I giornali e la rete: il nuovo modello economico? Per ora non c’ è
In un intervento nel Forum che Britannica blog ha lanciato nei giorni scorsi sul tema “Giornali e Netâ€, Jay Rosen mette a fuoco la situazione di assoluta incertezza che domina in questa fase l’ industria del giornalismo – Non si può escludere che qualcuno dei beni pubblici prodotti finora dai giornali venga perduto – Il modello delle Lettere dei Fugger alla fine del 1500 e le “Specialty Newsletter†– I nuovi sistemi di sostentamento dell’ informazione e i limiti della pubblicità – La ricerca di alternative è sempre più urgente – Sarà la pubblica opinione a salvare il buon giornalismo?
———-
Il blog di Britannica.com ha avviato in questi giorni un forum sul tema “Giornali&Internet” (Nespapers&Net), che sta affrontando da vari punti di vista la crisi dei giornali, l’ avvento dei nuovi media e i possibili scenari futuri.
Il forum è partito dalle considerazioni d Nicholas Carr – esperto di nuovi media, collaboratore di testate come New York Times, Financial Times, Wired, creatore del blog www.roughtype.com, membro del Consiglio editoriale dell’ enciclopedia Britannica e autore del libro The Big Switch: Rewiring the World, From Edison to Google, da cui è stato tratto l’ intervento iniziale.
A quello di Carr sono seguiti diversi interventi fra cui abbiamo scelto quello di Jay Rosen, che ci pare particolarmente interessante.
———-
di Jay Rosen*
(Newspapers & the Net: Where’s the Business Model, People? )
Nick Carr delinea i problemi che hanno davanti i giornali con estrema chiarezza. Sa molto bene quello che il Web sta facendo all’ economia dell’ informazione e della pubblicità ed è per questo che può essere così chiaro. Mi piace la sua conclusione:
“Come possiamo creare dei contenuti di alta qualità in un mondo in cui gli inserzionisti vogliono pagare a click e gli utenti non vogliono pagare affatto?”. La risposta, gira gira, è molto semplice: non possiamo.
Penso che sia esatto. Penso che sia plausibile immaginare la perdita di qualcuno dei beni pubblici che i giornali sotto il vecchio sistema di sostentamento economico erano in grado di produrre. La gente me lo chiede ogni momento. (Visto che io sono un critico della stampa, un insegnante di giornalismo e che scrivo su un blog proprio di questi problemi) . Quando io gli dico che al momento non ho nessuna risposta, una strana espressione attraversa i loro visi. Un problema sociale senza risposte? E’ mai possibile?
Naturalmente il fatto che storicamente non ci siano risposte rende questo un momento eccitante nel campo del giornalismo. Ma il rischio di perdere qualcosa rende una soluzione particolarmente urgente.
Per me è veramente notevole quanti raffinati produttori di quei beni che saranno la produzione del domani abbiano ancora dei dubbi, tanto che quando tocca a loro andare in scena finiscono per chiedere agli altri “Come possiamo pagare i nostri reporter se voi, ragazzi, non volete pagare per le nostre notizie?”. E recentemente ho sentito una persona dire: “La società si dovrebbe preoccupare di tutto questo!”.
A quante conferenze sui new media e il giornalismo a cui ho partecipato, qualche vecchio professionista ha appoggiato (mentalmente) le mani sui fianchi e ha detto a proposito di internet, “Bene, tutto questo è molto carino, fa molto Web 2.0, ma dov’ è il business model, gente?”. Come se questo fosse di qualche aiuto. Non posso dirvi quanto io trovi sconcertanti – e bizzarre – queste uscite…
Raccolta privata di informazioni
E’ meglio tornare indietro al primo modello economico del reportage: mercanti, commercianti e altri “uomini d’ affari” nella prima Europa moderna che usavano scrittori di lettere in città dove non capitava che ci fossero uomini d’ affari. Queste lettere – famosa quelle dei Fugger, alla fine del 1500 – raccoglievano le stesse notizie che un commerciante vorrebbe avere oggi: prezzi, condizioni per commerci e trasporti, che atteggiamento avevano le autorità locali, voci di guerra, notizie legali e gossip, disastri naturali e qualsiasi altra cosa di cui la gente stesse chiacchierando in quel momento.
La qualità era importante, l’ accuratezza essenziale, una certa abilità di interpretazione e la capacità di divertire anche, erano una parte importante dell’ affare. Tutto quello che a un giornalista professionista l’ editore vorrebbe chiedere, tranne che per una cosa. Le lettere non erano destinate alla pubblica diffusione. Non c’ era pubblico allora, e la “pubblica opinione” non era una frase di uso politico comune.
La notizia aveva un valore perché era attuale, affidabile, rilevante sul piano del decidere e poi perché non circolava in lungo e in largo, fra i concorrenti per esempio. Le Lettere dei Fugger erano un sistema privato di raccolta di informazioni nell’ ambito della ricca Casata dei Fugger. Ed erano scritte a mano.
Questa attività economica oggi continua a vivere in quelle costosissime Newsletter specialistiche che solo aziende molto grandi e uomini molto ricchi si possono permettere. Se fai i soldi nel campo del petrolio hai bisogno di buone informazioni da ogni parte del mondo e sborserai parecchi soldi per averle. In questo (limitatissimo) senso ci saranno sempre notizie di qualità e professionisti pagati per raccoglierle, scriverle e confezionarle con acume e alacrità. Commercianti e imperatori, ministri e spie si organizzeranno per i loro sistemi di informazione.
Il problema è se i cittadini saranno informati da corrispondenti pagati che cercano di capire che cosa sta accadendo e di spiegarlo agli elettori. Fra le Lettere dei Fuggers e il Times of London (1785) una nuova idea è venuta fuori nel mondo: opinione pubblica. Ora siamo a un nuovo punto cruciale. Noi non sappiamo se e come i cittadini che si suppone abbiano delle opinioni informate cercheranno in futuro di informare loro stessi (….).
Nuove economie dell’ informazione
Nuove imprese come ProPublica puntano direttamente a questo problema. Essa propone di spostare i mezzi di sostentamento dei giornali dalla pubblicità ai contributi di singole persone facoltose o alle donazioni da parte di Fondazioni che non vogliono vedere morire il giornalismo investigativo. ProPublica vorrebbe usare testate prestigiose come un canale di distribuzione, piuttosto che crearne uno nuovo.
Essa progetta di assegnare questo lavoro a testate giornalistiche con forte reputazione di qualità, come il New York Times o il Wall Street Journal. Perché dovrebbero aver fiducia in qualcosa prodotto all’ esterno? Sostanzialmente perché è Paul Steiger, ex direttore editoriale del WSJ, che sta gestendo l’ operazione.
Per quanto riguarda la cronaca politica, è da considerare il caso della testata online The Politico. Il suo modello prevede la pubblicazione di un quotidiano specializzato soltanto quando il Congresso Usa è in seduta, distribuito gratuitamente a Capitol Hill, con lo scopo di catturare un mercato pubblicitario fra le imprese e le lobbies che girano attorno ai membri del Congresso e ai loro staff. E’ un piccolo frammento della readership online.
The Politico si può quasi classificare come una sorta di inversione editoriale: dal web alla stampa. Penso che ci sia qualche spiraglio interessante in questo metodo, anche se non è un vero e proprio business model.
I giornali locali possono diventare una sorta di sito per la condivisione delle foto dove ognuno inserisce le immagini delle partite di football dei campionati scolastici del venerdì sera. Le migliori – 10 foto fra le 1.000 pubblicate – possono andare sul giornale di carta il giorno dopo. Naturalmente questo è un po’ lontano dal trovare i fondi per i team di giornalismo investigativo che una volta venivano sostenuti dai ricavi degli annunci economici e dalle inserzioni sui supermercati. Ma è una idea, che potrebbe avere gambe: filtrare in maniera intelligente il flusso di piccola produzione online, assemblare le parti migliori, confezionarle per la vendita e la distribuzione su stampa (con la pubblicità) e ricavarci un po’ di soldi. (Qualche altra coordinata nella ricerca del nuovo modello può essere cercata qui)
Inefficienze nel modello della pubblicità
Ma addirittura il quadro può essere peggiore di quello che delinea Carr, o per lo meno più dirompente. Secondo il punto di vista di Doc Searls – un noto analista del web – non solo il mercato pubblicitario sta cambiando radicalmente e scombussolando il flusso di reddito che può sostenere l’ informazione, ma la pubblicità stessa è sotto pressione da parte di internet.
Mentre i flussi di soldi della pubblicità vanno via dai vecchi media verso i nuovi, la massa sia dei vecchi che dei nuovi media continua a pensare che i soldi delle inserzioni continueranno a fluire per sempre. E’ un errore. La pubblicità rimane una via estremamente inefficiente e dispendiosa attraverso cui i venditori cercano di trovare gli acquirenti. Io non sto dicendo che la pubblicità non sia efficace, per carità; ma solo che essa a volte comporta inefficienze e spese eccessive e che questo fatto costituisce un problema che per troppo tempo abbiamo aspettato a risolvere, che lo sappiamo o no.
Gli inserzionisti non sono negli affari per fare pubblicità: la fanno per avvicinare i clienti e convincerli a prendere decisioni d’ acquisto. Se ci fosse qualche altra strada per raggiungere quelle persone, qualche altro modo per far comunicare venditori e compratori, la pubblicità diventerebbe sempre di più superflua. Non significa che ci siamo. “Solo non ti aspettare che la pubblicità possa finanziare delle nuove iniziative come ha finanziato quelle vecchie”.
Cosa che rende la ricerca di alternative sempre più urgente. Abbiamo bisogno di tentare tutte le strade: non-profit e for-profit; professione e passione, e pro-am; mercato e sussidio.
Una debolezza del vecchio modello di sostentamento dell’ informazione è che esso nasconde il vero costo del giornalismo serio alle persone che esso beneficia. Invece di trovare nuovi sistemi per nascondere questo costo, un modo più saggio può essere invece aumentare il numero delle persone che capiscono che un buon giornalismo è un bene pubblico, che ha un forte peso economico. In altre parole la pubblica opinione deve andare a salvarlo.
Scott Rosemberg, un giornalista e blogger che scrive sull’ era digitale – pensa che uno dei benefici della crisi attuale sarà la distruzione del muro immaginario fra discorso editoriale e discorso degli affari.
Io ho pensato a lungo che questo muro benedetto – per tutti i suoi valori etici, quando funzionava – aveva un insidioso effetto collaterale in quanto consentiva ai giornalisti di pretendere che loro, dopo tutto, non stavano lavorando per gli affari. Questa innocenza (o ingenuità) ha lasciato molti di loro male attrezzati per fare qualcosa di più che strapparsi le vesti quando la loro industria ha cominciato ad affrontare il lento collasso.
Appunto. “Ma la società se ne preoccuperà?”
* * *
*Jay Rosen è autore, fra l’ altro, del libro What Are Journalists For?
Qui altre informazioni su di lui.