html?ref=hprub
http://mariotedeschini.blog.kataweb.it/giornalismodaltri/2006/01/26/
citizen-journalism-dan-gillmor-non-ce-lha-fatta/

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