Le vere cause del declino dei giornali
Sono diventati monopoli rigidi e lenti, affetti da gigantismo e privi di strategie che non siano solamente difensive. E gli investimenti nell’unico capitale intellettuale dei giornali – il giornalismo – sono stati costantemente ridotti e le redazioni hanno perso così molti dei migliori talenti
———-
di Jon Talton*
(da Rogue Columnist)
(traduzione di Maria Itri)
Mary McCarthy diceva a meraviglia di Lillian Hellman: «Qualsiasi parola lei scriva è una bugia, compreso “e” e “il”».
Si sarebbe tentati di dire lo stesso sulle numerose diagnosi su cosa affligga il mondo dell’informazione. Sentiamo continuamente dire che i problemi provengono da Internet, dalle nuove tecnologie, “le persone non leggono più” e, il mio preferito, “non ha più lo stesso tempo libero di una volta”. Come se in passato ci fosse stata una giornata di 36 ore.
Queste questioni sono reali. E in effetti una grande area del pubblico è distratta dal gossip e attinge le proprie “notizie” dai blog, la televisione e la radio. Quello che si mette meno in evidenza è come siano gli stessi giornali a contribuire alla semplificazione eccessiva dell’America. L’aspetto più frustrante è che la discussione non riesce a mettere in luce le cause più importanti dietro al declino del giornalismo di carta stampata. Che sono:
-La creazione di mercati monopolistici e, attraverso il consolidamento, cartelli dei giornali. La storia economica ci mostra che i monopoli e i cartelli hanno sempre compiuto scelte suicide. Staccandosi dagli obblighi di una competizione reale, i monopoli diventano facilmente incentrati su se stessi e hanno un desiderio di proteggere lo status quo. Diventano rigidi e lenti.
– Il consolidamento dei giornali in aziende enormi. Questo ha spostato i giornali dalle comunità e ucciso il senso di partecipazione a un trust pubblico. E li ha lasciati in balia di Wall Street. I dirigenti editoriali promettono utili che sarebbe quasi impossibile sostenere per qualsiasi azienda (legale).Tutto finisce per dipendere dall’ottenere questi numeri in crescita in tempi brevissimi in Borsa. Tra i maggiori in perdita c’era chi aveva l’abilità di investire nelle tecnologie e di andare incontro alle abitudini mutate del pubblico. Queste cose però non avrebbero apportato immediati guadagni a due cifre. Così, le aziende editoriali non riuscirono a iniziare, o fallendo questo tentativo, a comprare, Yahoo o Craig’s List.
– Ha fatto ampiamente presa una strategia difensiva. Significativamente, gli investimenti nell’unico capitale intellettuale dei giornali – il giornalismo – sono stati costantemente ridotti. Le redazioni hanno perso molti dei migliori talenti. Il marketing, più importante che mai negli affari, non è mai stato una forza nei giornali, ed è stato ridotto all’osso. Ricerca e sviluppo hanno ricevuto un contributo spesso solo a parole, o erano solo altri strumenti per passare la richiesta di storie più brevi, più leggere, più semplici. Prima che la crisi diventasse più acuta c’era uno scarso interesse dal punto di vista della pubblicità verso questo tipo di “lavori sporchi”che avrebbero potuto passare dalla carta stampata al Web. I laureati nelle scuole di business più prestigiose non hanno più voluto lavorare nell’editoria. Migliaia di tagli hanno colpito i lettori. Un esempio: l’eliminazione dei listini finanziari ha allontanato i lettori più fedeli. La copertura internazionale è stata tagliata proprio quando il futuro dell’America è determinato dagli eventi all’estero (sì, perfino l’abilità delle signore bene di fare il pieno al loro SUV).
Il pensiero di gruppo era il risultato naturale dei monopoli e delle richieste de Wall Street. Era stato affrettato dal potere di Gannett e i suoi profitti superiori. Una impressionante agenda omogenea emerge in modo diffuso: la struttura sul contenuto; storie brevi, insignificanti (ma non irritanti per gli inserzionisti) etc. L’universo costituito da tattiche differenti, strategie, innovazione che dovrebbe essere messo in campo da un’industria competitiva non si è mai realizzato. L’industria è diventata sorprendentemente orientata verso se stessa, isolata da un mondo in evoluzione. Quando i cambiamenti sono rilevati, in qualche modo producono una azione che degrada i prodotti di informazione. Sono stati spesi anni per creare “nuovi prodotti editoriali” in grado di attrarre non-lettori. Si è trattato di un uso opinabile di risorse, perché come le ricerche e i focus group hanno dimostrato queste persone non hanno nessuna intenzione di leggere nulla, e certamente non quella di leggere un giornale cartaceo sette giorni a settimana. Ma le risorse per fare questo sono state distolte dai servizi per i lettori esistenti. I manager editoriali sono cavalieri solitari verso i fedeli clienti, mentre inseguono quelli che difficilmente riusciranno ad attrarre.
La leadership è crollata sotto il peso di queste forze. È emersa una generazione di manager d’accordo con queste disposizioni, mentre quelli con altre idee sono stati cacciati o messi da parte. Questi manager sopravvissuti – certo con eccezioni onorevoli – erano incapaci di affrontare da soli lo storico punto di svolta che sta di fronte ai giornali. Giorno per giorno hanno cercato di non fare errori, di limitarsi a preservare lo status quo, o di far passare a fatica formule artificiali, buone per ogni occasione, di solito supportate da ricerche discutibili. In alcuni casi il lavoro dei giornalisti è diventato poco più che accumulare materiali e realizzando le direttive decise dalla direzione. Questi una volta erano i leader in prima linea che facevano la grande differenza nella qualità di un prodotto basato, inesorabilmente, sulla parola scritta, ben raccontata. La convinzione semplice di “prendere una storia e pubblicarla su un giornale (oppure online)” è scomparsa. Ad esempio, sono spariti reporters esperti di giudiziaria – anche se è chiaro che le storie poliziesche ben fatte attirano lettori. Al loro posto c’è un 21enne che copia da un comunicato stampa.
– Il problema maggiore, certamente, non ha avuto niente a che fare con le redazioni. È stato il collasso di un modello industriale insostenibile. In parole povere, il modello ha avuto come conseguenza l’invio di venditrici in minigonna a vendere pubblicità a tassi di confisca a vecchi venditori di auto. Proteggere questi profitti, provenienti sia dagli annunci economici che dalla pubblicità locale o nazionale, è diventata la priorità di chi è a capo di un giornale. Queste aree erano le più vulnerabili per i nuovi concorrenti. Ma la condizione del mercato editoriale negli anni Novanta – avversione al rischio, promettendo margini irrealistici, perdendo i migliori talenti, ignorando le idee che esulavano dalle nozioni preconcette – li ha lasciti incapaci di fronteggiare queste minacce.
– I giornali hanno sempre avuto un equilibrio furbo, dove la pubblicità ha pagato per una informazione indipendente. I migliori giornali sono riusciti a cavarsela. Ma l’informazione non riuscirà ma a “farsi pagare per se stessa”. Sarebbe stato difficile per qualsiasi industria matura fronteggiare l’inversione di rotta che ha sommerso il mondo editoriale. Ma un’industria più decentralizzata e competitiva sarebbe stata in grado di sapersi orientare. Immaginate se un’azienda avesse trasformato un giornale “morente” in una versione online? Sarebbe stato molto povero, ma una fantastica arma da competizione. Immaginate se un’altra avesse comprato Yahoo nei suoi inizi e entrambi avessero alimentato questa innovazione usandola come una piattaforma di informazioni e pubblicità?
Ora il crollo continua, e il danno alla nostra democrazia è difficile da esagerare. Non è una coincidenza che gli Stati Uniti si trascinino in Iraq e siano paralizzati da sfide serie all’estero e in casa propria mentre il vero giornalismo è sotto assedio. Potrebbe quasi far pensare ai teorici della cospirazione dell’esistenza di un grande piano per renderci muti.
————–
* Jon Talton ha lavorato per vari giornali Usa, specializzandosi in economia, problemi urbani, politica e questioni della sostenibilità. Vive a Seattle, fa il freelance ed è l’ ideatore del cattivissimo blog Rogue Columnist