(foto da www.paolofavaro.com/)
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Il caso di Chiavenna – fotocamera e tessera professionale sequestrate, per "motivi di privacy", a un fotogiornalista da militari della Guardia di finanza (vedi qui) – è solo la punta dell’ iceberg di una realtà diffusissima che si consuma ogni giorno in piccoli episodi di illegittimità e prevaricazione che difficilmente possono finire da soli sotto i riflettori dei vertici della categoria. Raccolti insieme in un Dossier specifico, invece, possono dare una esatta dimensione alla portata di una pesantissima realtà fatta di difficoltà, abusi, censure preventive, vessazioni, prepotenze, danni economici.
E’ per questo che Amedeo Vergani, animatore del Gsgiv (Gruppo di specializzazione dei giornalisti dell’ informazione visiva) dell’ Associazione lombarda dei giornalisti, lancia un appello ai fotogiornalisti a ‘’segnalare episodi specifici e circostanziati nei quali presumete di aver subito torti e violazioni. Li raccoglieremo – spiega Vergani – in un dossier che manterremo a disposizione dei vertici di Sindacato e Ordine e di chiunque altro voglia darci una mano nel riuscire a lavorare, almeno su questo fronte, con più rispetto dei nostri diritti e maggiore serenità’’
Intanto sull’argomento – che Lsdi ha già affrontato più volte (vedi qui e qui) – pubblichiamo un testo di Luca Zennaro, fotogiornalista della redazione Ansa di Genova, che tratta in pieno alcuni aspetti di "vita vissuta". L’ articolo è la "tesina" presentata il 21 gennaio alla prova orale dell’esame di abilitazione professionale, superata con ampio successo.
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“Photojournalism is dead?”
di Luca Zennaro
Non mi fotografi, prego!
«Ma che cosa sta facendo! Lei non mi può fotografare, c’è la legge sulla privacy!». Per i fotoreporter, più che un ritornello, è un vero e proprio tormentone che li insegue, li incalza, li assedia e li snerva ormai da molti anni. Dall’entrata in vigore delle norme che tutelano la riservatezza del cittadino (nota 1) i fotogiornalisti, infatti, anche nelle situazioni più banali – come una manifestazione, un fatto di cronaca cruento, o una partica di calcio – sono evitati dalla gente come se avessero la peste.
Salvo poi vedere qualche volta le stesse persone, davanti a una telecamera, sgomitare per fare «Ciao!», passeggiare facendo finta di telefonare pur di rientrare nell’inquadratura, o addirittura partendo in gruppo con il tormentone televisivo “Italia Unooo”.
C’è qualcosa che non va. È il “cannone” dei professionisti, quello con il teleobiettivo, mettiamo, da 70-200 mm che fa paura? Perché si teme che quella foto possa finire sui giornali? Forse. Altrimenti non si capirebbe come mai giornalisti professionisti che girano con macchinette digitali, oppure perfetti sconosciuti che fotografano di tutto ottengono sorrisi e collaborazione. Siamo noi i maledetti.
Ancora dieci anni fa, quando facevi una foto allo stadio o in un corteo, ti chiedevano il numero di telefono ed erano disposti a venire in dieci a comprartene una copia ricordo, ora va bene se non ti guardano male o se qualche volta non ti coprono d’insulti. Perché i giornalisti, si sa, in questo momento non godono di buona fama.
Ormai la foto le persone se la fanno da sole con le loro macchinette digitali, la ritoccano, la mettono su Facebook, sui loro blog o sui giornali fatti in casa che poi pubblicano in pdf sui siti di club, associazione, sodalizi.
Tutto è cambiato. E mentre il fotogiornalista cerca di fare il proprio mestiere rispettando le regole, un mare di foto spedite dai lettori invade le redazioni, e le pagine dei giornali. È il “photo-cityzen-journalism”, bellezza!
Battute a parte, proprio nelle scorse settimane il collega Amedeo Vergani ha aperto un dibattito, rilanciato dalla Fnsi, che ha avuto ampia eco su molti siti specializzati*, ponendo una domanda sulla quale aveva dibattuto a lungo la Federazione Internazionale dei Giornalisti riunita a Parigi nel dicembre scorso: la professione di fotogiornalista è, come i panda, a rischio di estinzione?
Molti motivi porterebbero a questa conclusione. I più importanti: l’insufficiente tutela da parte degli organismi di categoria; la tendenza all’espulsione dagli staff redazionali dei fotogiornalisti contrattualizzati; il blocco e la verticale caduta delle tariffe pagate ai liberi professionisti grazie alla politica di mercato praticata da agenzie fotografiche sempre più aggressive; la diffusione di collaboratori giornalisti che spesso a soli 2 euro, o anche gratuitamente, forniscono le foto per i loro testi; l’intervento di soggetti terzi (sponsor) che pagano le spese dei servizi condizionando l’autonomia dell’informazione; una legge sul diritto d’autore che lascia troppe ambiguità interpretative; la concorrenza dei fotografi amatoriali; Internet da cui chiunque può scaricare gratuitamente di tutto; le restrizioni e i divieti sempre più severi per fotografare in pubblico, sia per riprese di vita quotidiana sulla strada sia durante le manifestazioni organizzate. La non disponibilità degli editori – conclude Vergani riportando i lavori parigini – a riconoscere ai fotogiornalisti contratti equi e giusti. E tutto ciò non porta certo a vedere un futuro roseo per questo mestiere.
Vent’anni di fotogiornalismo, è proprio così!
Lavoro come fotogiornalista da circa vent’anni. Prevalentemente per l’Ansa, ma per molti anni ho realizzato su commissione servizi per L’Espresso e il Corriere della Sera. Seguo da sempre, oltre alla cronaca, anche il calcio: serie A, B, Coppe, Nazionale e competizioni internazionali in Italia e all’estero. Posso così dire che l’analisi dei colleghi della Federazione dei giornalisti europei corrisponde a quanto ogni giorno vivo sulla mia pelle, almeno dalla fine degli anni Novanta. In una frase: il fotogiornalismo sta perdendo identità, regole, professionalità.
Qualche esempio. Nel luglio 2001 ho seguito a Genova un pò tutti i fatti che hanno reso famoso il G8, coprendo anche i successivi risvolti giudiziari. Durante quest’ultima fase, mi è capitato, a proposito di discriminazione dei fotoreporter, un episodio davvero significativo: in occasione della requisitoria finale a carico dei poliziotti inquisiti per il blitz alla scuola Diaz, nonostante il Presidente del Tribunale (nota 2) avesse dato tutte le autorizzazioni necessarie a fotografi e tv per le riprese in aula, un avvocato ha chiesto che i fotoreporter fossero allontanati. «Le telecamere – aveva detto – vanno benissimo, ma la macchine fotografiche danno troppo fastidio». Per fortuna l’assurda richiesta ha avuto come effetto solo un richiamo dal presidente ai fotogiornalisti ad essere il più possibile…discreti.
Sempre in merito alle vicende del G8 genovese sono state molte le occasioni in cui il diritto di cronaca ha prevalso sul quello alla riservatezza e alla privacy.
Se è certo banale affermare che i cosiddetti Black Block, che sono stati ripresi da migliaia di fotogiornalisti, videoperatori professionisti e fotoamatori, non potevano invocare il diritto alla privacy mentre sfasciavano la città, altrettanto non si può certo dire per tanti altre situazioni.
Molto diverso e interessante è a questo proposito il caso del ragazzo romano, minorenne all’epoca dei fatti, che fermato dalla polizia veniva brutalmente percosso. La sequenza di immagini che in quell’occasione anche io ho realizzato – in un clima per altro piuttosto pericoloso – per denunciare tutta la brutalità di un fatto “fuori dal normale”, ha portato per forza di cose a riprendere in pieno viso anche il ragazzo.
Cosa che, normalmente, è vietata da tutte le norme a tutela dei minori (Codice deontologico dei giornalisti, Legge sulla Privacy), Carta di Treviso in testa. A riprova che il comportamento dei fotogiornalisti e della stampa è stato comunque corretto, queste foto – che tra l’altro avevano fatto immediatamente il giro del mondo – sono servite come prova fondamentale dalla magistratura per processare i colpevoli degli abusi.
Stessa situazione per le immagini delle vittime dei brutali pestaggi della scuola Diaz, che in linea teorica avrebbero potuto – stando a una interpretazione iper rigorosa della legge sulla privacy perché inerenti le condizioni sanitarie – rendere pubblici dati sensibili sullo stato di salute dei soggetti. Anche queste foto di denuncia legate comunque a un fatto di cronaca, così come quelle del ragazzino pestato, sono poi servite alla magistratura per ricostruire gli eventi.
Il pericolo dell’improvvisazione
Genova. Manifestazione pro-Palestina dopo i bombardamenti aerei israeliani nella striscia di Gaza nel dicembre scorso. Nel corteo, in prima fila molti bambini mimano un funerale islamico portando dei fantocci. Secondo le norme deontologiche della professione giornalistica (nota 3) i bambini non vanno ripresi per essere pubblicati. Sono molti invece i fotografi – anche qualche giornalista dotato di “macchinetta” – che con i loro obbiettivi prendono di mira soprattutto i piccoli. Diverse persone si staccano dai marciapiedi e con loro macchine fotografiche – e perfino con i telefonini, come si vede sempre più spesso nelle occasioni più disparate – si uniscono al corteo: anche loro riprendono quasi esclusivamente le prime file, che effettivamente sono le più significative.
Con alcuni colleghi professionisti facciamo letteralmente i salti mortali per riuscire a trovare le inquadrature giuste per non perdere il significato del corteo ma anche per non riprendere in volto i minori: aspettando che si voltassero, cogliendoli mentre si vedevano solo gli occhi, mettendo in atto tutti i trucchi del mestiere per poter rendere pubblicabili quelle immagini senza perderne l’impatto “forte” e il messaggio “politico” che gli organizzatori avevano voluto rendere.
Un fotogiornalista conscio dei suoi diritti e dei suoi doveri, dunque – salvo sempre possibili errori, naturalmente! – in genere riesce a fare delle scelte coscienti anche in situazioni limite rispetto alle regole. Ma succede la stessa cosa quando l’informazione “visiva” viene prodotta da “fotoreporter per caso”?
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NOTE
1 – La legge sulla Privacy – Il primo provvedimento sulla privacy entrato in vigore in Italia, è la Legge n. 675 del 1996, sulla “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”, entrata in vigore nel maggio 1997. Attualmente vige il Testo Unico sulla Privacy in materia di protezione dei dati personali (Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196), in vigore dall’1º gennaio 2004, sulla cui applicazione vigila l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, istituita dalla Legge 675/1996, e confermata dal Testo Unico del 2003.
2 – Privacy, foto durante i processi – Riprese Tv e fotografie possono essere eseguite solo dietro autorizzazione del Presidente del Tribunale. In ogni caso il fotogiornalista deve rispettare le regole imposte dai 3 commi dell’articolo 8 del “Codice di deontologia professionale” sulla Tutela della dignità della persona (Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine; È vietata la diffusione di immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato, salvo che per rilevanti motivi di interesse publico o comprovati fini di giustizia e polizia; Nessuno può essere presentato con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per sagnalare abusi (V. anche art. 114 cpp).
3 – Foto ai minori – La Carta di Treviso (approvata dall’Ordine dei Giornalisti, dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, da Telefono Azzurro e da enti e istituzioni della Città di Treviso) del 5 ottobre del 1990 e relativo vademecum del 1995, sino all’utima modifica del 30 marzo del 2006, prescrive in sostanza che non possono essere assolutamente resi riconoscibili minori e soprattutto strumentalizzati o spettacolarizzati fatti dove il minore rimanga coinvolto.