(nella foto Reuters: Abdel Karim Suleiman, blogger egiziano, dietro le sbarre)
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di Andrea Fama
Nel suo rapporto annuale il Committee to Protect Journalists ha censito i giornalisti attualmente in stato di arresto per l’esercizio della propria libertà d’espressione. Sono 125, due in meno dello scorso anno, grazie alla generosa liberazione di due giornalisti da parte di Cuba (che tampina la Cina nella triste classifica dei Paesi con il maggior numero di giornalisti detenuti, tra l’altro con le accuse più disparate).
Il dato che spicca dall’analisi del CPJ, però, è che per la prima volta il numero di giornalisti on-line detenuti (45%) supera quello dei colleghi della carta stampata (42%). Scomponendo le cifre, poi, si scopre che buona parte degli e-journalist in stato di arresto è costituita da freelance che, non avendo le necessarie coperture legali, economiche e politiche, sono i più esposti al rischio di vedersi sottratta la propria libertà.
L’analisi del CPJ, comunque, non è importante solo dal punto di vista pragmaticamente statistico, ma anche da quello strategico, giacché rivela un’ importante presa di coscienza dei governi più repressivi: la nuova informazione, quella forse meno colta ed aristocratica, ma spesso più libera, virale ed insidiosa, corre sul web. E bisogna arrestarla. Ecco ogni leader, quindi, correre ai ripari, ognuno con i mezzi che la propria dittocrazia gli consente, siano essi plateali o striscianti.
Plausibilmente, l’attenzione che il web sta sollevando in modo sempre più urticante in molti Paesi si giustifica con il fatto che in certi contesti le persone, e ancor più i giornalisti, vengono tenute in considerazione in funzione della loro utilità o pericolosità. Ed i giornalisti on-line, specie i freelancer poi, saranno pure “indifesi”, ma sanno essere anche “pericolosi”, tanto da togliere il sonno a qualcuno che, in cambio, vorrebbe tanto staccargli la spina.