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Il canto del cigno della stampa Usa

La triste parabola del Rocky Mountain News, chiuso dopo 150 anni e quattro Premi Pulitzer, rappresenta meglio di qualsiasi altro esempio la drammatica crisi di tutto il settore – “Vogliono tanta carta stampata quanta ce n’è su una scatola di cereali, quanto cioè riesci a leggere sul web, vogliono soltanto titoli e grafici di riassunto, senza analisi. E si sentono in diritto di avere gratuitamente anche la copertura più complessa e sofisticata”, è il commento di un redattore che da 21 anni lavorava al quotidiano del Colorado

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di Matteo Bosco Bortolaso

New York – Due giornali che falliscono in Pennsylvania, lo storico quotidiano di Denver che chiude i battenti con la redazione in lacrime, il San Francisco Chronicle a rischio bancarotta. La crisi colpisce il mondo e gli Stati Uniti, senza risparmiare la carta stampata. Ma quando l’ economia ripartirà i quotidiani non torneranno ad essere pubblicati, visto il successo dell’ informazione online.

E’ un vero e proprio canto del cigno, quindi, quello del The Rocky Mountain News, la gazzetta delle Montagne Rocciose, storico giornale del Colorado fondato 150 anni fa, nel 1859, che ha definitivamente chiuso per crisi (vedi Lsdi, R.I.P., Rocky Mountain News). La casa editrice, E.W. Scripps, stava cercando disperatamente un acquirente dopo che il quotidiano aveva accumulato, per il 2008, perdite per 16 milioni di dollari. Nessuno si è fatto avanti.

Il capo della casa editrice, Rick Boehene, ha detto alla redazione che è scoppiata in lacrime: "Il Rocky è vittima di una economia pesantissima e di una rivoluzione nell’ industria giornalistica". I giornalisti hanno letteralmente riempito gli scatoloni e se ne sono andati. Con il giornale se ne vanno anche archivi costruiti nel corso di decenni, con informazioni preziose su persone e imprese che contano in Colorado. Un partimonio perduto, un passato dorato illuminato da quattro premi Pulitzer.

Si può capire molto ascoltando le reazioni di alcuni lettori all’ indomani della chiusura. "Non so se quelli che hanno la mia età avranno tempo per leggere un giornale, il mattino", dice Chris Olivier, un manager di 37 anni, spiegando che le informazioni lui le cerca sul web e su alcune pubblicazioni ultra-locali dei quartieri di Denver. "E’ triste vedere che una parte immensa della storia di questo Stato è andata persa – continua Olivier – ma il mercato si sta muovendo e i giornali non l’ hanno seguito: non capiscono l’ online".

Proprio contro l’online punta il dito Mike Pearson, uno dei 230 giornalisti che si sono ritrovati disoccupati. "Vogliono tanta carta stampata quanta ce n’è su una scatola di cereali, è quello ciò che riesci a leggere sul web – si lamenta Pearson, 49 anni, di cui 21 passati al Rocky – vogliono soltanto titoli e grafici di riassunto, senza analisi. E si sentono in diritto di avere gratuitamente anche la copertura più complessa e sofisticata". In effetti, i dati del Pew Research Center sembrano dargli ragione: dal 2006 al 2008 i lettori online sono passati da un quarto ai due terzi del totale. Ma complessivamente la percentuale di chi legge – online o su carta – è diminuita, passando dal 43% al 39%.

In Colorado, comunque, c’è chi rimpiange la perdita del conservatore Rocky. Ora è rimasto solo il concorrente, il progressista The Denver Post. Paige Raimey, una giovane madre di 27 anni, li comprava sempre entrambi per sentire le due campane. E c’ è pure chi, come Jason Perez, ha voluto comprare l’ ultima copia del giornale "per valore affettivo". "A differenza del Post il Rocky è sempre stato più integrato nella comunità, era il giornale che ti parlava diretto – spiega – il Post è invece un osservatore più accademico e distante". Nonostante la concorrenza, Rocky e Post si dividevano le spese di stampa e le consegne agli abbonati. Dopo l’ annuncio della morte del primo, il secondo ha deciso di uscire anche di sabato e di assumere cinque dei neo-licenziati.

A Denver sperano che pure Jerd Smith, cronista che ha sempre pungolato le amministrazioni locali sui problemi della comunità, non rimanga disoccupata. "Ne sapeva – racconta una vecchia lettrice, la 61enne Linda Maiere – scriveva cose che le persone non volevano per forza sentire, ma andavano dette: spero che possa raccontarle ancora".

L’orizzonte è cupo anche per il San Francisco Chronicle, edito dalla società Hearst, erede del mitico editore William Randolph Hearst, ritratto da Orson Wells in Quarto Potere. Ci vogliono tagli, ci vuole un acquirente, hanno detto all’ azienda. La nota aziendale è chiarissima: "La sopravvivenza è ciò che tutti vogliamo – si legge – ma senza cambiamenti specifici, non abbiamo altra scelta che trovare rapidamente un compratore per il Chronicle e, se non lo troveremo, dovremo chiudere il giornale". Sarebbe un’altra perdita pesante: il giornale ha una diffusione di 339 mila copie, l’ 11esima negli States.

Come se non bastasse, due gruppi editoriali in Pennsylvania – il Journal Registers e il Philadelphia Newspapers – hanno presentato i documenti per il fallimento, proteggendosi così dai creditori (il secondo ha un debito di 390 milioni di dollari). I due giornali editi da Philadelphia Newspapers, il Philadelphia Inquirer e il Philadelphia Daily News, continueranno a stampare, ha assicurato il Ceo Brian Tierney. Ma lo spettro della chiusura rimane lì, minaccioso. Ed è diffuso: nel dicembre dell’anno scorso pure The Tribune Co., proprietaria del Chicago Tribune e del Los Angeles Times, ha dichiarato bancarotta. Erano due tra gli otto giornali più diffusi degli Stati Uniti.

Non se la passano meglio nemmeno alla Ganett, enorme conglomerato che ha chiesto ai suoi 53 mila dipendenti di astenersi dal lavoro per una settimana. Anche così si risparmia. I profitti per il quarto trimestre del 2008 erano scesi del 36% rispetto al 2007. Il modello Ganett – meno lavoro, ma lavoro per tutti – potrebbe essere imposto anche ai dipendendi californiani di Media News Group. Il gruppo possiede 61 quotidiani, tra cui il Denver Post, il concorrente del defunto Rocky Mountain News.

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