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Ma quante facce ha l’informazione?

La recente approvazione da parte del Parlamento turco della riforma dell’ articolo del Codice penale sulla libertà di espressione mostra anche la natura schizoide dell’ informazione – L’ Unione europea e l’ Italia – Chi controlla i controllori? – I finanziatori di Reporters Sans Frontières e le sue campagne su Cuba e Venezuela

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di Andrea Fama

Gli avvenimenti che si sono succeduti durante le ultime quattro settimane confermano la natura schizoide dell’ informazione, una sorta di cerbero le cui teste sono l’una in schietta contraddizione con l’altra.

La Turchia, l’ UE e l’ Italia

La Turchia, ad esempio, ha appena approvato una modifica all’articolo 301 del proprio Codice Penale che, in contrasto con le direttive dell’Unione Europea relative alla libertà d’espressione, prevedeva fino a tre anni di detenzione per tutti i giornalisti rei di insultare la cultura turca. Proprio quest’articolo ha ispirato l’omicidio di Hrank Dink (19 gennaio 2007), più volte processato per aver parlato del massacro degli armeni perpetrato da Ankara come di un “genocidio”, termine che evidentemente urta la suscettibilità turca al punto di armare la mano di un minorenne contro il giornalista armeno.

Questo stesso articolo, che è valso un ingresso nelle patrie galere per centinaia di scrittori (tra cui il Premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk), ora è stato emendato: gli anni di detenzione sono stati ridotti a due e non sarà più reato insultare la cultura turca (benché rimanga un reato schernire la nazione). Naturalmente si tratta di una misura sterile, che preserva altre leggi-museruola, e i cui contorni sono troppo fumosi e non assicurano alcuna garanzia né agli scrittori né agli editori, e né tanto meno alla UE, che ha accolto tiepidamente il passo in avanti della Turchia verso un processo di integrazione volto soprattutto a sbloccare le negoziazioni stagnanti per la costruzione di un gasdotto che dovrebbe consentire all’Europa di emanciparsi dal gas russo, e alla Turchia di entrare di diritto nella sfera d’ interesse dell’ UE, usando in questo caso l’informazione come moneta di scambio.

D’altro canto, però, vale la pena notare che la stessa Unione Europea, le cui porte sono aperte solo ai Paesi in grado di garantire i diritti umani fondamentali, tra cui la libertà d’espressione, ha più volte bacchettato (ma nulla di più!) l’Italia per l’inammissibilità di alcune storture tutte nostrane in tema di informazione, tra cui l’immancabile conflitto d’interessi, la sottrazione/appropriazione indebita di frequenze televisive, l’assenza di un tetto pubblicitario ragionevole per le televisioni in favore dei giornali, ecc. Ebbene, proprio questa condizione ha fatto sì che in suolo italico l’informazione mostrasse una sua seconda faccia, quella dello strumento di insurrezione popolare, o populistica, che dir si voglia.

Risale a poco più di una settimana fa, infatti, la mobilitazione che ha preso il via dalla rete allo scopo di rendere di nuovo libera e credibile l’informazione italiana, e di restituirla al Paese. I punti chiave per portare a termine con successo questo delicato intervento di chirurgia ricostruttiva dei media italiani sarebbero tre: l’abolizione dell’ordine dei giornalisti, che secondo i promotori del referendum “costituisce una barriera [di origine fascista] oggettiva alla professione”; l’abrogazione della legge Gasparri, grazie alla quale siamo tanto cronicamente quanto vergognosamente nel mirino dell’UE; e infine l’abolizione dei finanziamenti pubblici ai giornali, che consentono paradossalmente ad alcuni di essi la possibilità di limitarsi a stampare copie, senza la necessità di venderle. Al di là delle convinzioni su queste questioni (io personalmente, sono in prevalenza d’accordo sulla necessità di questi tre interventi, caldamente auspicati dal promotore Grillo), non si può che essere d’ accordo sulla necessità per l’Italia di rimontare posizioni nelle classifiche sulla libertà e correttezza dei mezzi d’informazione. Anche quelle stilate da Freedom House e Reporters Sans Frontières, che vedono l’Italia rispettivamente al 61° e al 35° posto, superata da nazioni come il Ghana o la Namibia.

Tali dati sono spesso strombazzati in modo populistico e strumentale, ma sarebbe utile anche analizzarne la provenienza piuttosto che accettarne supinamente il verdetto.

Queste allarmanti classifiche vengono stilate in base a diversi criteri di giudizio, tra i quali i più graditi ai populisti si traducono nelle domande: "c’è dipendenza dei mezzi d’informazione riguardo al loro finanziamento, da parte dello Stato, dei partiti politici, del grande business o altri soggetti politicamente influenti?”, oppure "ci sono state notizie soppresse o ritardate per interessi politici o economici?". Di fatto, troppo spesso in Italia sono state riscontrate simili situazioni, ma cosa resta del principio morale sotteso a questi criteri quando anche gli organismi internazionali “indipendenti” che li brandiscono come spauracchio per i cattivi e garanzia della propria illibatezza si rivelano mercenari al soldo di un padrone semplicemente più discreto ed abile nei camuffamenti? Pertanto, la domanda – ossessiva – è: “chi controlla il controllore”?

 

Freedom House e Reporters sans frontières: chi controlla i controllori?

La Freedom House, ad esempio, è presieduta da James Woolsey, ex capo della CIA e patron della Bacardi, un noto marchio che finanzia movimenti destrofili come il Center for a Free Cuba, ai cui vertici troviamo personaggi ambigui e inquietanti come Otto Reich e Frank Calzon, invischiati nel recente colpo di stato venezuelano (poi fallito) o in attentati terroristici contro Cuba, tanto per fare due esempi. La Freedom House, sebbene americana, è in un certo senso la mamma chioccia di Reporters Sans Frontieres, organizzazione dall’appeal planetario che pare soprattutto non avere frontiere morali più che fisiche, giacché queste ultime si infrangono contro il cortile di chi paga il rancio per l’organizzazione. RSF, infatti, la cui attività ci fornisce una terza faccia dell’informazione, ovvero quella del megafono della propaganda, è anch’essa finanziata dal Center for a Free Cuba, e non solo. Altri illustri finanziatori dell’organizzazione sono la Fondazione Nazionale per la Democrazia (National Endowment for Democracy –NED), ovvero la lunga mano della CIA, che in modo più o meno occulto e legale lavora alacremente per promuovere la condotta statunitense nel mondo e indebolire i governi che vi si oppongono; la Fondazione Soros, che assieme ad altre ONG statunitensi (tutte dai nomi estremamente evocativi di libertà e democrazia, come la Freedom House, appunto) ha, per dirne una, allestito le elezioni farsa in  Kirghikistan, come dimostrato da uno sciagurato documento inviato dall’allora ambasciatore statunitense nel Paese eurasiatico.

Queste, assieme ad altri importanti gruppi finanziari tra cui Publicis, concessionaria delle strategie di promozione delle forze armate USA (e grazie all’imprescindibile apporto dei calendari pubblicati dall’organizzazione), sono le entità che finanziano RSF, per un ammontare annuo che supera i 3 milioni di euro, di cui solo il 7% è dedicato all’attività principale dell’organizzazione, ovvero al fondo d’assistenza per i giornalisti oppressi.

Alla luce di tutto questo, si rileggono con inquietudine i due criteri sopra riportati, la cui eco si carica adesso di vibrazioni deludenti e dissonanti. “C’è dipendenza dei mezzi d’informazione riguardo al loro finanziamento”? Credo che non vi sia ombra di dubbio, giacché tali encomiabili finanziamenti sono stati ammessi dallo stesso Robert Ménard, direttore di RSF e sostenitore della tortura, ma solo all’occidentale. "Ci sono state notizie soppresse o ritardate per interessi politici o economici”? Personalmente non ritengo che RSF persegua tutte le sue campagne con la dovuta obbiettività e con eguale accanimento, visto che, sebbene molte di esse siano da considerare giuste, non sono poi sviscerate in profondità nella realtà dei fatti e vengono invece cavalcate strumentalmente.

 

Le “campagne” su Cuba e Chavez

Uno dei cavalli di battaglia dell’organizzazione nata a Parigi, ad esempio, è la detenzione di giornalisti in quei Paesi che senz’altro non brillano per libertà d’espressione, tra cui spicca Cuba, il cui cambio di regime è l’obbiettivo principe degli spettrali finanziatori di RSF. Ebbene, fiumi d’inchiostro e toccanti appelli sono stati spesi per la liberazione di quei cronisti, ma non una parola è stata rivolta in difesa di Mumia Abu-Jamal, un giornalista statunitense che da oltre un ventennio è incarcerato, in seguito ad una torbida accusa di omicidio, per le convinzioni politiche a cui dava voce con il suo attivismo giornalistico. E se la blindata isola castrista non è certo la Gardaland dei giornalisti, anche quello venezuelano è un “regime” costantemente dipinto a tinte fosche dai reporter senza frontiere.

Al centro dell’attenzione vi è naturalmente la controversa riforma che minaccia la libertà dei media in Venezuela, fortemente voluta dal Presidente Chavez in seguito al tentativo di golpe del 2002, organizzato anche grazie all’appoggio dell’onnipresente Otto Reich ed edulcorato e manipolato dalle emittenti televisive del magnate dei media Gustavo Cisneros, dalla RCTV di Marcel Granier e da Globovision, la cosiddetta emittente “contro” che si rifiutò di trasmettere le immagini delle manifestazioni pro-Chavez provocate dal colpo di stato.

Circa tre anni dopo quel fatidico aprile 2002, il governo di Chavez ha acquistato diverse frequenze televisive (tra cui, non rinnovando le concessioni, quelle delle emittenti “golpiste” RCTV e CMT) per favorire la diffusione della neonata Telesur, un’emittente transnazionale del tipo CNN (che intanto strizza l’occhio ad Al Jazeera) costretta, proprio per la mancanza di frequenze, tutte assegnate a privati, ad essere costosamente trasmessa via cavo.

Quella di non rinnovare alcune licenze per le frequenze tv è una pratica assodata ovunque, e in questo caso forse più che mai giustificata giacché l’emittente a cui è stato dato spazio funge da servizio pubblico in un Paese in cui l’unica emittente di stato, VTV, era anch’essa in fase di smantellamento e privatizzazione. Ciò detto, viene da chiedersi come mai, contravvenendo ai suoi precetti, la stessa RSF si auto-sopprime nell’elargire informazioni, e come mai suscita tanto implacabile interesse la figura di un presunto dittatore come Chavez, mentre nulla è stato scritto “per denunciare il vero dittatore birmano Than Shwe”, tanto per citare il professor Carotenuto.  

 

Gli “americani” della Sip e un Convegno contro il terrorismo mediatico

Ad ogni modo, poche settimane fa proprio Caracas ha ospitato due avvenimenti in stridente contrasto, o meglio l’uno in condanna dell’altro: la riunione semestrale della Sociedad Interamericana de Prensa (SIP) e il primo “convegno latinoamericano contro il terrorismo mediatico”. La SIP, definita come “il braccio giornalistico del governo americano”, riunisce i principali protagonisti dei media statunitensi e di quelli latinoamericani contrari ai governi progressisti, e si dice molto preoccupata per la libertà di stampa nelle Americhe, e soprattutto in  Paesi come il Venezuela, dove starebbero crescendo le minacce contro l’emittente Globovision, la cui chiusura viene invocata quasi in maniera tantrica dai vertici della SIP, tra le cui fila è annoverato come unico effettivo esponente latinoamericano Enrique Santos Calderón, la cui famiglia, oltre a possedere il più importante quotidiano del Paese, occupa mezzo parlamento colombiano.

Dall’altro lato della città, intanto, si celebrava il primo convegno latinoamericano che ha cercato di far luce sull’ennesima faccia dell’informazione contemporanea, quella del terrorismo mediatico che, secondo la Dichiarazione di Caracas redatta in seguito all’incontro, rappresenta “la prima espressione e condizione necessaria del terrorismo militare ed economico che il Nord industrializzato utilizza per imporre all’Umanità la sua egemonia imperiale e il suo dominio neocoloniale”. In particolare, nella Dichiarazione si denuncia il tentativo di destabilizzare alcuni governi attraverso “l’uso dei mezzi di comunicazione come armi politiche” nel teatro di un conflitto a bassa intensità – tanto per rimanere fedeli al gergo militaresco – portato avanti attraverso l’azione di organizzazioni come la SIP, la Freedom House e Reporters Sans Frontieres, che “rispondono ai dettami di Washington nella falsificazione della realtà e nella diffamazione globalizzata”.

Come era prevedibile, dai due incontri sono maturate due verità che si annullano a vicenda e che incarnano perfettamente la dimensione dicotomica e duale all’interno della quale si dibatte l’informazione attuale, che quando poi in alcuni casi ha la pretesa di valicare i confini dell’accuratezza e dell’obiettività per affrancarsi come azione non solo informativa ma addirittura umanitaria, muovendosi su campi minati così controversi, dovrebbe almeno fornire entrambi i lati di una medaglia a cui, francamente, è difficile trovare un profilo migliore.

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