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Perchè il giornalismo (inteso come professione) funzioni, è necessario (…) che vi siano e che funzionino i costosi sistemi che lavorano su approvvigionamento, confezionamento e distribuzione delle informazioni. Se questi sistemi cessano di produrre valore, non si potranno avere le risorse per mantenere i giornalisti (confezionamento) e per garantire una buona informazione (approvvigionamento). La popolazione dei giornalisti, allo stato, è prevedibilmente in via di drastica diminuzione. Come sono diminuite le popolazioni di molte specie animali quando il loro ecosistema si è modificato troppo in fretta per dar loro il tempo di reazione.
La previsione è di Giuseppe Granieri* che, su Apogeonline ha tracciato una ampia analisi della possibile evoluzione del giornalismo nel quadro della crisi generale che sta attraversando l’ editoria giornalistica.
I dati sembrerebbero dargli torto. Negli ultimi anni il numero di giornalisti iscritti all’ Ordine, anche nell’ albo dei professionisti, è andato aumentando e nulla fa pensare che questa tendenza si debba rovesciare. Tanto che nel novembre scorso Guido Besana, vicesegretario della Fnsi, il sindacato dei giornalisti italiani, si chiedeva: ‘’Ma che fanno 100.000 giornalisti in Italia?’’.
La maggioranza, oltre il 65%, è costituita da pubblicisti che non hanno ufficialmente alcuna attività lavorativa nel settore e da iscritti agli elenchi speciali, nessuno dei quali ha mai avuto una posizione contributiva all’Inpgi, nella gestione principale o nella gestione separata.
Il 25% circa, svolge invece attività giornalistica a tempo pieno in genere regolarmente retribuita (più o meno bene), più o meno subordinata, con diversi gradi di copertura previdenziale, assistenziale e assicurativa. La parte restante è costituita da pensionati, disoccupati, sottooccupati e pubblicisti “classici”.Ci sono poi, in un numero non definibile, quei giornalisti di fatto, non iscritti o non ancora iscritti all’albo, che sfuggono alle statistiche della categoria.
La crescita incontrollata che negli ultimi dieci anni ha portato al raddoppio degli iscritti all’albo rende difficile una determinazione precisa dei numeri, che crescono al ritmo di oltre 500 unità al mese, ma la sostanza nel periodo attuale è questa.
Ma il ragionamento di Granieri si concentra soprattutto sulle basi materiali del giornalismo come professione, ovvero l’ industria giornalistica e, quindi, su quei segmenti ‘’alti’’ della professione che quell’ industria finora ha richiesto e alimentato.
Sottolineando che il calo progressivo di valore prodotto complessivamente non potrà non influire su tutto il sistema, Granieri delinea tre fenomeni:
- I costi di distribuzione tradizionale troppo elevati rispetto alla domanda di mercato: il numero di copie vendute comincia a non giustificare la stampa e la distribuzione in moltissimi casi (anche includendo i proventi da allegati e optional di acquisto vari: libri, cd eccetera).
- È cambiato il pubblico. Ci sono fin troppi segnali: la lettura del quotidiano non è più adatta ai ritmi vitali della vita di oggi, non sulla scala grande che serve a stamparlo. Il ciclo veloce di disponibilità di informazione, in tempo reale, ha abituato gli individui a consumare le notizie e le opinioni in maniera molto più mirata e rapida rispetto ai tempi di circolazione e senescenza di un quotidiano. E, come dice Mark Hamilton, è cambiato il consumo di media: nessuno legge più solo un quotidiano e per l’individuo non ha più troppo importanza la fonte, poichè ne ha tante a disposizione e le usa. Questo non vuol dire che si sia ridotta l’autorevolezza delle grandi testate, ma piuttosto che non dovendo più pagare per informarsi, l’aumento dell’offerta ci consente di saltare da una fonte all’altra con evidente facilità, limitando l’affezione a una data testata (non più necessaria).
- Il processo di informazione e di distribuzione non si esaurisce più nella linearità del processo giornalistico. Gli individui mediano le diverse fonti, le rielaborano, le rimettono in circolazione nei diversi network e nella blogosfera. È quanto Shirky chiama superdistribuzione.
E nota:
Nonostante i lettori online aumentino, le pubblicità sulla carta vengono (ancora) pagate infinitamente di più. Non durerà a lungo. Ma i prezzi bassi e forzatamente concorrenziali dell’online non potranno certo supplire allo stesso modo. E tenderanno a scendere.
Anche se la raccolta pubblicitaria online migliorasse, potrebbe non bastare. Il tradizionale sistema di finanziamento dei news media posava su tre fattori, nota Walter Isaacson: vendita in edicola, abbonamenti e pubblicità. E aggiunge: basato solo sulla pubblicità è come se una sedia a tre gambe dovesse stare in piedi solo su una.
Quanto alle soluzioni, quelle su cui
si sta discutendo hanno dell’avventuroso, ma fanno parte di un ragionamento che deve per forza avvenire a 360 gradi. Lo stesso Isaacson ha recentemente rilanciato l’idea di David Carr dei micropagamenti: il modello è semplice, si paga qualche centesimo per articolo.
Ma, non si può paragonare l’ informazione alla musica e guardare all’ esperienza di iTunes:
i micropagamenti funzionano solo in assenza di un mercato con altre opzioni legali. Inoltre, aggiunge Gabriel Sherman su Slate, la musica è un contenuto con un ciclo di vita molto più lungo delle news.
Le alternative? Poche e fantasiose.
Sul New York Times si è lanciata l’ipotesi di fare dei news media fondazioni o enti no profit. Ma, al di là dell’effettiva praticabilità (quante testate potrebbero resistere?) è stato subito notato il rischio, sul fronte democratico e della qualità, del distacco tra le testate e la pressione del mercato. Altrove si è suggerita l’esenzione dalle norme antitrust e la formazione di un cartello.
Ma anche questa strada appare poco praticabile.
Jeff Jarvis, tempo fa, sostenne che il Los Angeles Times poteva pagare gli stipendi di tutti i giornalisti solo con le entrate dell’online. Ma gli stipendi non sono gli unici costi, anzi. Il punto vero, per la sopravvivenza del sistema come lo conosciamo, è che non si possono fermare le macchine di stampa, perchè dalla carta viene una percentuale considerevole degli introiti. Quindi, se diamo per scontata l’insostenibilità economica della stampa (almeno nei numeri cui siamo abituati oggi) il sistema non può restare come lo conosciamo. Cambierà inesorabilmente e non sappiamo come. La “specie” dei giornalisti cambierà con il sistema che non è più apparantemente in grado di sostenerla. E non è detto che siano tutte rose e fiori.
In attesa di vederlo e di capirlo, il cambiamento, non mancano gli esercizi: Steve Outing (segnalato anche da Tedeschini qui da noi) immagina una redazione all digital e dà anche qualche consiglio. E Ken Paulson ci racconta come sarebbero stati i giornali se fossero stati inventati dopo il modem. Due letture utili per capire cosa (forse) succederà.
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Massimo Russo ha commentato l’ articolo con una nota di forte pessimismo:
La transizione al digitale sarà lunga e faticosa. Non penso esista una ricetta unica. Alla fine, attraverso una combinazione di fattori, solo una piccola parte degli editori che conosciamo ora, darwinianamente, sopravviverà. E questo comunque non significa che il giornalismo di qualità sia destinato a farcela.
‘’Uno scenario inquietante’’ nota Roberto Venturini:
Si apre allora uno spazio di mercato quasi incontrastato per media che non hanno logiche commerciali – ma non nel senso del no profit quanto nel senso dell’influenza politica dei mezzi.
Dei bei giornali e dei bei telegiornali come siamo abituati a vederli. Politicamente forse un po’ a senso unico, ma vuoi mettere la qualità rispetto ai foglietti striminziti della concorrenza e alla TV che trasmette le recite della filodrammatica?
In questo scenario dunque, gli unici mezzi paragonabili come robustezza, dimensione e glamour a quelli attuali sarebbero quelli che godrebbero di finanziamenti corposi da parte di attori che utlizzino questa unica voce “di massa” come strumento per orientare l’opinione pubblica a fini politici, con una potenza di fuoco incontrastabile (in termini di voti) da parte di mezzi diciamo più di nicchia come quelli online – che per molti anni ancora e specialmente in uno scenario di possibile contrazione delle revenue pubblicitarie non potrebbero certo essere mezzi di riferimento per una percentuale maggioritaria dell’elettorato.
Secondo Eleonora Panto (puntopanto),
Forse possiamo ancora continuare a discutere se sono le tecnologie digitali o il mercato che stanno cambiando il modo di fare giornalismo, ma forse varrebbe la pena di capire come fare a difendere l’informazione.
E in questo senso Bernardo Parrella invita a usare un punto di vista più ampio e a non trascurare fenomeni corposi come il giornalismo partecipativo.
Mi sembra un errore dare per scontato che l’evoluzione del giornalismo dipenda dal futuro dei grandi gruppi editoriali, dei “big media”…
…Non solo il giornalismo partecipativo nelle sue varie forme e localizzazioni diventa sempre piu’ centrale nell’informazione globale (o meglio: glocale) della gente, ma proprio per i news media e’ pilastro ormai vitale per riguadagnare credibilita’ (e vendite) – basti vedere spazi e opzioni in tal senso di NYT, CNN e via di seguito.
Il punto non e’ sostituirsi ad alcunche’, quanto piuttosto dare voce ai singoli, ai nativi digitali, alla gente comune, alle contro-inchieste, ai social media, ai citizen reporters – tutte situazioni che i big media non possono ne’ vogliono affrontare o abbracciare, per scelta corporativo-economica prima di tutto
Ma Granieri replica:
il giornalismo non professionale non avrà mai i mezzi per coprire quanto succede nel mondo, non in maniera sistematica nè organizzata. E’ un complemento lussuoso, ma non un sostituto del giornalismo professionale dentro un “news media”.
La discussione è aperta.
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*Giuseppe Granieri è tra i maggiori esperti italiani di comunicazione e culture digitali. Scrive di tecnologia e società da molti anni su testate quotidiane e periodiche. È autore, tra l’altro, di Società digitale (Laterza, 2006) e Blog Generation (Laterza, 2005).