Dancing Days, 1978-1979: due anni e il mondo cambiò
In un libro di Paolo Morando per Laterza la ricostruzione di un momento particolarmente delicato della storia del nostro paese, l’ avvento del cosiddetto ‘riflusso”, e del ruolo amplificatore dei media – Una lettera anonima sulla prima pagina del ”Corriere della Sera” segna il netto cambiamento di clima che si sta preparando, con l’ irruzione prepotente del privato sulla scena pubblica – Una intervista di Antonella Beccaria all’ autore
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”Il riflusso ci fu, le testimonianze che ho raccolto lo indicano. I media poi lo amplificarono, ci si gettarono a corpo morto, in molti casi con una buona dose di strumentalizzazione. Il risultato fu quello di legittimare una nuova ideologia: quella appunto del farsi i fatti propri. Gli anni ’80 poi fecero il resto”. E’ così che Paolo Morando introduce, in una conversazione con Antonella Beccaria, il tema di "Dancing days:1978-1979, i due anni che hanno cambiato l’ Italia", pubblicato con Laterza.
Il ruolo dei media in questo drastico cambio di clima culturale e politico è decisivo. E la ricostruzione di quel momento di fortissima accelerazione e discontinuità prende le mosse non a caso dalla prima pagina del Corriere della sera che, una mattina del settembre del 1978, ospita una lettera anonima di un cinquantenne che minaccia il suicidio perché la sua giovane amante, dopo anni di vita clandestina, ha deciso di lasciarlo per un matrimonio regolare.
”Per l’ Italia di allora è una bomba – spiega la nota editoriale -: il privato per la prima volta irrompe sulla scena pubblica. Le tirature schizzano, il ‘Corriere’ è bombardato di critiche, ma anche di consensi. Il ‘caso’ dell’amore in prima pagina – spiega la nota editoriale – è il segno che il paese sta cambiando: dopo un anno tragico, gli italiani che sognavano la rivoluzione si accontentano di essere felici o, più modestamente, di divertirsi, di andare a ballare la sera. Il consumismo, nemico giurato del ’68, sta per stravincere la partita. Nella tradizione del giornalismo investigativo di razza, e attraverso decine di testimonianze di giornalisti, intellettuali e artisti, Paolo Morando racconta un’epoca, rievoca storie e protagonisti, svela intrecci e retroscena mai venuti alla luce. E dimostra, documenti inediti alla mano, come la felice intuizione del "Corriere", allora già inquinato dalla P2, sia stata tutt’altro che casuale”.
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di Antonella Beccaria
“Te lo segnalo perché mi sembra in linea con le riflessioni che stai facendo sul piano di rinascita della P2”. È Stefano Pogelli, giornalista Rai e docente universitario, che alcune settimane fa mi scrive queste parole riferendosi al libro Dancing days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia di Paolo Morando (Laterza, 2009). Ed effettivamente, chiusa l’ultima pagina di questo volume, ne vengono fuori impressioni che forniscono ulteriori strumenti per leggere la coda di un decennio a confine tra due epoche. Per ripercorrerle, queste impressioni, è utile far parlare direttamente direttamente l’autore. Che, al contrario di quanto si potrebbe pensare scorrendo le pagine di “Dancing days”, gli Anni Settanti li ha vissuti non da adulto che osserva e registra, ma da bambino (è nato nel 1968). Trentino, laureato in sociologia e divenuto giornalista, ha lavorato testate venete, altoatesine e nazionali (Repubblica, Problemi dell’informazione del Mulino) e dal 2005 insegna giornalismo all’università di Verona, facoltà di lettere e filosofia.
Due anni chiave per la storia recente italiana: il 1978 e il 1979. Ma l’ottica con cui li leggi è inedita, almeno per lettori che non sono addetti ai lavori. Da un lato tra i giovani c’è chi inizia a ballare e a sognare il successo sulle piste o in tivvù; dall’altro chi invece rimane ancorato a una visione politica più ortodossa, in cui il divertimento trova spazio fino a un certo punto. Era così netta questa spaccatura sul finire degli Anni Settanta?
In realtà non ne sono certo, all’epoca avevo 10 anni ed era un mondo che non potevo conoscere. Di certo però sul finire degli anni ’70, rivedendo i giornali di allora, i giovani che mettevano la politica in cima a tutto si ritrovano investiti da una serie di fenomeni (politici, culturali, più in generale di costume) che spazzano via il retroterra in cui, per anni, l’impegno e la militanza giovanile avevano prosperato. Il risultato non è tanto una spaccatura, quanto piuttosto la scomparsa, di botto, della legittimazione culturale su cui faceva leva un modo di vivere e di intendere la politica. Dopo il sequestro Moro un’intera generazione si ritrova a fare i conti con gli effetti, tragici, del sogno di fare la rivoluzione. E si sgretola: chi scegliendo la discoteca, chi l’India, chi finendo nel tunnel della droga, chi perseguendo fino in fondo la via della lotta armata. I più, semplicemente, ritirandosi nel proprio privato. Il riflusso ci fu, le testimonianze che ho raccolto lo indicano. I media poi lo amplificarono, ci si gettarono a corpo morto, in molti casi con una buona dose di strumentalizzazione. Il risultato fu quello di legittimare una nuova ideologia: quella appunto del farsi i fatti propri. Gli anni ’80 poi fecero il resto.
Il riflusso inizia con la lettera del cinquantenne innamorato di due donne e, non sapendo decidere tra moglie e amante, afferma di preferire il suicidio. Quelle righe finiscono in prima pagina sul Corriere della Sera, per quanto – si scoprirà – fosse falsa o quanto meno riscritta in bella forma, e decretano il ritorno del privato sul politico. A valle del tuo studio, privato e politico sono effettivamente due rette che non si toccano o piuttosto potrebbero essere uno strumento dell’altro?
Direi che da allora la matassa è diventata inestricabile: il Noemigate di queste settimane lo dimostra. Il fatto che però la lingua italiana debba ricorrere a un termine inglese come “privacy” per indicare il concetto del privato è significativo. L’Italia di fine anni ’70, come ha scritto Berselli su Repubblica recensendo “Dancing Days”, è un paese che cerca di mostrarsi disinibito prima ancora di essere evoluto. E l’evoluzione, che non c’è mai stata, consiste anche nel separare con nettezza la “policy” dalla “privacy”. Se poi chi detiene le chiavi delle porte che dividono il mondo dalle nostre case, cioè la televisione, è anche il capo del governo, allora diventa davvero difficile distinguere tra le due dimensioni. Forse si può dire questo: mai come ora, probabilmente, il privato è diventato arma politica. Il che non significa banalmente l’uso di dossier scandalistici ai danni di rivali politici, questo lo si è sempre fatto. Mi riferisco ad altro: all’ostentazione del proprio privato come atout politico, e questo vale per tutti, da Noemi al risotto di D’Alema. Che questo sia il frutto di trent’anni di televisione di un certo tipo, di trent’anni di destrutturazione della società civile e delle sue saldature, meglio di me potrebbe dirlo un sociologo. Ma io ne sono convinto. Come diceva Gaber in “Polli d’allevamento” (1979, non a caso), sono gli oggetti a scegliere noi, non viceversa, e lo fanno selezionandoci in base al reddito. E da allora non abbiamo più spento il televisore.
La disco music, John Travolta, la febbre del sabato sera, l’affermarsi delle discoteche e la ricerca dello sballo (o di uno sballo differente rispetto alle esperienze psichedeliche precedenti). Come reagisce il mondo della musica impegnato, dai cantautori ai gruppi che hanno segnato la storia di quel decennio?
Nel libro, tra i tanti aspetti anche musicali di quei due anni, racconto la parabola di Alan Sorrenti, che è paradigmatica: dallo sperimentalismo di “Aria” a inizio anni ’70 a “Figli delle stelle” e “Tu sei l’unica donna per me”. Ed è una vicenda simile, ad esempio, a quella di Battiato: da atmosfere allo Stockhausen a “L’era del cinghiale bianco”. Il fatto è che in quei due anni, di colpo, viene meno tutto quel background socioculturale che era il mare in cui nuotavano gruppi come Area e Stormy Six, che sono poi il meglio che l’Italia abbia avuto da offrire al rock. Da questo punto di vista la morte di Demetrio Stratos è il sigillo a un’epoca. Non è un caso che il ritorno del rock negli stadi, dopo anni di autoriduzioni e sommosse, inizi proprio pochi giorni dopo il Concerto per Demetrio all’Arena di Milano, con il tour “Banana Republic” di Dalla e De Gregori. Nel corso del quale non si verificherà alcun incidente, benché negli anni precedenti entrambi i cantautori fossero stati oggetto di lanci di molotov o processi sul palco. Improvvisamente, a fine anni ’70, il pubblico giovanile fin lì iperpoliticizzato si accontenta di trascorrere una sera in uno stadio ad ascoltare musica senza attribuirvi più alcun significato politico. Io credo che in generale sia stata una prevedibile reazione di stanchezza, anche se si dovrebbe considerare più semplicemente anche il ricambio generazionale, la sostituzione cioè meramente anagrafica di un pubblico all’altro. Certo è che si è trattato della ciliegina sulla torta per chi allora lavorava per mettere in archivio gli anni ’70 e il loro spessore politico.
Senza un ampio spazio sui mezzi di informazione, almeno una parte di questi fenomeni avrebbero avuto una portata molto più ridotta. Cosa scoprirono i giornali in questa nuova onda che arrivava da oltreoceano? E, se lo fecero, come guidarono l’affermazione di nuovi stili di vita?
Lo fecero in molti casi amplificando questi fenomeni, cavalcandoli, non certo limitandosi a registrarli. Il che è tutto sommato quello che accade anche oggi: l’affermazione delle mode è pane quotidiano per i mezzi d’informazione, che per loro natura hanno bisogno ogni giorno di novità per tenere testa a un pubblico/consumatore volubile e volatile come pochi altri. Poi, ed è il discorso più delicato, si dovrebbe analizzare le reali motivazioni di questi “megafoni”, ed è quello che ho cercato di fare in “Dancing Days” raccontando dello “Scenario” che guidava il Corriere della Sera: un documento riservato commissionato dalla direzione di un gruppo editoriale come la Rizzoli già controllato dalla P2, documento che prefigurava – senza mettere in dubbio la buona fede di chi l’ha scritto, un sociologo al di sopra di ogni sospetto come Enrico Finzi – quello che sarebbe accaduto negli anni ’80. Cioè quello per cui lavorava la P2: un paese depoliticizzato, ansioso di consumare, con scarsa attenzione ai meccanismi del potere. Un paese insomma in cui i manovratori avrebbero potuto agire tutto sommato liberamente. Sia chiaro: il riflusso c’è stato, fenomeni come il boom delle discoteche e la cura del proprio aspetto erano tangibili. E più a largo raggio eventi come il sequestro Moro (ripeto: nel senso delle sue conseguenze su una generazione che sognava la rivoluzione), la fine del compromesso storico, la stretta repressiva del 7 Aprile, la marcia dei 40 mila, non sono figli del caso. Segnano un trapasso, a suo modo epocale. Poi, c’era chi tutto questo lo ha amplificato, magari inconsapevolmente. Ma non sempre. Il risultato fu che un politologo come Giorgio Galli, allora, parlava del 1978 che si concludeva come anno da ricordare più per il successo di John Travolta che per la tragedia di Aldo Moro. Lo scriveva a fine anno, con il cadavere di Moro ancora fresco. Il che dimostra l’effetto che ebbe quell’amplificazione mediatica di elementi “leggeri” rispetto al resto.
L’eroina, un altro importante pezzo della storia che racconti. Come si inserisce all’interno del mondo che racconti in “Dancing Days”?
Avrei voluto approfondire di più questo aspetto, ma lo spazio non me lo ha consentito. Avrei voluto farlo perché fu un fattore enorme di disgregazione del movimento giovanile alla fine degli anni ’70. Anche qui: come mai le piazze italiane proprio in quel momento vennero invase da eroina a prezzo tutto sommato modico? Qualcosa di simile avvenne negli Stati Uniti a inizio decennio, e l’effetto fu quello di spazzare via la generazione che si opponeva al Vietnam. Dietrologie a parte, il dato comunque è chiaro: un bel pezzo dell’ultrasinistra giovanile militante finì stritolata dalla droga. La lettera anonima che cito in “Dancing Days”, apparsa su Repubblica nell’estate del ’79, scritta da una ragazza eroinomane, è uno spaccato eloquente dello spaesamento e della disillusione di chi, per anni, ha creduto in certi ideali ma a un certo punto si è accorto della mancanza di sbocchi positivi per il proprio impegno.
Infine, un’ultima domanda. Il 1978 e il 1978 gettarono i semi di un modo pop di vivere, un modo che nel decennio successivo sarà imperante. Ma per finire citando gli Afterhours, secondo te gli anni ottanta sono mai finiti?
No, non ne siamo mai usciti. Ma forse ci si dovrebbe fare un’altra domanda: non è che siano invece gli anni ’70 (che iniziano nel ’68 e finiscono nel biennio che ho raccontato in “Dancing Days”) a dover essere considerati come un corpo estraneo nella storia recente d’Italia? Tolto quel decennio, forse tutto assume un andamento più lineare, uniforme, omogeneo. Un andamento da Strapaese. Allora, proprio nell’editoriale del 31 dicembre 1978, quindi proprio alla fine del decennio ’68-’78, Eugenio Scalfari scriveva che “certi sogni di rivincita, certe crociate contro istituti consolidati nel costume prima ancora che nelle leggi, come divorzio e aborto e insegnamento laico e separazione del temporale dall’ecclesiale, rischiano di aprire conflitti gravissimi, antiche ferite, aspre intransigenze”. Oggi è forse cambiato qualcosa?
Dancing days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia di Paolo Morando (Collana I Robinson. Letture, Laterza, 2009) — 327 pagine — € 16,00 — ISBN 978