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(da Techcrunch)
Nota dell’editore: giorni fa abbiamo ospitato e pubblicato il post del Professor Eric Clemons dal titolo Ma Internet sta distruggendo la pubblicità? Il post poneva l’accento su una questione molto cara agli abitanti del mondo della tecnologia, e ha provocato una vera e propria blogo-tempesta scatenando oltre 600 commenti, molti dei quali intrisi di rabbia. Perfino Danny Sullivan, imperturbabile editore di SearchEngineLand, non riusciva a credere che Clemons potesse dire sul serio, e si è lasciato andare con un suo post. Ha anche proposto a Techcrunch di ripubblicare il suo commento (tentazione comune a molti utenti che hanno letto il ‘guest post’ di Clemons).
Techcrunch, invece, ha invitato Sullivan a presentare una contro-risposta più stringata, scevra dell’ istinto emozionale che aveva infiammato la sua risposta iniziale. Possiamo leggerla di seguito, così come il botta e risposta di Clemons. Li abbiamo invitati a giocare pulito, ma picchiando duro.
Nella sua risposta, Clemons lancia una scommessa a lungo termine: “Entro cinque anni le entrate della pubblicità on-line saranno inferiori al 20% del volume d’affari di Internet, escluse le entrate dovute alla vendita di beni fisici. Chi vince paga la cena e può gongolarsi”. Sullivan ribatte con una sua scommessa. Questi due personaggi non concordano neanche su cosa scommettere.
(a cura di Andrea Fama)
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Danny Sullivan crede nel futuro dell’advertising on-line
Eric Clemons ha recentemente causato qualche scompiglio affermando che la pubblicità on-line fallirà. Non sono d’ accordo. Nella fattispecie, mi oppongo al fatto che il search advertising sia da considerare come un elemento fuorviante (la “misdirection” di cui parlava Clemons, N.d.T.), attraverso il quale compagnie come Google dirottano gli utenti verso altri siti rispetto a quelli ricercati, a meno che gli inserzionisti non paghino il servizio. Il search advertising, così come descritto, sembra una sorta di racket della protezione in pieno stile “I Soprano”.
Clemons non ha fornito alcuna prova delle supposizioni avanzate in merito. Non ha fornito alcun link a ricerche o studi che dimostrassero la veridicità di almeno una delle sue affermazioni. Nonostante ciò, ha scritto cose roboanti come “la misdirection avviene facendo pagare alle aziende le parole chiave legate ai propri prodotti e minacciandole di dirottare i clienti verso i principali competitor in caso di mancato pagamento”.
Mi occupo di search da 15 anni ormai. Mi occupo di Google sin dalla sua nascita. Questo tipo di “sviamento” è ciò che Clemons chiama “il modello di business di Google”. Tuttavia, in tutti questi anni durante i quali mi sono occupato di Google, non ho mai sentito di un’ azienda “minacciata” nel modo descritto da Clemons. Nemmeno una. Se quanto descritto dal Professore fosse un luogo comune, sarei riuscito a dissotterrare almeno una o due storie a supporto del modello di business da lui indicato. E invece non ne trovo una.
Naturalmente, vi sono state iniziative legali dovute all’ inserimento da parte di Google di messaggi pubblicitari in risposta a termini di ricerca corrispondenti al nome di un marchio. Ciò ha generato regole diverse in ogni paese. Ma bisogna considerare un aspetto fondamentale: non tutte le ricerche sono riconducibili al nome di un marchio. Ricercando la parola “apple”, ad esempio, si richiedono informazioni sui prodotti Apple o sul frutto? Ricercando “riparare un Macbook”, si richiedono solo le informazioni ufficiali della Apple o anche i consigli di una terza parte? E in questo caso, quale tra queste è la scelta “giusta” che Google potrebbe negare agli utenti dirottandoli con un annuncio pubblicitario? O ancora, ricercando “crisi finanziaria”, qualcuno sa dirmi qual è la fonte che Google avrebbe minacciato di oscurare a fronte di una mancata inserzione pubblicitaria?
Solo poche ricerche implicano una risposta a “fonte unica” che potrebbe ricadere nella caratterizzazione proposta da Clemons. Non so quale sia questa percentuale, ma non ricordo una sola denuncia del genere, né Clemons fornisce alcuna prova su cui basare le sue affermazioni.
Ma supponiamo che si tratti di un’ ampia percentuale. E andiamo anche oltre, supponendo che Google non abbia bisogno di dire ad ogni proprietario di un marchio di dover acquistare un inserzione, pena l’ esclusione – poniamo il caso che già conoscano le regole del “gioco”. Partendo da queste considerazioni, osserviamone l’ evoluzione.
Ricerchiamo “Yahoo” su Google. Non vi è alcuna pubblicità, eppure Yahoo è il primo risultato tra quelli “gartuiti”. Proviamo con “American Airlines”, e il risultato non cambia. E lo stesso vale per “Target”, “Techcrunch” piuttosto che il mio sito, “Search Engine Land”. E ancora “Procter & Gamble”, “NFL” o “Taco Bell”. Possibile che tutte queste aziende ignorino i meccanismi di Google e siano solo fortunate? O si sono parate preventivamente le spalle in caso fosse necessario smentire questo modello?
Search advertising non significa dirottare. Questo tipo di inserzionisti potrebbe sviare gli utenti autonomamente (e hanno affrontato procedimenti legali quando ci hanno provato). Ma dire, come ha fatto Clemons, che “la misdirection, ovvero spedire un cliente verso siti web diversi da quelli che stava cercando … è il modello di business di Google”, è una caretterizzazione fuorviante che dovrebbe saltare agli occhi di tutti.
Quanto detto ci riporta alla sua convinzione di partenza, ovvero che la pubblicità on-line stia fallendo. Il search advertising è il segmento più forte della pubblicità on-line, e sta continuando a crescere. Nel bel mezzo di una recessione economica che gli Stati Uniti non vivevano da decenni, la spesa per il search advertising cresce poco più lentamente che in passato o, nel peggiore dei casi, registra una leggera contrazione ad una cifra. Questo non è un fallimento, non per me.
Inoltre, il rallentamento della pubblicità on-line sembra più il fallimento dell’ intera economia piuttosto che il fallimento di modelli pubblicitari esistenti. Ironicamente, mentre Clemons sostiene che nessuno vuole la pubblicità, è dimostrato al contrario che essa è accettata in cambio di una rete gratuita.
L’audience televisiva è in calo, eppure lo scorso week-end milioni di spettatori hanno guardato Battlestar Galactica, perchè volevano vederlo dal vivo, mentre accadeva, e hanno sopportato la pubblicità come conseguenza.
In giro per il web, sempre più utenti si imbattono negli overlay ads, quelle inserzioni che compaiono prima che si possa accedere ad un sito web. Ebbene, interferiscono con l’esperienza visiva della navigazione, e non piacciono neanche a me. Ma in quanto editore posso dire che sono incredibilmente efficaci, e non per questo orde di utenti abbandoneranno un sito web in cui ottenere informazioni di qualità a costo zero.
La pubblicità, specie quella tradizionale, è conscia del fatto che le persone evitano le interruzioni quando possibile, nè le trovano affidabili. Inoltre, le inserzioni tradizionali sono molto meno targettizzate rispetto a quelle on-line, e la misurabilità della loro performance è risibile rispetto a quanto avviene su Internet. Nonostante ciò, funziona ancora. Su Internet, la cui audience continua a crescere, la pubblicità è più scaltra, più targettizzata, più misurabile e alla fine, sono convinto, troverà una collocazione in cui avere anche più successo.
La risposta di Clemons
Grande risposta. Dissento in alcune parti, ma è ben costruita e a tratti risulta anche convincente. Il signor Sullivan non presenta alcun dato o studio, ma solo qualche argomento molto persuasiva. Ben fatto.
Qual è il principale punto di disaccordo tra noi due? Sullivan sostiene che in tutti questi anni in cui si è occupato di advertising on-line non ha mai sentito un’ azienda o un singolo individuo lamentarsi circa i sistemi di ricerca a pagamento. Al contrario, durante i miei viaggi ho personalmente sentito molti vice-presidenti quotati lamentarsene per anni. E quest’anno al coro si sono aggiunti i venditori al dettaglio e i produttori. Non sto insinuando che Sullivan sia sordo, lontano dalla realtà o che la rifuti, ma solo che non lavora con gli stessi dirigenti con cui lavoro io.
A quanti credono che alcune tipologie di paid search siano una forma di misdirection, suggerisco di dare un’occhiata al sito Alliance Against Bait and Click, finanziato da diverse aziende, tutte con nomi importanti, tutte pezzi grossi nel proprio settore, e tutte molto arrabbiate. Sebbene non sia stata approvato, il disegno di legge Utah House Bill 450 era proprio volto a punire parte del modello di business di Google, nello specifico la vendita dei marchi come parole chiave per generare una ricerca a pagamento. I lettori interessati a maggiori dettagli sul tema degli abusi del search advertising possono visitare il blog del Professor Ben Edelman; Edelman, professore ad Harvard, ha una laurea in legge e sul proprio blog ha probabilmente un approccio molto più formale e normativo rispetto ai gusti della maggior parte dei lettori di TechCrunch.
Sono convinto che almeno qualche corporation di spicco condivida sulla ricerca sponsorizzata la mia stessa idea, in parte perchè la mia idea è frutto di discussioni affrontate insieme. La loro principale preoccupazione, così come la mia, non è unicamente l’abuso dei marchi nella ricerca sponsorizzata e nella generazione di inserzioni pubblicitarie, bensì l’intera natura della ricerca sponsorizzata e il monopolio di Google nel settore. E poi, naturalmente, Google in prevalenza non dirotta; è troppo in gamba per una cosa simile. Se la maggior parte delle ricerche sponsorizzate non rispondesse alle necessità degli utenti, allora questo modello fallirebbe.
Il business model di Google, invece, è quello di minacciare il dirottamento verso la ricerca sponsorizzata, ma di fatto ricorrervi il meno possibile. Se l’azienda richiesta dagli utenti (Marriott, risultati della ricerca sponsorizzata. Se non lo fa, allora Google la rimpiazza con un competitor. Ovviamente, se la ricerca sponsorizzata non rispondesse mai alle esigfenze degli utenti, allora non sarebbe utile né a loro né, in ultima isytanza, a Google. Google non pretende che i grandi marchi paghino grandi cifre, ma qualcosa devono pagare. Google sa chi mettere in cima alla lista, ma non lo farà finché queste aziende non offrano una cifra sufficientemente alta per le parole chiave inerenti. Tutto ciò è stato affrontato nel dettaglion nel mio post precedente.
Quanto detto ha poco a che vedere con il mio articolo originale. A prescindere da ciò che Google fa o non fa, non sarà quest oil modello di business seguito dalla rete. The New York Times, BusinessWeek e LinkedIn non si finanzieranno attraverso un proprio motore di ricerca. Questo dovrebbe essere abbastanza evidente. Ciò che sostengo, sulla base di un confronto con I loro curatori, è che non si finanzieranno neanche attraverso la pubblicità. Questo è l’assunto essenziale della prima parte del mio post.
Pertanto, cosa rimane da discutere? Su quale altro punto siamo in disaccordo? Rimango delle mie opinioni:
- Gli utenti non si fidano della pubblicità
- Gli utenti non vogliono vedere la pubblicità
- Gli utenti non hanno bisogno della pubblicità
- La pubblicità non può essere l’unica fonte di finanziamento per Internet
- Le entrate pubblicitarie diminuiranno a causa della brutale competizione dettata da un surplus di offerte, e in molti casi sarà sostituita dai micropagamenti e dagli abbonamenti in cambio di contenuti
- Esistono umerosi altri modelli di business che funzioneranno sulla rete
L’ ultimo punto, di fatto, sembrava essere il più importante. Era proprio l’intento dell’articolo , il cui titolo originale era “Modelli di business per monetizzare Internet: deve senz’altro esserci qualcos’altro oltre alla pubblicità”. Questo punto si è perso nella furia scatenata dal titolo dell’articolo e nella rabbia scaturita dall’idea che la pubblicità on-line potesse perdere la propria importanza.
Mi piacerebbe lanciare a Danny (Sullivan, N.d.T.) questa sfida: entro cinque anni le entrate della pubblicità on-line saranno inferiori al 20% del volume d’affari di Internet, escluse le entrate dovute alla vendita di beni fisici. Chi vince paga la cena.
La contro-risposta di Sullivan:
Molte ricerche sono ambigue circa quella che dovrebbe essere “l’unica vera risposta” alla cui esistenza Clemons sembra credere. Di fronte ad una ricerca tipo “la Coca Cola è meglio della Pepsi?”, chi sbaglia nell’ acquistare un’ inserzione che compaia in risposta alla ricerca? Coca Cola, Pepsi o entrambe? I proprietari di un marchio hanno dei diritti riservati su un termine, ma non ne detengono l’uso esclusivo. E in una ricerca tipo “le bevande dietetiche fanno male?”, non vi è l’ uso di alcun marchio. Chi dovrebbe minacciare Google in questo caso?
Per quanto riguarda la scommessa, non la accetto. Il motivo è che sono d’ accordo sul fatto che molti siti non potranno sostenersi unicamente con la pubblicità. Il mio senza dubbio non potrebbe. Le nostre entrate derivano dalle inserzioni, dalle iscrizioni a pagamento e dalle conferenze a cui partecipiamo. Da editore navigato del Web, so che nel mio caso la pubblicità non sarebbe sufficiente a pagare il conto alla cassa. Si potrebbero fare molti altri esempi. Proprio adesso, alcuni quotidiani stanno riconsiderando l’ idea di aprire i propri siti gratuitamente, visto che le entrate pubblicitarie si stanno dimezzando. Ma anche quando le entrate erano alte, le inserzioni da sole non erano in grado di coprire tutti i costi necessari alla produzione del New York Times. Erano altre fonti, provenienti dal cartaceo a sostenere il sito.
Ma anche questo aspetto riflette quanto fosse fallace la tesi di Clemons. Nel mondo off-line le entrate pubblicitarie generano più del 20% del totale delle entrate escludendo la vendita di beni fisici? Non lo so. Sospetto di no, e sospetto che non sia mai stato così. Anche prima del Web, il New York Times non copriva i propri costi interamente attraverso la pubblicità. Nella sua vita puramente strumentale e immobiliare, ricorreva ad altri flussi di entrata.
Pertanto, concordo sul fatto che molti siti debbano diversificare le proprie entrate cercando alternative al display advertising. Un metodo potrebbe consistere in modelli pubblicitari alternativi, mentre magari alcuni siti non ricorreranno affatto alla pubblicità per le proprie entrate. Le inserzioni non sono state l’ unica fonte di reddito per molti siti nel passato, e non vi è motivo di credere che ciò cambierà in futuro. Allo stesso modo, non vi è ragione di credere che le inserzioni siano state l’ unica fonte di entrate per le aziende nel “mondo reale”.
Concordo anche sul fatto che le inserzioni non possono essere l’unica fonte di finanziamento per Internet. Naturalmente, non ho mai detto che fosse così. Nè conosco nessuno che lo abbia pensato seriamente. Clemons sembra contestare un’ idea avuta da ben poche persone.
Solo perchè molti siti su Internet e molte aziende nel mondo reale non ricavino la maggior parte delle entrate dalla pubblicità non significa che quest’ ultima stia fallendo. Relativamente a Internet, credo che la pubblicità crescerà di pari passo con la crescita del numero di utenti e con la maturità dello spazio Web. E sono contento di scommettere che ciò accadrà con una sfida molto migliore.
Clemons ha scritto che le entrate della pubblicità on-line non saranno mai così alte come lo sono adesso. Non sono d’accordo. Da qui a cinque anni, diamo un’occhiata ai rapporti sulla pubblicità on-line di organi comunemente accettati come lo IAB. Se l’advertising supera i livelli attuali, allora avrò vinto. Altrimenti avrà vinto lui. Chi perde versa 1.000 dollari ad un’ associazione di beneficenza a scelta del vincente.
La risposta finale di Clemons
Ho lanciato a Danny quella che pensavo essere una chiara sfida, basata sul livello di sconcerto espresso nel suo post originale.
Ora sembra che Danny di fatto sia d’accordo con me. Questo era il punto cruciale del mio articolo originale. Apparentemente siamo d’accordo, dopo tutto. La pubblicità on-line rappresenterà una piccolo parte delle entrate sul Web. Gli altri business model avranno un’importanza maggiore. Con una percentuale inferiore al 20% la pubblicità fallirà come supporto principale alla rete.
Ma ora andiamo avanti e vediamo di sviluppare questi business.