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di Roy Greenslade,
(da Greenslade, 25 giugno 2008)
Il dibattito sull’ utilità dei blog tende a finire in un vicolo cieco, soprattutto perché pochissime persone – o meglio, pochissimi giornalisti – lo affrontano seriamente. Ai dibattiti a cui ho recentemente partecipato, gli intervenuti si sono spesso riferiti al blogging come a una sorta di triste viaggio solitario e non lo considerino invece come un servizio pubblico che ha un forte valore concreto.
Mi metterò a urlare se sento ancora che la blogosfera è una forma di anarchia, una cacofonia di voci autoreferenziali e maligne che si parlano addosso e finiscono per non parlare a nessuno. Non nego che ci sia anche questo aspetto, ma non vedo perché delle persone che si siedono al computer ogni giorno e scaricano i loro pensieri dovrebbero minacciare la civiltà come la conosciamo.
Quello che è chiaro, poi, soprattutto nel blogging peer-to-peer, è che i cittadini sono impegnati gli uni con gli altri come non mai. Senza una motivazione istituzionale o aziendale, le persone stanno formando delle cyber-comunità in cui discutono senza fine dei loro interessi.
Questa è una premessa per spiegare perché i giornalisti, specialmente quelli veterani della stampa come me, siano così sospettosi verso i blogger. Noi abbiamo speso le nostre vite dominando le conversazioni. No, è sbagliato naturalmente. Noi non conversavamo affatto. Noi declamavamo. Noi fornivamo l’ informazione che le persone assorbivano per conversare.
DEPOSTI I SACERDOTI
Ma, a parte le vecchie “lettere al direttore”, non eravamo affatto coscienti del contenuto di quelle conversazioni. Noi le facevamo andare avanti. Eravamo i vecchi sacerdoti che decidevano quale informazione dare al popolino e anche come doveva reagire a quell’ informazione, e che cosa pensare.
In quel vecchio paradigma – a cui sono aggrappati ancora molti direttori e giornalisti – le notizie erano un traffico a senso unico. Noi le raccoglievamo, le diffondevamo e le pubblicavamo. E questo riusciva a giustificare il fatto che la gente comprava i nostri giornali o si sintonizzava sui nostri programmi radio-televisivi.
Il blogging rovescia questo modello da capo a piedi. Permette ai cittadini di interrogarsi sull’ informazione che noi produciamo. Offre loro uno spazio per mandare in onda i loro punti di vista. La congregazione non ha più reverenza nei confronti dei sacerdoti. La nostra supremazia si sta sbriciolando.
Giustamente, i giornalisti segnalano che non c’ è nessun caso di giornalisti e blogger che lavorino in armonia. Ma questo accade perché il giornalismo è sottoposto a un cambiamento molto più profondo di quanto i tradizionalisti potessero immaginare. Io stesso sono stato colpevole di questo modo reazionario di pensare.
Ero portato a predire che il futuro delle redazioni sarebbe consistito in un piccolo cuore di “giornalisti professionisti” al centro e con i blogger (o, meglio, i cittadini-giornalisti, i giornalisti volontari, ecc) alla periferia. In altre parole, i nostri professionisti avrebbero continuato a condurre lo spettacolo.
Ora sono molto meno sicuro di questo modello. Per prima cosa, mi meraviglierei se i prof fossero così validi come pensiamo. Secondo – ma è fondamentale – mi meraviglierei se una redazione fosse un modello così perfetto come noi possiamo ritenere.
La crescita dei media nel secolo scorso è stata dominata dalla crescita dei grandi media, o, meglio, degli uomini che controllavano questi grandi media, che fossero proprietari o grandi manager. Ed è assolutamente realistico pensare che, in tempi ragionevoli, la rivoluzione digitale possa spazzare via i grandi boss editoriali.
COMPRENDERE GLI IDEALISTI
Sebbene io abbia sempre rigettato l’ ortodossia marxista, ho sempre nutrito affetto – e comprensione – per l’ idealismo di quelli che in origine avevano sposato la rivoluzione. Nella gran maggioranza dei casi erano entusiasti di rovesciare l’ ordine prestabilito perché credevano sinceramente nella democrazia (ed erano poi stati delusi, naturalmente, da una nuova forma di totalitarismo).
Ma il bello della rivoluzione digitale è che essa avviene senza spargimento di sangue, e la democrazia è al centro del suo cuore. Tuttavia, come nelle rivoluzioni politiche, l’ establishement la vede come una anarchia pericolosa . Nei fatti, come chiunque può tranquillamente verificare, la democrazia è piuttosto sporca. E’ un po’ caotica. Spesso è illogica. E non obbedisce alle norme.
Io penso che i giornalisti non riescano ad afferrare questa verità. Il blogging, sebbene democratico nello spirito, minaccia l’ ordine prestabilito del giornalismo. Scrivo questo dopo aver letto un blog pubblicato da Adam Tinworth (via Kristine Lowe). Tinworth scrive: "Molti addetti ai lavori nel campo dei media non si rendono conto che il blogging è una strategia comunicativa. Pensano che sia solo un processo editoriale… Sicuramente non pensano ad esso come a una conversazione”.
Qui ce n’ è un altro brano:
Il blogging è fatto di voci personali che interagiscono fra di loro, non di voci personali che declamano. E questo è qualcosa che i media normalmente dimenticano…
E’ molto facile per le persone che hanno un background mediatico tradizionale vedere la comunità come uno spazio – qualcosa di esterno, dove i lettori vanno, mentre i giornalisti stanno seduti qui, nella parte reale del mondo. Sono concentrati sul contenuto, non sulle persone. Dopo tutto, è stato solo questo il lavoro che abbiamo fatto in questi ultimi cento anni.
Certo, i giornalisti ogni tanto possono anche degnarsi di fare qualcosa con loro, di pubblicare qualche lettera sulla stampa. Ma, di solito, le cose funzionano molto con “loro e noi” (…).
Quando noi giornalisti parliamo di integrazione, generalmente intendiamo integrazione fra stampa e online. Ma la vera integrazione cammina nella rete da sola. L’ integrazione fra giornalisti e cittadini. Naturalmente, non ci dovrebbero essere distinzioni. Ma i giornalisti continuano a desiderare di vedersi come una classe a parte.
Dobbiamo aprirci a un nuovo modo di pensare. Non ci sono più loro e noi.
Voglio chiudere questo post con un appello in stile marxista: “Blogger di tutto il mondo unitevi!”. Ma poi penso che è la mancanza di unità che rende i blogger così vivi, così critici e così autocritici. E, naturalmente, così rivoluzionari.