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I ragionamenti sulla crisi dei giornali e i modi per affrontarla svolti nei giorni scorsi dall’ editore Carlo De Benedetti, ‘’sono assolutamente in controtendenza rispetto a quanto si verifica in tutto il mondo, dove l’intreccio fra industria della comunicazione e rete ha abbattuto vertiginosamente i costi generali e per unità di prodotto di tutti i servizi informativi, scremando, impietosamente, quanti invece non hanno saputo adeguarsi”. Lo sostiene Michele Mezza, Vice Direttore Sviluppo Business e Strategie Tecnologiche della RAI ed ex vice direttore di RaiNews24, in un ampio articolo su Agoravox Italia (‘’Giornalismo. Inseguiamo le lancette’’) alla vigilia dell’ incontro di domani alla Statale di Milano su giornalismo e postgiornalismo organizzato dall’ Ordine lombardo..
Il punto di vista del secondo editore italiano è frutto insomma – suggerisce Mezza – di una visione profondamente arretrata dei cambiamenti in corso nel processo produttivo dell’ industria dell’ informazione.
Continua Mezza:
‘’Scrive infatti De Benedetti nel suo intervento sul Sole 24 ore di mercoledì 23 settembre 2009: "dietro ogni notizia che leggiamo sul giornale, scorriamo sul pc, riceviamo via sms, ascoltiamo alla radio, vediamo in tv, c’è il lavoro di molte persone che l’hanno raccolta, controllata, valutata, scritta, registrata, filmata, trattata nel formato necessario, impaginata. Sono giornalisti, operatori, tecnici, ad alta professionalità, retribuiti con i ricavi della pubblicità…" e così conclude il suo pensiero: "oggi un’informazione tempestiva, accurata e articolata è sempre più costosa perché le redazioni che un tempo producevano per una sola piattaforma – carta radio o tv che fosse – sono chiamate a fornire news, video, audio, mappe interattive in costante e caro aggiornamento".
Ecco, dice Mezza:
Ho avuto bisogno di riportare la lunga citazione perché il testo, con lucidissima sintesi, rappresenta il catalogo di tutte le contraddizione professionali e organizzative che spingono il sistema delle informazioni italiano ai margini del nuovo mercato. Infatti, con la sua descrizione del nuovo processo produttivo e del conseguente profilo della redazione contemporanea, De Benedetti ci dice, in buona sostanza, che quello che sta accadendo nulla è se non un fenomeno di innovazione di processo, come dicono gli economisti, mentre la natura e l’ambiente del mestiere poco deve mutare, se non forse negli orari di produzione un pochino più frenetici.
Infatti solo in questa logica si spiega come per De Benedetti la convergenza multimediale, di questo sta parlando nel suo articolo e non di altro, si riveli semplicemente un ulteriore accidentato itinerario produttivo che prolunga, rendendolo più costoso, il tradizionale modello di produzione dell’industria delle news.
Evidentemente – prosegue Mezza – la legge di Moore non è riconosciuta in questo paese. Come è possibile ritenere, come appare dalla citazione riportata, che la transizione in un ambiente digitale delle fasi di produzione di informazioni, in qualsiasi formato, citate dall’ing. De Benedetti (raccolta delle news, validazione, stesura dei testi, edizione di filmati o formati audio, impaginazione e adattamento alla tipologia di piattaforma distributiva) sia considerata una procedura più costosa e laboriosa di prima?
A meno di non voler salvaguardare il modello fordista ancora in auge nelle redazioni italiane, dove ogni funzione, ogni mansione, richiede apparati e figure professionali diverse. Insomma nel digitale l’innovazione costa a chi non vuole cambiare.
E aggiunge:
Come è possibile che ancora oggi nessuno in questo paese abbia posto all’ordine del giorno il tema di una riflessione di fondo sul modo in cui viene mediata l’informazione, sui nuovi comportamenti sociali, sulle forme antropologiche che ormai modificano il rito della preghiera laica quotidiana, come Hegel definiva la lettura del giornale?
Certo che se, come sembra capire dalle parole del secondo editore italiano, tutti i comportamenti in redazioni rimangono come prima, cioè il modello redazionale parcellizzato e stratificato che vige da due secoli, fondamentalmente immutato nella struttura professionale, non viene ridiscusso, e ci si limita ad aggiungere al tradizionale treno di produzione le nuove fasi tipiche della digitalizzazione (multiformati, formattazione ed edizioni specifiche), allora mi rendo conto come l’avvento della rete sia da intendersi come una maledizione divina.
E’ come se al tempo dell’introduzione del ciclo a freddo, qualcuna avesse avuto l’idea, per risolvere i drammatici problemi occupazionali che pure si posero in tipografia, ad allungare la filiera e a collocare i computer per la composizione e l’impaginazione, dopo le fasi di impaginazione a caldo, invece di sostituire i passaggi obsoleti.
Ma questa cultura profondamente arretrata e cieca non è solo degli editori (anche di quelli politicamente più avanzati) ma, secondo Mezza, è radicata anche dentro gran parte del giornalismo italiano.
Io credo che come giornalisti abbiamo perso la nostra battaglia contrattuale non per come si sia conclusa la vertenza ma per come sia iniziata.
Con una piattaforma, e più in generale una cultura che, proprio come l’ing De Benedetti, considera l’innovazione un pedaggio da pagare alla contemporaneità.
Io credo che invece l’innovazione sia una straordinaria opportunità che abbiamo per essere più liberi, più autonomi e meno dipendenti da editori e istituzioni. Sicuramente più di prima e meglio di prima.
Ad una condizione: smettiamo di sparare contro agli orologi, come faceva per disperazione i comunardi di Parigi nel 1870 e mettiamoci in concorrenza con chi sta davanti, senza rimpiangere chi galleggia alle nostre spalle. Inseguiamo le lancette.