La ‘’status-sfera’’ salverà il giornalismo?
L’ universo delle poche righe che dicono quel che facciamo o cosa pensiamo nelle comunità online possono salvare il giornalismo in epoca di crisi? Se lo chiede in un articolo pubblicato su TechCrunch Brian Solis, vate della convergenza tra mezzi di comunicazione tradizionali e social media, e inventore del termine ‘’statusphere’’ – La socializzazione del web ha dato spazio ad “un’era di marchi personali” dove “noi tutti siamo responsabili per la creazione, direzione, percezione e gestione delle nostre personalità telematiche, di ciò che condividiamo e di come interagiamo attraverso il “prisma della conversazione” – Il problema “è che agli editori sfugge ciò che li può salvare’’, mentre potrebbero avere grandi benefici da queste nuove forme di giornalismo
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(a cura di Matteo Bosco Bortolaso)
La riflessione di Solis parte da una domanda che sentiamo ripetere da tempo: nell’era dei media socializzati, "vale la pena salvare i giornali"? Walt Mossberg, editorialista del Wall Street Journal per il quale scrive di tecnologia, sostiene che la vera domanda è piuttosto se "possiamo o meno salvare il buon giornalismo".
Solis, inventore del termine ‘’statusphere’’, è d’accordo con Mossberg. "Forse – scrive – i buoni giornalisti, quelli intuitivi e ambiziosi, possono capire da soli come salvarsi da questa fase darwiniana dell’ evoluzione dei media. Altri potrebbero aver bisogno dell’ aiuto di storie di successo, di coloro che hanno preso il rischio per primi, che sono stati in grado di adattarsi individualmente alla socializzazione del contenuto".
E il punto, ribadisce l’ autore dell’articolo, è che "effettivamente ci sono poche testate da salvare: il resto è composto da grandi giornalisti e notizie nazionali riciclati". Ci si chiede quindi "che ne sarà degli scrittori più articolati, appassionati, scintillanti".
Per vincere nella status-sfera si può cercare ispirazione dall’ industria musicale, dove "gli artisti hanno scoperto il canale Direct-to-Consumer (D2C) per raggiungere i fan e coltivare il rapporto con loro". Proprio come per l’ universo musicale, "i giornalisti eccezionali possono creare il loro destino: il loro futuro sta nei loro portatili, pronto a scappare dalla carta all’ online".
Secondo Solis, "personalità, motivazione, determinazione e l’ abilità di assumere rischi ed esplorare territori sconosciuti ed imprevedibili sono il solo modo per difendere il cambiamento e influenzare la direzione delle professioni".
Perché, alla fin fine, "non conta se i giornali possono davvero sopravvivere", visto che, in maniera molto netta, le "inserzioni pubblicitarie nei quotidiani, come nelle televisioni, stanno andando giù a picco in una spirale irreversibile, senza speranza di salvezza". Secondo i dati del sito internet Paper Cuts, più di 120 giornali negli Usa hanno chiuso i battenti dal gennaio 2008 e almeno 21 mila posti di lavoro in 67 quotidiani sono svaniti nel nulla.
Il problema "è che agli editori sfugge ciò che li può salvare […] la nuova economia dei media porterà un cambiamento tanto nella creazione dei contenuti quando nella generazione di profitto, passando da un modello dall’alto verso il basso ad uno che parte dal basso e va verso l’alto". La socializzazione del web, infatti, permette non solo ai cittadini di diventare autori, ma anche ai giornalisti di interagire sempre di più con il loro pubblico. "Forse – scrive – la reinvenzione del modello per la pubblicazione inizia con i giornalisti che diventano ambasciatori per i contenuti e bandiera di ciò che rappresentano".
Ci sarebbe "una connessione diretta fra l’ attenzione sempre più catturata dall’ online e la perdita di lettori da parte dei giornali, così come degli spettatori tv". Le inserzioni online sono "il segmento più sano, non travolto in pieno dalla recessione", perché "la fame per contenuti rilevanti, di ispirazione e d’ impegno, è insaziabile e potenzialmente a prova di crisi".
Aspettare e sperare, perciò, "non servirà a catalizzare il cambiamento – sostiene Solis -; prendere controllo di un destino individuale è una scelta personale, un impegno a cambiare e plasmare ciò che ci aspetta, e richiede di passare immediatamente dal retroscena alla difesa di di creazioni indivuali".
L’ autore sottolinea che "i giornalisti più conosciuti, quelli di maggior successo, i più celebrati, lo avevano capito molto tempo fa" e non hanno certo aspettato "l’approvazione di nessuno" giacché "il tempo non aspetta nessuno".
Il tutto sarebbe riassumibile in una formula quasi matematica:
Personalità + intuizione + promozione + interazione = visibilità e comunità
La socializzazione del web ha dato spazio ad "un’era di marchi personali" dove "noi tutti siamo responsabili per la creazione, direzione, percezione e gestione delle nostre personalità telematiche, di ciò che condividiamo e di come interagiamo attraverso il "prisma della conversazione".
Questo, naturalmente, rende la competizione con i blogger e con gli autori-editori del web ancora più aspra. Si sopravvive, a parere di Solis, in base a "quello per cui ti batti", in base a "quanto sei affamato di costruire una comunità attorno a te e al tuo lavoro".
Certo, coltivare un marchio personale o investire nell’ interazione online prende del tempo, va al di là della routine quotidiana. Ma "porta a ricompense ed è misurabile".
Ad esempio, il popolare conduttore della CNN Rick Sanchez che ha più di 75 mila fan che lo seguono su Twitter, Facebook ed altre "piattaforme basate sul tuo status", che vengono usate come fonte per idee e per interagire gli telespettatori. Lo stesso si può dire per un altro volto del canale di Atlanta, Anderson Cooper, che ha una fedele schiera di di 93 mila seguaci telematici.
"I giornalisti – si legge nell’articolo – avranno un gran beneficio se ricordano al mondo che sono persone reali, persone che pensano che mettersi in contatto e partecipando online, fuori dai tradizionali giardini recintati, permetterà al resto del mondo di apprezzare chi sono e cosa rappresentano".
Come definire la status-sfera? Come un ecosistema per condividere, scoprire e aggiornare contenuti di poche parole (di "dimensione micro") che si diffondono nei network sociali e attraverso profili personali particolarmente popolari.
Twitter, Facebook con i suoi news feed, FriendFeed e altre "micro-comunità" che compongono la status-sfera indicano all’ attenzione individuale che direzione prendere, creando una comunità partecipatoria, impegnata, illuminata.
La status-sfera, sempre secondo Solis, dovrebbe presto sostituire i segnalibri (o bookmarks) e gli RSS come punti di riferimento, visto che "contiamo sempre più sugli amici e i nostri pari usandoli come sismografo sociale per i contenuti che riteniamo interessanti".
I giornalisti devono sfruttare la status-sfera per rendere gli internauti consapevoli del loro lavoro e soprattutto per costruire relazioni con coloro che condividono interesse per gli argomenti di cui scrivono. Mentre i modelli tradizionali di media si basano sulla condivisione dei contenuti con un gruppo di lettori già esistente, i nuovi media fioriranno grazie all’ interazione e alla informazione a "portata a mano".
I news feed, insomma, servono da "lavagna personale e centralizzata della nostra attenzione, che ci dice cosa leggiamo, cosa diciamo e come reagiamo alle infomazioni che continuamente la attraversono".
I giornalisti quindi possono, con ogni nuova connessione sociale sul web, apparire in più luoghi, condividendo i contenuti in tanti diversi rami sociali. I contenuti di valore, combinati con "evangelismo" e promozione intelligente, faranno guadagnare visibilità e verranno letti e diffusi facilmente.
I contenuti divengono così oggetti sociali che ispirano la comunicazione e l’ azione.
Il "network umano" è rafforzato dal contesto: impariamo ascoltando segnali rilevanti da coloro che condividono con noi interessi e passioni; l’ idea è di "avere un complemento alle connessioni individuali con la creazione di una comunità attorno al nostro marchio personale, rafforzato dalle nostre opinioni e punti di vista".
"Se sei un giornalista – incalza Solis – è ora tua responsabilità creare una devota tribù che appoggi, condivida e risponda al tuo lavoro e alla tua interazione sia nella status-sfera sia nel punto di origine di creazione di contenuti. E’ l’ unico modo per costruire una comunità di valore, portatile, attorno a te e a quel che rappresenti". In tutto questo, scrive l’ autore, dovrebbero avere un ruolo anche gli editori "più saggi", potrebbero avere gran beneficio da questa estesa visibilità e dovrebbero promuovere vere e proprie campagne per diffondere i contenuti socializzati.
L’ umanizzazione e socializzazione del giornalismo "creerà una piattaforma di maggiore impegno che può costruire una nuova era di impegno, fedeltà e comunità attorno al marchio del mezzo di comunicazione, una persona alla volta". Allo stesso modo, "stabilisce un’ autostrada collaborativa per creare e condividere le storie e per dare a tutte le persone la possibilità di plasmare storie che vadano al di là della scrivania redazionale". I consumatori sarebbero a questo punto molto più coinvolti nei media, perché sarebbe rafforzato il senso di proprietà, e di orgoglio, sarebbe più facile sentirsi autori e partecipi.
I contenuti – e i giornalisti che li producono – devono "migrare sulla lavagna dell’attenzione individuale per riuscire a dare il via ad una reazione che si riverbera sulla rete sociale e diventa punto di raduno per le tribù individuali".
La chiave sta in quegli individui ricettivi e intraprendenti che possono attrarre, costruire e allevare la crescita, i quali devono essere aiutati al fine di portare spettatori, amici e amici di amici a quella fonte di informazione originaria", che un tempo stava solo sui giornali.