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Malinconia del giornalismo: è la sensazione di fondo che domina “Notre métier a mal tourné”, un libro di due noti giornalisti francesi, Philippe Cohen ed Elisabeth Lévy, su un mestiere che – spiega Guillaume Narvic in una recensione su AgoraVox.fr – “si è profondamente smarrito e corrotto negli ultimi 25 anni”.
Il libro (edito da Mille et une Nuits) è diviso in quattro parti, completamente separate l’ una dall’ altra, nella forma e nel soggetto. Ogni parte più che un capitolo sembra un articolo sul giornalismo, e insieme ricostruiscono una sorta di viaggio di osservazione e di analisi, di riflessione e di prospettiva.
Gli stessi autori d’ altronde – aggiunge Narvic – designano questo libro come “una traversata” nel mondo del giornalismo francese, dalle origini ai nostri giorni.
Grandezza e decadenza del giornalismo
Il giornalismo come esso stesso si sogna (o si promuove) e come invece è concretamente o come è diventato.
In attesa di poterlo leggere direttamente, sembra comunque stimolante la parte dedicata al giornalista investigativo.
E’ contro quest’ ultimo che la carica di astio degli autori del libro è più forte, anche violenta, e apertamente ad hominem: Edwy Plenel (fondatore di Mediapart, vedi Lsdi, Mediapart sotto attacco giudiziario) in particolare è nel mirino e gli autori fanno fuoco!
Interessanti – anche per una riflessione che può riguardare direttamente il giornalismo italiano – alcuni brani scelti da Narvic.
-* Il "giornalismo investigativo" (inventato negli anni ’80 al posto del giornalismo d’ inchiesta, che era stato molto sperimentato precedentemente) "nasconde un grosso imbroglio".
"La sua pretesa neutralità è la facciata comoda di una ideologia moralizzatrice e sospettosa”
– * Pubblicando sulla base "di una sola fonte", sotto forma di "feuilleton", delle informazioni che vengono loro fornite nel quadro di "manipolazioni" sulle quali si rifiutano di interrogarsi, i giornalisti investigativi hanno accettato di diventare alla fine, senza mantenere alcuna distanza, i tappetini dei giudici.
– * Hanno così contribuito alla distruzione del segreto istruttorio e, di conseguenza, a quella della presunzione di innocenza.
– * Negli anni ’90 "la macchina si imballa" : i giornalisti sono "inebriati dalla loro stessa potenza", "in assenza di qualsiasi contro-potere".
– * Lévy e Cohen denunciano alla fine "l’ abuso della libertà conquistata" : "il giornalismo d’ investigazione ha partorito un mostro".
Questo giornalismo d’ investigazione, secondo gli autori del libro, è andato all’ attacco soprattutto del potere politico, contribuendo largamente al suo discredito, mentre quelli che detenevano il potere economico facevano man bassa dell’ insieme dei grandi media francesi (radio, televisione e stampa scritta), bloccando ogni possibilità di inchiesta sui propri affari. Ecco un’ altra truffa del “giornalismo investigativo”.
Oggi – rileva ancora Narvic – l’ inchiesta ha abbandonato la stampa e si è rifugiata nei libri. I giornali si limitano a pubblicarne degli estratti e si guardano bene dall’ approfondirla con le proprie indagini.
Il giornalismo come surrogato della “rivoluzione”
La seconda parte del libro è una riflessione più filosofica sulla “ideologia del giornalismo”, una figura apparsa nel paesaggio politico con la generazione dei giornalisti usciti (solo una sintesi) dalle barricate del Maggio ’68 Gli autori avanzano la tesi secondo cui rinunciando a fare la rivoluzione in strada, una generazione di studenti del Maggio ’68 si è lanciata nella stampa per ingaggiare una sorta di “rivoluzione del giornalismo”, “il proseguimento della rivoluzione con altri mezzi”. Farebbero parte di questa generazione personaggi come Serge July o Edwy Plenel, e vari altri finiti anche dalle parti di Sarkozy.
Rinunciando a Marx e a Mao ma restando all’ avanguardia, questa generazione sarebbe all’ origine della trasformazione del giornalismo stesso in ideologia.
La terza parte dell’ opera torna molto all’ indetro, analizzando quello che è rimasto del progetto storico uscito dalla Resistenza di assicurare l’ indipendenza dell’ informazione garantendo l’ indipendenza dei giornalisti e delle loro redazioni.
E’ una storia che diventa “una tragedia”, “tra rivoltà e schiavitù”, secondo gli autori, che tracciano nei dettagli la decadenza del progetto fondatore di le Monde e di Libération, e si chiedono anche attraverso le crisi recenti a le Monde e a les Echos, se "le società dei redattori stiano rialzando la testa".
E adesso?
Infine, l’ ultima parte ("E adesso?") è un tentativo interessante di anticipare il futuro della professione in un momento in cui si profila uno spostamento della professione verso internet.
Una strada obbligata ma il modello economico che sta sotto alla stampa online, finanziato al 100% dalla pubblicità, non la condanna a una corsa all’ audiencee alla proletarizzazione delle redazioni online sottopagate e precarie?
Per il momento, in ogni caso, "la battaglia per l’ audience ha condotto gli attori del settore a concentrare i propri sforzi sulla circolazione dell’ informazione e non sulla sua raccolta”.
Se riconoscono nei blog un nuovo spazio di libertà, a volte di grande qualità, gli autori sono relativamente scettici sui risultati concreti delle esperienze di giornalismo partecipativo ondine e di collaborazione fra professionisti e ‘amatori’, e lo stesso vale per la qualità reale dell’ apporto interattivo dei commenti dei lettori. E cercano di conservare una posizione di equilibrio fra "lo scetticismo assoluto” et "l’entusiasmo beato" : "tra il blog personale e i rubinetti delle agenzie di stampa esistono delle opzioni multiple, molte delle quali sono state appena esplorate”.
La posta fondamentale resta naturalmente il modello economico.
Il futuro della stampa, elettronica o meno, dipenden da quelli che la fanno, in particolare dai giornalisti. Ma dipende anche dal pubblico. Spetta a lui infatti decidere se vuole o meno una informazione di qualità – e se è pronto a pagarne il costo”.