Il complesso mestiere del reporter di guerra
Una lezione all’ Università di Padova sul giornalismo di guerra di Enrico Cremonesi, inviato del Corriere della Sera
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Enrico Cremonesi, inviato di guerra del Corriere della Sera, ha raccontato la sua esperienza di corrispondente durante una lezione di giornalismo tenuta dal professor Raffaele Fiengo alcuni giorni fa a Palazzo Maldura, Padova.
Cremonesi è partito prendendo spunto da Luigi Barzini, penna storica del Corriere e primo redattore viaggiante italiano, che si occupò tra l’altro della rivolta dei boxer in Cina (1900), della guerra russo-giapponese (1904-1905), della guerra di Libia (1912) e del primo conflitto mondiale. Sebbene si recasse sul campo di battaglia, ha spiegato Cremonesi, molte informazioni trascritte da Barzini erano inventate, o comunque ‘’gonfiate’’.
Cosa che frequentemente, secondo Cremonesi, accade ancora adesso: un giornalista all’ estero, trovandosi in zone di crisi e poco controllabili, può essere portato spesso a ingigantire alcuni eventi per renderli più “notiziabili”. Inoltre si aggiunge il fenomeno dei trust: quando a dare la stessa informazione sono più fonti, questa viene presa come realtà assoluta anche se così non è, e chi cerca di smentirla viene considerato un menzognero. Scegliere i fatti solo perché si trovano anche in altri giornali è un difetto soprattutto italiano. E pubblicare solo le notizie che rimbalzano da un’ agenzia di stampa all’ altra senza verificarne le fonti e l’ attendibilità è rischioso.
E’ importante che un giornalista conosca bene i fatti di cui parla e racconti solo quello che può dimostrare – ha spiegato Cremonesi -. Ma per chi gira in zone di crisi il mestiere di scrivere passa in secondo piano. Le prime preoccupazioni sono quelle di trovare una sistemazione, approvvigionarsi e successivamente crearsi una rete di contatti fidati. Anche la trasmissione dei pezzi è importante: rispetto alla guerra russo-giapponese citata sopra, dove le notizie dal fronte arrivavano in Italia anche a distanza di settimane, l’ informatica ha permesso di inviare dati in tempo reale.
Il divario tra conoscere i fatti e poterli raccontare è tuttavia ancora presente. L’ inviato di guerra ormai è al 100% embedded (salvo rarissime eccezioni), ovvero si muove al seguito di truppe militari. Non è possibile fare altrimenti perché è tutto controllato e perché è molto pericoloso girare soli. Molte volte un corrispondente può anche dire di trovarsi in un posto mentre si trova da tutt’ altra parte perché non è controllabile. E poi deve fare anche i conti con le disponibilità economiche della testata e i rischi che essa decide di assumersi inviando quella persona in zone “calde”. E ancora, in buona fede il giornalista può riportare notizie false perché le fonti mentono.
Si aggiunga anche il problema della propaganda: quello che uno Stato in guerra ha interesse che venga riferito agli stranieri e cosa no. Alcuni fatti vengono censurati perché l’ opinione pubblica non spinga il governo a prendere determinati provvedimenti: è il caso dei bombardamenti su Israele ad opera di Saddam Hussein. 39 furono gli scud (i missili iracheni) lanciati, che causarono una quarantina di feriti e meno di 10 morti, quasi tutti a causa di un uso maldestro delle maschere antigas. Israele però non reagì all’attacco iracheno perché vennero minimizzati il numero dei lanci.
Nella stampa occidentale, al contrario, il numero dei morti venne messo in rilievo. E la televisione a volte manipola le immagini a proprio piacimento: a Tel Aviv, in occasione dei bombardamenti, venivano riprese solo le rovine degli edifici colpiti per far sembrare la città un teatro di guerra quando in realtà la vita si svolgeva normalmente. La stessa cosa, ha notato Cremonesi, è successa anche nell’ultimo conflitto a Gaza, dove i giornali hanno dipinto un territorio raso al suolo dove era impossibile muoversi e il cibo scarseggiava.
I problemi e le difficoltà c’erano indubbiamente, ma per esempio il Darfur, che non godeva della stessa copertura mediatica, versava in condizioni peggiori. Che altri interessi c’erano sotto?
In generale si fa spesso leva sui morti e sulle efferatezze della guerra perché, ha sostenuto infine Cremonesi, in un area relativamente in pace come l’ Europa se ne subisce una sorta di fascinazione, di interesse quasi morboso. Se fosse un qualcosa di vicino e quotidiano, non avrebbe la stessa presa. O forse perché abbiamo un’ idea di guerra simile a quella di 50 anni fa, e abbiamo bisogno dello stesso impatto emotivo per riconoscerla e provarne orrore. In ogni caso, è sempre meglio non dare tutto quello che ci viene mostrato per vero.
(Elisa Bonomo)