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a cura di Andrea Fama
La Cina è da qualche anno a questa parte il paese campione di crescita per l’economia. Peccato che simili primati non possa vantarli anche in altri campi di cruciale importanza per il giusto sviluppo di una società che, invece, vive isolata all’interno di una precaria bolla economica che per ora pare riuscire a resistere alle influenze esterne e a tenere il mondo fuori dalla vita dei cittadini cinesi. Se si getta lo sguardo oltre la superficie schermante di questa bolla, però, le piaghe del gigante orientale si svelano in tutta la loro disarmante recrudescenza.
La Cina è un paese afflitto dall’inquinamento, tant’ è che a dispetto delle rassicuranti dichiarazioni del Ministro degli esteri cinese Yang Jiechi, secondo cui – non si sa ancora bene in base a cosa – l’aria in Cina migliorerà e “gli atleti avranno più possibilità di stabilire nuovi record a Pechino che in altri posti", il primatista mondiale della maratona Haile Gebrselassie rinuncerà a correre la 42 chilometri perché, afferma, "l’inquinamento in Cina è una minaccia per la mia salute”.
La Cina è un paese in cui i diritti umani vengono sistematicamente calpestati, come rivela l’ultimo rapporto dell’organizzazione Human Right Watch, secondo cui gli impianti sportivi, le strade e gli aeroporti realizzati in tempi record in vista dei Giochi Olimpici sono principalmente il frutto del sudore di circa 2 milioni di operai sfruttati e costretti a lavorare per poco più di 5 dollari al giorno, senza contratto, assistenza infortunistica o adeguate misure di sicurezza.
La Cina è un paese capace di chiudere letteralmente l’accesso al monte più alto del mondo, l’Everest, per il timore che le proprie gole e sommità possano amplificare il grido soffocato di chi protesta in favore dell’indipendenza del Tibet, il cui leader spirituale e politico, il Dalai Lama, è stato costretto all’esilio qualche anno dopo l’invasione cinese del territorio tibetano avvenuta nel 1950.
Nonostante ciò, l’annuale rapporto sui diritti umani del Dipartimento di Stato degli Usa – leader mondiale per l’esportazione della democrazia – pur riconoscendo che, tra le altre cose, "il governo continua a tenere sotto controllo, perseguitare, arrestare e trattenere giornalisti, scrittori, attivisti, avvocati e le loro famiglie, molti dei quali esercitano i loro diritti legalmente", non inserisce la Cina nella black list dei peggiori paesi al mondo.
Sollevati dall’inconsueta esclusione (la cui stridente contraddizione probabilmente è spiegabile solo alla luce degli stretti legami economici tra le multinazionali statunitensi e le imprese pubbliche cinesi), dal Ministero degli Esteri cinese fanno quasi contemporaneamente sapere di non gradire nessun tentativo, da parte di associazioni umanitarie e gruppi di pressione stranieri, di influenzare la politica di Pechino tentando di screditarne l’immagine proprio in occasione della vetrina internazionale offerta dai giochi olimpici: "non credo che la comunità internazionale voglia politicizzare le Olimpiadi di Pechino. Sono solo un pugno di individui e di associazioni estremamente critici nei confronti della Cina che hanno enormi pregiudizi", ha dichiarato ai giornalisti in un monito sibillino il ministro Yang.
Di fronte a questo scenario di diritti fondamentali serenamente violati, è lecito domandarsi che fine farà il diritto alla libertà di pensiero e d’informazione, almeno durante i giochi di Pechino 2008, in un paese in cui le frequenze di una decina di emittenti radiofoniche internazionali in lingua cinese e tibetana vengono sistematicamente disturbate per impedirne la diffusione, e le trasmissioni televisive straniere vengono spesso interrotte laddove tocchino temi scomodi per il Governo. Il mosaico, prevedibilmente, si prospetta di difficile composizione sin dalle prime battute. Tanto per cominciare, infatti, nonostante il divieto di accedere a migliaia di siti internet d’informazione e la detenzione da parte del Governo di numerosi internauti, paradossalmente la Cina si è recentemente affermata reginetta del web, essendo la nazione che vanta il maggior numero di utenti al mondo, confermando ancora una volta la sua naturale inclinazione alla quantità piuttosto che alla qualità.
Per quanto riguarda la stampa tradizionale, invece, quella estera è bandita dalle edicole cinesi, mentre quella locale è sapientemente imbavagliata e costantemente intimidita dal Governo, come rivela un articolo di Jennifer Chou, direttrice della sezione in mandarino di Radio Free Asia. Durante le Olimpiadi, però, le regole del gioco saranno leggermente diverse. Se da un lato il Dipartimento Centrale della Pubblicità cinese ha intimato ai giornalisti locali di non alimentare alcuna “pubblicità sfavorevole”, tenendosi alla larga da argomenti sensibili quali, ad esempio, l’inquinamento, la sicurezza del cibo e il percorso della torcia olimpica – che secondo la campagna internazionale per il Tibet (ICT) viene sfruttato da Pechino per affrancare le proprie pretese sul territorio tibetano. Dall’altro, invece, il Ministero responsabile della Stampa e delle Pubblicazioni, ha concesso agli atleti stranieri la possibilità di accedere alla versione cartacea o elettronica dei giornali dei propri paesi d’origine.
Discorso diverso spetta però ai circa 8.000 giornalisti stranieri accreditati, i quali, con la scusa dell’antiterrorismo, sono stati precauzionalmente schedati dal Governo cinese. Stando a quanto riportato dal Bocog, il comitato organizzatore delle Olimpiadi, ai giornalisti stranieri verrà riconosciuta la temporanea libertà di muoversi sul territorio e intervistare ogni cittadino cinese consenziente, fino al ripristino delle normative standard (che prevedono l’obbligo di notificare i propri movimenti fuori dalla città di residenza e l’autorizzazione delle autorità locali per qualsivoglia tipo di intervista) in concomitanza con la chiusura delle Paraolimpiadi, altro pietra dello scandalo a seguito delle violenze subite da alcuni disabili.
Vi è, infatti, un inquietante regolamento che disciplinerà l’attività giornalistica estera durante i giochi, una sorta di versione rimaneggiata dei 10 comandamenti biblici che potremmo definire i 9 comandamenti olimpici, in cui all’articolo 6 si celebra felicemente proprio la possibilità temporanea di realizzare interviste semplicemente previo il consenso dell’interessato, e non attraverso inestricabili maglie burocratiche. Un altro articolo degno di attenzione è senza dubbio l’articolo 4, in cui si stabilisce che i giornalisti stranieri sono autorizzati a portare con sé un ragionevole numero di apparecchiature giornalistiche, le quali dovranno poi essere spedite fuori dal paese non appena i Giochi avranno avuto fine, quasi a temere che una macchina fotografica, un registratore o un microfono di troppo possano facilitare eccessivamente l’espressione del pensiero dei cittadini cinesi.
Quanto detto finora (suffragato dall’attività di Reporters Sans Frontières e del Committee to Protect Journalists, di cui riportiamo alcuni stralci) ha ben poco di rassicurante, ed è per questo che numerose associazioni e organizzazioni chiedono di boicottare Pechino 2008.
Quella del boicottaggio, però, è un’arma a doppio taglio, e avvallandolo, infatti, si negherebbe alla Cina e ai cinesi una delle rare possibilità di contatto diretto con il mondo esterno, e al mondo esterno una delle rare possibilità di contatto diretto con quello cinese. Forse proprio per questo un’autorità così dolorosamente coinvolta nelle vicende cinesi come il Dalai Lama, ha chiesto di non boicottare i Giochi Olimpici, probabilmente nella speranza, o nella vana illusione, di instillare il seme della democrazia e della giustizia anche in una cultura resa apparentemente impermeabile come quella cinese.
Ma ora, dopo i drammatici avvenimenti del Tibet e la sanguinosa repressione da parte delle autorità cinesi, l’ ipotesi del boicottaggio si riaffaccia.
Materiali collegati:
-Articolo di J. Chou
– Rapporto Cpj
– Rapporto Rsf
– I 9 “comandamenti”