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di Elisio Trevisan
Il tempo e il giornalismo
Non esiste buon giornalismo senza tempo, e nemmeno buona informazione. E’ sempre il tempo che connota la democrazia, il suo stato di salute, la sua vitalità. Gli editori negli ultimi 30 anni hanno subito una mutazione genetica: dopo aver sostituito del tutto i vecchi editori puri con nuovi imprenditori prestati anche all’editoria, hanno sottratto al giornalismo il tempo, ed ora tagliano i soldi. Incapaci di accettare l’idea di avere a stipendio dei dipendenti “indipendenti” che non timbrano il cartellino e percepiscono più della media degli impiegati e quadri delle loro fabbriche, hanno messo in atto un piano per scardinare l’inaccettabile anomalia. Poco importa che i giornalisti lavorino, normalmente, 6 giorni su 7 e che l’impegno quotidiano vada ben oltre le 7 ore e 15 previste dal Contratto nazionale perché informare è un modo di vivere e lo si fa 24 ore al giorno. Tutto ciò non giustifica l’anomalia, semmai la aggrava, perché i loro media servono sempre meno ad informare e sempre più a veicolare pubblicità e potere.
Due tradizionali nemici del tempo, perché avere tempo per sé facilita la partecipazione, la solidarietà, il confronto, mentre per la pubblicità e per il potere l’ essere umano dev’ essere malleabile e in uno stato di torpore: individualismo e isolamento contro la partecipazione; assopiti davanti alla Tv, “nutriti” di desideri indotti, ci sentiamo anche buoni perché abbiamo l’illusione di praticare la solidarietà, mandando qualche sms a Telethon, e di far parte di una grande famiglia che si incontra all’ ipermercato. Niente a che vedere con partecipazione, solidarietà e confronto, niente a che vedere con democrazia, molto a che fare con il “tempo rubato”; e se anche all’ informazione è stato sottratto il tempo, non si vede chi risveglierà le coscienze. Nel frattempo l’ aspettativa di vita continua ad allungarsi e, paradossalmente, abbiamo sempre più tempo a disposizione.
Lo spunto per questa digressione temporale viene da un lavoro di Nicola Rabbi, caporedattore del sito di informazione sociale “Bandieragialla” e professore a contratto all’Università di Bologna:“Le fonti giornalistiche e internet- come usano la rete i giornalisti italiani? Come si difendono dalle bufale? è il titolo dell’intervento pubblicato sulla rivista "Problemi dell’informazione" n 3/2007 e consultabile nel sito di Bandieragialla ), un’associazione nata nel 1999 che gestisce un portale di informazione sociale dell’area metropolitana bolognese.
Rabbi cita una serie di esempi di notizie fasulle nate nella rete e pubblicate dai “mainstream media”, e intervista diversi operatori dell’informazione ed esperti di internet concludendo il suo lavoro con due domande per aprire la strada ad un dialogo: “Il modo di produzione delle notizie (tempi, ricerca del nuovo e del sensazionalismo…) nel panorama editoriale italiano mal si accorda con un uso attento ed esperto della rete, in particolare nella verifica delle fonti on line?” Seconda domanda: “La formazione alle nuove tecnologie, oltre all’iniziativa personale del singolo e alla socializzazione all’interno delle redazioni, dovrebbe essere definita meglio? E se si in che modo?”.
Mi soffermo sulla prima, sperando che qualcuno raccolga il testimone per sviluppare il confronto anche sulla seconda.
Tempi di lavoro sempre più stretti e mole di lavoro sempre più pesante
Le “bufale” non sono figlie di internet o, in genere, delle nuove forme di giornalismo. Probabilmente è difficile anche stabilire se la prima notizia diffusa in forma giornalistica in questo mondo sia stata una verità o una bufala. Per non andare troppo indietro nel tempo e alle prime forme di proto giornalismo, basta guardare le pagine dei quotidiani del secolo scorso o anche del 1800 (da quelli di provincia ai nazionali e più blasonati), per verificare che la bufala è un ospite indesiderato, ma presente da sempre nel panorama dell’informazione. A differenza di un tempo, oggi ce ne sono molte di più. Quel che salta all’occhio leggendo il lavoro di Nicola Rabbi, piuttosto, è altro: è l’atteggiamento della maggior parte degli intervistati nei confronti di internet e delle modalità di produzione dell’ informazione.
Volendo rispondere in modo sintetico alla prima domanda si può dire che il modo attuale di produzione delle notizie si accorda poco con un uso attento ed esperto della rete, ma addirittura si accorda sempre meno con lo stesso significato del termine giornalismo. D’ altro canto se la modernità è solo un modo diverso di scrivere (i tasti di un computer invece di una penna) e di reperire le notizie (il web invece del telefono) ci si deve chiedere perché le cose sarebbero dovute cambiare in meglio. La strada, la vecchia “casa” dei cronisti, dove trovavano notizie di prima mano, si è allungata e allargata a dismisura. Ora hanno a disposizione il mondo, ma gli serve poco se a loro non si chiede più l’informazione.
Le veloci interviste di Rabbi a vari colleghi che lavorano in siti internet ritraggono dei giornalisti che, nonostante tutto, hanno ancora passione per il proprio lavoro, ma quel “tutto” sta diventando sempre più pesante perché i tempi di lavoro sono sempre più stretti e la mole di lavoro sempre più vasta.
E soprattutto perchè il lavoro è diventato altro dal giornalismo: nelle redazioni di qualsiasi media (carta stampata, Tv, radio, internet, blog…) il singolo è sempre più un operatore dell’ informazione, ma l’ operatore dell’ informazione è sempre meno giornalista.
La “morte” dei tempi morti
Chi ha più di 15, 20 anni di mestiere alle spalle riesce ancora a ricordare quando nelle redazioni c’erano anche tempi morti, per leggere, per discutere delle notizie uscite e di quelle da affrontare, per confrontarsi, per aggiornarsi. C’erano lunghi tempi dedicati ai rapporti con l’esterno, a rinsaldare conoscenze, a farne di nuove. Tempi andati.
Oggi il tempo è più “impiegatizio”, più “tipografico”, più “producente” e meno “produttivo”: i cronisti contrattualizzati devono occuparsi di molte attività che un tempo non si sognavano nemmeno di imparare: non ci sono più centralinisti, impiegati, correttori di bozze, i tipografi sono ridotti al lumicino, e i giornalisti devono fare un po’ di tutto, oltre a controllare le mail, i fax, rispondere alle telefonate e smistarle visto che non ci sono più centralinisti esperti.
Non è vittimismo, ma analisi razionale dei “tempi”. Alla fine torniamo sempre qui, ai tempi: nel nostro settore sono fondamentali per distinguere un lavoro che ricerca la qualità dell’informazione da una catena di montaggio che chiede solo di riempire spazi bianchi tra tanti inserti pubblicitari; al punto che ormai si può tranquillamente fare l’inversione e chiamare contenuti la pubblicità e inserti le notizie.
Nei casi migliori, i media più seri, la richiesta dell’ editore è di fare le nozze coi fichi secchi, produrre informazione più accurata possibile in tempi sempre più ristretti. A parte un piccolo ed elitario gruppo di fortunati – perché i più bravi, o perché i più raccomandati – il resto dei giornalisti è carne da macello: ai primi (qualche inviato, alcuni commentatori, pochi specializzati) il Contratto nazionale di lavoro non serve perché hanno un potere contrattuale che può benissimo fare a meno delle regole, a tutti gli altri il Contratto nazionale appare sempre più come una chimera, e gli editori da qualche decennio lo stanno smontando pezzo per pezzo.
La navigazione in internet, così, non ha più nulla a che vedere con i tempi di qualche epoca fa, quei tempi “morti” passati ad aggiornarsi: in internet si deve navigare per trovare più in fretta possibile informazioni – e, quando è fattibile, anche verifiche e conferme – da buttare in pagina.
Per i giornalisti non contrattualizzati, chiamati freelance ma in realtà sfruttati sottopagati, il discorso è ancora più triste: i freelance dovrebbero essere coloro i quali si prendono del tempo per approfondire notizie che i colleghi dentro le redazioni non hanno il tempo di affrontare. Invece sono terminali di ordini convulsi, incaricati di seguire interi territori e, comunque, costretti a produrre decine di articoli a settimana per riuscire a pagarsi un affitto e il pane quotidiano, la pizza non se ne parla, è un lusso.
Daniele Vulpi, redattore de la Repubblica.it dice a Nicola Rabbi: ”Stando in una struttura così grande facciamo già fatica a stare dietro le notizie che ci arrivano, circa 10-20 mila al giorno, solo di agenzia, poi ci sono i comunicati…”.
Il “churnalism”, produzione di massa di ignoranza
Dov’è finito, dunque, il tempo? E, viene da chiedersi, quanto la manipolazione e la perdita del tempo influiscono sulla nostra vita, e quanto il fattore “tempo” è determinante anche fuori dei confini d’Italia? L’impressione più diffusa è che il mondo dell’informazione stia vivendo ovunque un’epoca di mutamenti e sconvolgimenti. Per i catastrofisti tra qualche anno non ci saranno più giornali a stampa e l’informazione libera e diffusa sarà morta, per gli ottimisti i quotidiani vivranno ancora per parecchi decenni, non si sa con quali contenuti. Analizzando un po’ il panorama attuale, ad ogni modo, sembra ci siano comunque delle peculiarità in ogni area del nostro Globo, e che il “tempo ristretto” sia più una nostra peculiarità che degli anglosassoni, anche se negli States o in Inghilterra i media sono avanti anni luce rispetto a noi nella sperimentazione di nuove modalità di informazione.
“Come ogni fenomeno sociale, la blogosfera è diventata una fonte per i giornalisti’ – spiega Jerry Johnson, capo della pianificazione strategica a Brodeur, un gruppo Usa che si occupa di comunicazione strategica e che ha condotto una ricerca annunciata da MediaPost e linkata anche nel nostro sito Lsdi -. Ma i cronisti continuano a creare le loro storie andando in giro, sviluppando le loro idee e parlando con le loro fonti. La coda della blogosfera non sta muovendo il corpo dei media, almeno non ancora’’.
Basta, però, tornare di qua dell’Oceano per ricevere una doccia fredda leggendo una ricerca dell’Università di Cardiff (vedi in www.lsdi.it o vai a (http://www.cf.ac.uk/jomec/library/doc_lib/Quality_Independence_British_Journalism.pdf) la quale ha accertato che l’80% degli articoli dei giornali di qualità del Regno Unito sono prevalentemente fatti riciclando notizie di agenzia o comunicati stampa, e che alcuni giornalisti ora producono materialmente almeno tre volte in più di quanto facessero 20 anni fa.
In proposito, criticando aspramente quello che definisce “churnalism” (da “churn out”, “produrre in grande quantità”) , Nik Davies, un esperto di media del Guardian, dice: “Ora più che in passato siamo coinvolti in una produzione di massa di ignoranza perché le corporation e gli amministratori hanno tagliato gli organici, aumentato i nostri ritmi di lavoro e ci hanno definitivamente incatenato ai nostri desk”.
Il valore del tempo, dunque, è se non altro in discussione ovunque. E da noi? “Mi
auguro che il giornale del prossimo futuro sappia tornare ai reportage e al giornalismo d’inchiesta, sappia tornare sulla strada e sappia tornare a essere un giornale di idee, che cerchi "fuori" ciò che ancora non è nel flusso mediatico” auspica Marco Pratellesi, redattore capo di Corriere.it, ad Emanuela Di Pasqua che lo ha intervistato per Visionpost sulle previsioni per il 2008. (https://www.lsdi.it/2008/01/22/quotidiani-sara-l-anno-del-post-internet/).
La paura della “strada”
La “strada” – che Jonshon e Pratellesi indicano come luogo di lavoro privilegiato per chi vuol fare davvero informazione libera – è una idrovora di tempo, non ne è mai sazia. Per trovare informazioni “on the road” bisogna prendersi tempo, bisogna averne e usarlo al meglio.
Sarà per questo che qui da noi, soprattutto al Nord, la strada fa così tanta paura: la si percorre in auto per spostarsi da un luogo chiuso ad un altro, sempre meno la si usa, ad esempio, per passeggiare. Il mondo si chiude tra le mura di casa, spesso anche con finestre e porte blindate, e l’informazione nutre questa paura perché è molto più facile scrivere degli incubi – che chiunque può inventare – piuttosto che farsi il mazzo e scendere in strada, studiare, conoscere e comprendere la realtà. Al sicuro tra le quattro mura di un appartamento o di una villetta a schiera, oppure degli ipermercati, l’attenzione della gente è più facilmente catturabile e, tra un Tg e un altro, tra un blog e una notizia di giornale, è molto più semplice far passare i messaggi della pubblicità che invitano a comprare di tutto per soddisfare desideri; l’effetto è quello di un Valium che toglie l’angoscia per qualche ora, giusto il tempo di un altro Tg.
“Credo che sia in atto una trasformazione antropologica determinata dalla velocità con cui è cambiato il mondo, che ha provocato la rottura di molti equilibri. Anche percettivi. Come diceva Baudrillard si fa sempre più fatica a tenere distinti il piano della realtà da quello della fantasia, a mettere in relazione un’azione con le sue conseguenze – dice Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica, a Pino Corrias che lo intervista nel suo libro “Vicini da morire” sulla strage di Erba (Mondadori, collana Strade blu, 249 pagine, 15 euro) -… Ormai il piano della fantasia è così espanso… che siamo in grado di pensare possibili anche cose che non lo sono affatto. Diventare ricchi in fretta, avere successo, conquistare la fama, vivere un amore da rotocalco, cambiare vita domani, pretendere di avere diritto alla felicità”. Magatti spiega a Corrias che i ceti alti e acculturati restano in grado di costruirsi dei percorsi, mentre i ceti meno abbienti vengono polverizzati nel caos: “Polverizzati significa che si vive in un piccolo mondo fatto di piccole solitudini, la famiglia, i vicini, che garantisce un minimo di identità, ma può anche diventare soffocante come una gabbia… Ma se nessuno capisce, se nessuno interviene, se i partiti e la politica si occupano di altro – potere, soldi, lavoro -, quello che si diffonde è uno stato generale di abbandono e di paura.
Salvo poi recuperare quella richiesta sociale di sicurezza, che spesso è anche sicurezza interiore, per rispondere con l’ordine pubblico, le telecamere, le retate, che saranno anche utili ma restano una risposta di superficie, talvolta fuorviante e spesso carica di propaganda”. Propaganda, come l’iniziativa del sindaco di Milano, Letizia Moratti – ricordata ancora da Corrias nel suo libro – che il 26 marzo del 2007 ha organizzato la fiaccolata per la sicurezza, chiedendo al ministero dell’Interno 500 agenti delle forze dell’ordine in più perché “dice di condividere con i suoi cittadini “la sensazione” che l’illegalità “si estenda a macchia d’olio”.
Sulla “sensazione”, e non sui numeri (che a Milano registrano un calo e non un aumento dei reati), i media hanno battuto la grancassa per giorni e giorni.
La sensazione – di paura, di disagio, di difficoltà, di inadeguatezza, di insoddisfazione, di quel che si vuole – dovrebbe però essere spunto per inchieste critiche, non fonte di notizie, di informazione. Ma, ancora, la “sensazione” è tra i migliori alleati del “tempo rubato” e dell’informazione addomesticata da poteri e pubblicità.
D’altro canto se l’informazione è in crisi è anche perché rispecchia il mondo che descrive, e il lavoro della maggior parte di noi è immagine di quel mondo in cui viviamo tutti, giornalisti e spettatori.
Le “bufale” e i figli di Bill Gates
Il tempo, in definitiva, è un problema per l’informazione e per la vita di ogni giorno.
Bill Gates, tanto per fare un esempio “universale”, qualche mese fa ha messo il timer al computer della figlia Rachel perché passa troppe ore con i videogiochi: 45 minuti al giorno, non uno di più, un’ora nei weekend. Come si chiama la figlia? Phoebe, Jennifer, o Rachel: la notizia ha fatto il giro del mondo in pochi minuti e, probabilmente, nel passaggio da un’orecchia all’altra ha perduto qualche pezzo di autenticità, altrimenti non si spiegherebbe come mai questa figlia ha così tanti nomi. Poi c’è anche il figlio Rory che, a quanto pare, ha problemi pure lui con il pc e con il padre, visto che con Vista il genitore gli controlla tutti gli accessi a internet, la durata e la qualità delle chat, il tempo passato con i giochi.
Che bello, con “parental control” rapporti in rete protetti: è un programma del nuovo Vista che sta sostituendo, accompagnato da una campagna pubblicitaria in grande stile, l’ormai “decrepito” Windows XP. Che sia tutta pubblicità anche la storia dei figli? Nella biografia ufficiale di Bill, nel sito Microsoft, c’è scritto “Gates was married on Jan. 1, 1994, to Melinda French Gates. They have three children. Gates is an avid reader, and enjoys playing golf and bridge”.
Vuoi vedere che usa qualche figlio segreto per la campagna di Vista?
Al di là della vera storia di questo quadretto familiare, a noi che cosa ne viene in tasca dal sapere che babbo Gates impedisce ai figli di rincitrullirsi davanti ad uno schermo di computer? Gli fai i complimenti, oppure lo biasimi perché sfrutta pure i figli per guadagnare qualche miliardo di dollari in più. E allora? Non ci dovrebbe essere bisogno dell’esempio del padrone della Microsoft per sapere che bisogna stare più vicini ai pargoli.
Quanti miliardi di informazioni o panzane simili girano per internet? Quante “miglia” di notizie inutili ci passano davanti agli occhi, transitando da un’orecchia all’altra? Alcuni esperti dicono che un eccesso di stimoli impedisce al nostro cervello di trattenere nella memoria quel che conta, e distinguere tra quel che conta e la spazzatura; così alla fine fai un bel “svuota il cestino” e ti ritrovi “erased”.
Non sono solo gli occhi a risentirne per il fatto di passare ore a smanettare al computer. Internet è la chiave per mettere in comunicazione il mondo, per tirare fuori tutto lo scibile umano e anche di più, è la democrazia a portata di clic. Ma basta riempirlo di clic per cancellare anche la democrazia.
Internet in sé non aiuta a padroneggiare il tempo, quello che scorre anche quando non ci pensiamo, anche quando siamo davanti al computer. Sarebbe già qualcosa se aiutasse, almeno, a ottimizzarlo, a risparmiarlo, a non sprecarlo.
Mentre scrivo, il tempo passa. Mentre facciamo o non facciamo qualsiasi azione, il tempo scorre comunque; indipendentemente da internet, questo è vero, ma la rete permette un’infinità di azioni nuove quindi, potenzialmente, di nuovi impieghi del tempo. Internet favorisce anche il telelavoro: la nuova frontiera del lavoro che offre la grande libertà di rimanere a casa, di evitare l’ufficio e la strada per arrivarci – spesso trafficata –, ma che di solito inchioda alla scrivania di casa per molte più ore di quelle che normalmente si passerebbero in ufficio; senza contare il tempo perso per gli aggiornamenti dei programmi, degli antivirus, degli antispam, delle applicazioni…
Non a caso una delle nuove frontiere dell’editoria nostrana è proprio questa: i quotidiani del gruppo “E Polis” sono confezionati da pochissimi redattori, in ogni città dove il esce il giornale, che lavorano a casa e fanno capo ad una redazione centrale in Sardegna nonché a qualche ufficio sparso per l’Italia, con buona pace del confronto di idee tra colleghi e del “tempo produttivo”.
Internet permette di cercare informazioni che, altrimenti, si dovrebbero cercare girando per uffici, magari distanti da loro anche chilometri; e consente di acquistare prodotti con una serie di semplici clic, o anche viaggi e, se si vogliono evitare rischi, permette di viaggiare senza muoversi dalla sedia, con la mente e le immagini del mondo sparate dallo schermo. Internet vuol dire “chattare” con chiunque, e pure con chi non si conosce e che magari vive all’altro capo del mondo. Ma la chat è un dialogo? La conoscenza in rete è una vera conoscenza dell’altro? Di sicuro allevia la famosa “sensazione” di paura.
La rete permette di intraprendere: la strada artistica, quella dell’impresa economica, o della fede, o della truffa. Ci sono musicisti diventati famosi grazie a qualche lancio su un blog o su un sito, e in barba alle major paludate che fino all’altro ieri avevano il monopolio della fama. Internet è, dunque, uno strumento per far emergere i migliori? Per premiare la qualità? E, a proposito di qualità, internet migliora la qualità della vita?
Permette, sicuramente, di trovare una montagna di risposte, ma riempie anche di un’infinità di domande, e in mezzo a questo oceano è difficile distinguere le risposte importanti e le domande che aiutano a migliorarsi.
Si possono usare quanti aggregatori si desidera, affinare quanto si vuole le tecniche di ricerca, di scelta e di aggiornamento delle notizie, ma la quantità di siti e di informazioni è talmente vasta che, alla fine, ci si rende conto che è senza fine, che in internet c’è un altro infinito, e che ad essere finiti siamo noi.
Il fatto è che la sensazione di smarrimento che l’uomo prova quando si trastulla con le domande esistenziali e guarda all’orizzonte, rendendosi conto di essere molto più piccolo di un granello di polvere nel cosmo, è diversa da quella che prova navigando nel web perché il cosmo non dipende da lui, non è una sua creatura. Anche se immagina che nell’universo ci possano essere molte cose “inutili”, queste non dipendono da lui, e non ha impressione di perdere tempo; mentre nel mondo di internet questa sensazione è sempre dietro l’angolo. Anche quando si prova a fare giornalismo “in casa”, creando un proprio blog o un’associazione di navigatori. Non è per la frustrazione che deriva dalla difficoltà di “distribuzione-diffusione” delle notizie, molto più ridotta che nei media tradizionali, a meno che non accada una congiunzione “astrale”, come quella provocata dall’uragano Kathrina che ha messo in rete contemporaneamente milioni di persone, tutte concentrate a descrivere ciò che vedevano, soffrivano, ascoltavano e rilanciavano nel web.
Non è per questo, ma per il fatto che anche l’informazione diventa un granello di sabbia nel cosmo della rete, e che la qualità si trova in mezzo a montagne di spazzatura. Anche l’informazione tradizionale è piena di spazzatura e, a differenza della rete, in quella tradizionale non hai una gran scelta, a parte quella di cambiare canale o di voltare pagina. Ma è la ridondanza che impressiona e preoccupa. Mentre il tempo a disposizione, al contrario, diminuisce.
Non è un caso che per pensare, valutare, trovare un senso, una spiegazione, sia più produttivo sempre andare sul posto, astrarsi dalla rete, e usare internet per interpretare la realtà, non per alimentarlo.
Il tempo di Seneca
Lucio Anneo Seneca non avrebbe mai immaginato che un giorno il mondo avrebbe conosciuto internet, ma nelle sue Lettere all’allievo Lucilio (Epistolae morales ad Lucilium, scritte pochi anni dopo la morte di Cristo), affronta anche il tema del tempo con una lungimiranza che va oltre il mondo della rete: “Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri; solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto. E l’uomo è tanto stolto che, quando acquista beni di nessun valore, e in ogni caso compensabili, accetta che gli vengano messi in conto; ma nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è questo l’unico bene che l’uomo non può restituire, neppure con tutta la sua buona volontà”.
Riconquistare il tempo rubato
Non so se Seneca, riportato in vita, potrebbe essere un buon direttore di giornale, ma le sue parole ci devono spingere a combattere, ogni giornalista singolarmente, tutti i santi giorni in redazione, per riconquistare il tempo rubato.
E’ l’unico antidoto ad un’informazione sempre più “marmellata”, per la quale la strage di Erba è sullo stesso piano dell’ultima baruffa in Parlamento, della infantile love story tra Sarkozy e la Bruni, dei massacri in Darfur, in Ciad, in Kenia, delle tragicomiche familiari dentro all’ultimo Grande Fratello, della crisi ambientale globale. Anche per gli spettatori il tempo è sotto sequestro e se l’informazione rinuncia al suo ruolo chiunque impunemente potrà continuare ad ipotecare il tempo di tutti noi.