Nuovi giornalismi e nuovi giornalisti dal laboratorio della Rete
Un web ribollente di materiale originale, eccitante e creativo (sebbene caotico ed esasperante) smentisce la convinzione che la Rete si limiti a cannibalizzare i mainstream media – La pratica del giornalismo viene invece reinventata dal web, con un ventaglio di esperimenti affascinanti nel campo della raccolta, della presentazione e la distribuzione delle notizie – Un’ analisi di Michael Massing
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Sebbene Internet sia “uno strumento meraviglioso”, continua a circolare l’ immagine di una Rete che cannibalizza i mainstream media e la convinzione che il contributo di aggregatori e blogger sia poco più che una ripetizione e un disordinato intrecciarsi di commenti, con i lettori che raggiungono l’ informazione attraverso gli aggregatori e tralasciano l’origine delle notizie – ovvero i giornali stessi. ‘’Tuttavia, nel loro disprezzo, tali affermazioni sembrano tanto anacronistiche quanto difensive’’, rileva Michael Massing, giornalista, esperto di questioni internazionali, collaboratore della Columbia Journalism Review, in un ampio articolo sulla New York Revue of Books che analizza in profondità le grandi novità del web, soprattutto della blogosfera, Usa e di cui pubblichiamo qui sotto la traduzione.
‘’Solo considerando gli ultimi mesi – aggiunge -, Internet ha partorito una notevole quantità di materiale originale, eccitante e creativo (sebbene caotico ed esasperante). La pratica del giornalismo, lontana dall’ essere cannibalizzata dal Web, è reinventata dalla Rete, con un ventaglio di esperimenti affascinanti nel campo della raccolta, della presentazione e la distribuzione delle notizie’’, racconta Massing. ‘’E se ai piani alti dei nostri principali quotidiani non si inizia a prendere nota di ciò, il risultato non sarà altro che una accelerazione della loro scomparsa’’ , dice ancora
L’ articolo ricostruisce il nuovo tipo di giornalismo e di giornalisti che la rete sta producendo, da Paul Kiel (ProPublica) e Matthew Yglesias (Think Progress), fino a esperimenti come Global Post, che – come spiegava recentemente il Pew Research Center – stanno testando la possibilità per i giornalisti individuali di diventare fornitori indipendenti di notizie per diversi siti, ricalcando in buona parte il rapporto che per tanti anni è intercorso tra fotografi e riviste.
Massing conclude citando Clay Shirky, consulente Internet e docente alla NYU, che paragona le attuali turbolenze nel mondo delle notizie con i disordini scaturiti dall’invenzione della stampa. ‘’Questa analogia può essere portata un passo avanti – dice -: proprio come l’avvento della stampa ha aiutato ad interrompere il controllo della chiesa medioevale sul flusso delle informazioni, allo stesso modo Internet sta allentando la presa dei mass media che fanno capo alle corporato-crazie. In pratica, sta avendo luogo un profondo e destabilizzante processo di decentralizzazione e democratizzazione. Inutile a dirsi – conclude -, l’industria tradizionale delle notizie continua a giocare un ruolo critico nell’informazione del pubblico. Ma potrà adattarsi all’ambiente mutevole delle notizie? E chi pagherà per la qualità delle notizie e dell’informazione nel futuro?’’
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The News About the Internet
di Michael Massing
(The New York Revue of Books)
(traduzione di Andrea Fama)
Di tutte le cifre tetre e scoraggianti che sono emerse dal mondo dei giornali – la brusca caduta della tiratura, la vertiginosa contrazione delle entrate, il debito crescente, le perdite in ascesa – nessuna sembra più costante dell’ inarrestabile marcia dei licenziamenti e dei rilevamenti. Secondo il blog Paper Cuts, nel 2008 i giornali hanno registrato una perdita pari a 15.974 posti di lavoro e nella prima metà del 2009 la cifra si attesta sui 10.000. La sommatoria dà poco meno di 26.000 tra reporter, direttori, fotografi ed editorialisti impegnati su quanto accade nel mondo, dalle analisi politiche ed economiche allo smascheramento di corruzione e abusi, dai temi culturali all’intrattenimento e lo sport.
I membri della Military Reporters and Editors Association sono passati dai 600 del 2001 a meno di 100 oggigiorno. Ad aprile, Cox Newspaper ha chiuso la propria sede di Washington, contribuendo alla drammatica riduzione dei reporter impegnati sul fronte del governo federale. The Boston Globe, The Baltimore Sun, The Philadelphia Inquirer e Newsday hanno tutti chiuso le proprie sedi all’estero. A causa delle ripetute restrizioni, il gruppo McClatchy, proprietario del Sacramento Bee, del Charlotte Observer e di circa una trentina di quotidiani in tutto il paese, non ha le risorse necessarie per aprire la propria sede nell’Asia meridionale a cui ha lavorato per tre anni, né per mantenere un corrispondente a tempo pieno in Messico o addirittura a Baghdad, dove la sede locale ha svolto un eccellente lavoro. Ai “bei vecchi tempi”, ha scritto di recente il redattore Mark Seibel, l’organizzazione poteva licenziare i suoi reporter “ed insistere a viso aperto sul fatto che non vi sarebbero stati cambiamenti nella nostra capacità di essere sulla notizia. Oggi non è più così. I licenziamenti, i tagli e le fusioni dell’ ultimo anno ci hanno colpiti. Duramente”.
Ad inizio anno, su una chat on-line con i lettori, il direttore esecutivo del New York Times, Bill Keller, ha condannato la “presenza sempre più ridotta di un giornalismo di qualità” in un’epoca di “crescente domanda”. Con “giornalismo di qualità” Keller intendeva quel tipo di giornalismo che “prevede reporter esperti in giro per il mondo a scovare testimoni, a scavare negli archivi, ad accrescere le fonti, ad effettuare controlli incrociati, sostenuti da direttori che tentano di rafforzare gli alti standard qualitativi”. La presenza di questo tipo di giornalismo, ha aggiunto, è in declino poiché si tratta di un lavoro difficile, dispendioso e a volte pericoloso. Gli artigiani che erano soliti praticare questo mestiere – soprattutto nei quotidiani – stanno diminuendo o dichiarando bancarotta. L’incredibile fiorire della comunicazione sulla spinta di Internet contiene innumerevoli voci che pescano dal giornalismo degli altri, ma non sono molte quelle che se ne occupano direttamente.
La lamentela di Keller – che si aggiunge ad un coro costante che si leva dal settore giornalistico – contiene un tratto comune a molti: una critica al Web ed ai blogger che commentano regolarmente attraverso i propri siti. David Simon, un ex reporter del Baltimore Sun nonché creatore di The Wire, ha fornito una visione delle cose particolarmente pungente durante un suo recente intervento al Senato americano sul tema del futuro del giornalismo. Sebbene Internet sia “uno strumento meraviglioso”, ha affermato, cannibalizza … le pubblicazioni edite dai mainstream media, e di conseguenza il contributo di aggregatori e blogger è poco più che una ripetizione, un commento e un cumulo di sciocchezze. Nel frattempo, i lettori raggiungono le news attraverso gli aggregatori e tralasciano l’origine delle notizie – ovvero i giornali stessi. In breve, il parassita sta lentamente uccidendo l’ospite.
Questa immagine della Rete quale parassita ha delle fondamenta. Senza la vitale raccolta di notizie effettuata da istituzioni consolidate, molti siti Web perderebbero colpi fino a sparire. Tuttavia, nel loro disprezzo, tali affermazioni sembrano tanto anacronistiche quanto difensive. Solo considerando gli ultimi mesi, Internet ha partorito una notevole quantità di materiale originale, eccitante e creativo (sebbene caotico ed esasperante). La pratica del giornalismo, lontana dall’essere cannibalizzata dal Web, è reinventata dalla Rete, con un ventaglio di esperimenti affascinanti nel campo della raccolta, della presentazione e la distribuzione delle notizie.
E se ai piani alti dei nostri principali quotidiani non si inizia a prendere nota di ciò, il risultato non sarà altro che una accelerazione della loro scomparsa.
1.
I due blogger più comunemente riconosciuti come pionieri del mezzo, Mickey Kaus e Andrew Sullivan, sono un eccellente esempio di quanto detto finora. Kaus, che ha lanciato il proprio blog kausfiles nel 1999, ora scrive per Slate, e Sullivan, il cui Daily Dish è nato nel 2000, ora posta i suoi articoli per The Atlantic. Entrambi utilizzano tuttora lo stile che li ha resi popolari – opinioni e commenti estemporanei, brevi, pungenti ed informali, che si basano su una rete di link ad articoli, editoriali, documenti ed altri blog. Ad una prima occhiata, un tale approccio sembra avvalorare l’accusa di parassitismo. I primi di giugno, ad esempio, con il titolo “Ecco dov’è arrivata l’estrema destra adesso” Sullivan scriveva:
Vi ho assistito mentre mi trovavo ad Aspen [dove presenziava ad una conferenza]. Michael Scheuer sta effettivamente affermando che l’unica “speranza” per gli Stati Uniti è un attacco da parte di Osama bin Laden. Ecco dove sono arrivati, ogni giorno più pazzi.
Sotto il post vi era un link ad un video di Fox News in cui Scheuer, un ex analista della CIA, esternava di fatto la sua speranza in un attacco di bin Laden agli USA in modo che il governo avrebbe finalmente adottato le misure necessarie per proteggere gli americani.
In questo caso Sullivan sta pescando dal giornalismo di altri mentre produce un proprio prodotto giornalistico non convenzionale. Tuttavia, come si apprende leggendo con regolarità i suoi post, fornire numerosi link ad un vasto assortimento di fonti, elaborate attraverso una mente idiosincratica gay-cattolica-Thatcheriana-ed ora libertaria-radicale come la sua, genera un punto di vista appassionante ed originale.
Una drammatica dimostrazione di ciò ci è stata fornita poco dopo le elezioni in Iran, quando il sito di Sullivan si è trasformato in una aggiornatissima camera di compensazione per e-mail, feed da Twitter, video di YouTube e foto provenienti da Teheran, principalmente postati prima che i media tradizionali ne avessero notizia. L’intenzione di Sullivan non era quella di essere equilibrato – desiderava fortemente che lo zoccolo duro di Ahmadinejad fosse sovvertito e non ha risparmiato il suo sito a tale scopo – ma in un momento in cui ai giornalisti occidentali era stata messa la museruola, il suo Daily Dish ha svolto il ruolo di centro nevralgico per le notizie provenienti dalle strade iraniane. Mentre leggevo il suo blog guardavo anche la CNN, ed era chiaro che Sullivan, seduto davanti al suo computer, ha superato l’intero network globale della CNN.
L’ approccio di Sullivan e Kaus, basato sul taglia-e-commenta, è tuttora popolare tra i blogger, ma nel corso degli anni ha originato un certo numero di eredi che sono diventati dei modelli essi stessi. Tra i più importanti vi è Talking Point Memo (TPM), lanciato da Josh Marshall nel 2000, quando era direttore a Washington dell’ American Prospect. Dopo essersi ripetutamente scontrato con i suoi colleghi direttori – era un sostenitore di Bill Clinton e del libero mercato più di quanto non lo fossero loro – ha iniziato a lavorare da freelance e da blogger indipendente. Pur ispirato da Sullivan e Kaus, Marshall era un reporter nell’ anima e pertanto il suo blog conteneva più materiale scoperto personalmente. Il risultato è stato un nuovo tipo di blog in cui non solo si commentavano le notizie, ma le si anticipavano anche.
Una prima pietra miliare risale al 2002, quando Marshall ha riportato ripetutamente i commenti velatamente razzisti di Trent Lott nei confronti di Strom Thurmond e, richiamandovi l’attenzione attraverso post frequenti, ha contribuito alla caduta dello stesso Lott. L’ampliarsi del pubblico di lettori di TPM ha consentito a Marshall di attrarre gli inserzionisti che, a loro volta, gli hanno consentito di assumere del personale che lo ha aiutato ad essere ancor più sulla notizia. La redazione ha iniziato ha ricevere le soffiate dei lettori sugli avvenimenti politici che si verificavano nelle loro comunità. Passandole al setaccio, nel 2007 Marshall è riuscito ad individuare una sorta di schema nel licenziamento da parte dell’amministrazione Bush di un certo numero di procuratori sul territorio nazionale. I suoi post astiosi sull’argomento hanno contribuito a portare il caso all’attenzione della stampa nazionale, valendogli un George Polk Award.
Ad oggi, Talking Points Memo è uno dei siti a sfondo politico più visitati sul Web. Oltre al blog personale di Marshall, TPM include anche TPMDC, che copre gli avvenimenti della capitale USA, TPMmuckraker, che si occupa di inchieste, e TPMcafé, che ospita contributi dall’esterno. La rapida crescita di TPM riflette un più ampio cambiamento dello scenario politico che sta avendo luogo sul Web. Volgendo lo sguardo al 2005, l’ultima volta che ho scritto circa la blogosfera, la scena politica era dominata dalla destra, con in testa il battagliero Drudge Report. Oggigiorno, invece, la sinistra liberale è in ascesa (mentre l’energia dei conservatori è canalizzata attraverso i programmi radio).
Durante una visita recente alla sede di TPM, sulla ventesima strada a Manhattan, l’ufficio era avvolto da una misteriosa calma mentre una dozzina di giovani reporter, scrittori e “aggregatori” (che linkano verso altri siti Web) fissavano intentamente i monitor dei propri computer. Marshall, un quarantenne dall’espressione imperscrutabile, mi ha confidato che passa la maggior parte della sua giornata lavorativa leggendo le e-mail dei lettori. “Con le dovute proporzioni”, sostiene Marshall, “il volume di e-mail qualitativamente valide che riceviamo è superiore sia al New York Times che al Washington Post”.
Questo ci consente di fare di più anche rispetto ad un quotidiano. I reporter politici hanno delle buone fonti, ma sono tendenzialmente fonti professionali, solite ad alzare il telefono e fare la soffiata al giornalista. Noi invece ci muoviamo all’interno di un’intera classe di persone che non sono acculturate sul mondo del giornalismo politico. Se succede qualcosa in Kansas, io lo vengo a sapere.
Nel corso degli anni, Marshall ha contribuito ha formare molti cyber reporter-blogger pieni di senso pratico che hanno trasferito le loro competenze verso altre istituzioni meglio equipaggiate. Prendiamo l’esempio di Paul Kiel. Dopo due anni trascorsi alla TPM, è stato assunto da ProPublica, un’ unità investigativa sostenuta grazie a sovvenzioni multimilionarie provenienti dall’ ex magnate dell’immobiliare Herbert Sandler e da altri filantropi. Sin dalla sua nascita nel 2008, l’entourage di ProPublica, che ha sede in un ufficio moderno ed elegante nella parte bassa di Manhattan, ha prodotto diversi scoop giornalistici su temi che spaziano dal coinvolgimento di medici nelle torture alla contaminazione dell’acqua potabile a causa delle trivellazioni effettuate per il gas.
Inizialmente, il focus di ProPublica era principalmente quello di portare avanti inchieste congiunte con testate giornalistiche istituzionale quali 60 Minutes ed il New York Times, diffondendo le sue rivelazioni attraverso tali organi di informazione. Alla fine, però, ProPublica ha compreso il valore di realizzare un proprio sito Internet. Paul Steiger, ex direttore responsabile del Wall Street Journal, racconta con toni entusiastici di tutte “le persone in gamba e con un impronta orientata all’informazione via Web” che sta assumendo. E tra esse c’è Paul Kiel. “E’ come l’incarnazione di I.F. Stone”, mi spiega, “ma invece di leggere solo documenti governativi, perlustra il Web e poi fa una o due telefonate. Quel ragazzo sa muovere i fili giusti”.
Una delle mansioni di Kiel è quella di navigare il Web alla ricerca di inchieste svolte da altri. Troppo spesso, continua Steiger, queste inchieste restano ignorate ma, aggregandole e commentandole, Kiel ed i suoi colleghi contribuiscono a dargli maggiore visibilità. Kiel, inoltre, ha avviato un sotto-sito dedicato a tracciare tutto il denaro speso da Washington. Il sito è ancora in divenire – l’incredibile volume di cifre, tabelle e grafici lo rende di difficile consultazione per i novizi – ma fa parte di un esperimento più ampio volto a testare la fattibilità del giornalismo investigativo sul Web.
Kiel è un esempio di una nuova razza emergente di “ibridi”, formati sia nelle pratiche del giornalismo tradizionale che nell’utilizzo del cyberspazio. Tra gli altri esempi vi è Matthew Yglesias, un ventottenne che ha iniziato la sua attività di blogger duranti i suoi studi ad Harvard e che ora si occupa di politica americana presso Think Progress, il blog del Center for American Progress, e Ross Douthat che, dopo essersi laureato ad Harvard nel 2002, è entrato nell’organico di Atlantic, dove scriveva su carta e sul blog della rivista, e che ora è editorialista del New York Times. Ezra Klein, che ha iniziato come blogger mentre studiava presso la University of California di Santa Cruz, ha maturato una tale competenza nel settore del sistema sanitario da impressionare così tanto i direttori del Washington Post che in primavera lo assunto per tenere un blog sul sito del giornale. “Spiegare è diventato più importante che commentare”, sostiene Klein, che ha soli 25 anni.
Ma Internet non è solo per i bambini prodigio. Dà spazio ad americani di ogni età ed estrazione che hanno molte idee ma non hanno i mezzi per diffonderle. Un buon esempio è Marcy Wheeler, residente a Ann Arbor, Michigan, che ha sostenuto un dottorato in letteratura comparativa presso la university of Michigan e, successivamente, ha iniziato a lavorare come consulente nel settore automobilistico. Ha iniziato come blogger nel 2004, guadagnandosi la notorietà per i suoi post sul caso Valerie Plame; all’inizio del 2007 ha “bloggato” dal vivo il processo a Lewis Libby. Lo stesso anno, dopo aver lasciato il suo lavoro di consulenza, ha preso a lavorare come blogger a tempo pieno per FireDogLake, un collettivo sinistroide di blogger, per il quale lei si occupa del tema delle torture, delle intercettazioni non autorizzate ed il salvataggio dell’industria dell’auto. Ho appreso per la prima volta della Wheeler lo scorso aprile, quando ha firmato un articolo sulla prima pagina del New York Times circa la pubblicazione dei memorandum relativi alle tecniche di interrogatorio dell’era Bush. Grazie ad un’attenta lettura dei documenti, la Wheeler è stata in grado di concludere che Khalid Sheikh Mohammed è stato vittima del waterboarding 183 volte in un mese. Tale rivelazione è stata prontamente raccolta da Huffington Post e subito dopo è comparsa sul Times.
“L’idea che il nostro lavoro sia parassitario è ridicola”, mi ha detto la Wheeler al telefono. “La blogosfera contiene molti lavori originali e di qualità. La metà dei giornalisti guarda alla blogosfera quando lavorano ad un articolo”. Allo stesso tempo, continua, “sono felice di dire che nutro ancora grande fiducia nei giornalisti. Non si può parlare [delle torture] senza nominare Jane Mayer [del New Yorker]”. La Wheeler, inoltre, ha lodato anche Dana Priest e Joby Warrick del Washington Post, e James Risen e Douglas Jehl del New York Times. “Bisogna parlare di una relazione simbiotica piuttosto che parassitaria”, continua. Ciò che infastidisce i blogger, aggiunge la Wheeler, sono quei giornalisti che vivono “nel Villaggio” – stenografi della servile, accomodante, convenzionale saggezza proveniente da Washington. È il mondo delle Peggy Noonan e dei David Broder, che sono interessati unicamente alla corsa dei cavalli o allo status quo di cui fanno parte.
La blogosfera, di contro, si è dimostrata particolarmente attraente per coloro che, nonostante abbiano competenze specifiche in determinati campi, hanno scarso accesso a determinate opinioni trasversali di carattere nazionale. Il modello, in questo caso, è Juan Cole, studioso presso la University of Michigan il cui blog, Informed Comment, nel corso degli anni ha offerto un’analisi della situazione irakena – e oggi iraniana – più acuta di quella di molti reporter inviati nei suddetti paesi. Oggigiorno è possibile trovare commentatori simili per ogni argomento. Per un approccio medico sul sistema sanitario americano si può consultare KevinMD, curato da Kevin Pho, un medico di Nashua, New Hampshire. Per un approccio fresco al mondo dell’istruzione c’è joannejacobs.com, curato da un ex editorialista del Knight-Ridder; e per quanto riguarda le politiche in materia di stupefacenti il blog di riferimento è The Reality-Based Community, curato da Mark Kleiman, professore presso la UCLA.
Oltre a questi siti di carattere individuale, il Web ha favorito l’approccio aperto ad intere tematiche prima off-limit per la stampa. La politica interna degli Stati Uniti nei confronti di Israele un esempio rappresentativo. Fino a poco tempo fa, le attività pro-Israele di lobby come l’AIPAC erano ignorate dai giornalisti che temevano di essere tacciati come antisemiti o anti-israeliani. Oggi, il Web pullula di notizie, analisi, opinioni e polemiche circa le relazioni tra Israele e Stati Uniti. Rob Brown, un dentista di Long Island, tiene un registro di tutta la legislazione legata ad Israele ed emanata dal Congresso sul blog liberale Daily Kos. M.J. Rosenberg, ex membro dell’AIPAC, seziona le attività della lobby israeliana su Talking Points Memo. Tali blog trovano una fiera opposizione in un battaglione di sostenitori di Israele, tra cui Ron Campeas (della JTA), Michael Goldfarb (direttore della versione on-line del Weekly Standard) e Jeffrey Goldberg, il più influente giornalista/blogger su questioni legate ad Israele (della rivista The Atlantic).
Entrambe le parti alimentano l’ampio volume di dati disponibili sul Web. “In passato, non avrei potuto leggere Haaretz se non andando da Hotaling”, osserva Philip Weiss, autore del blog Mondoweiss, riferendosi all’edicola newyorchese, ormai chiusa da tempo, specializzata nella vendita di quotidiani esteri. “Ora posso farlo on-line, e lo stesso vale per tutta la stampa araba ed israeliana”. Weiss è uno di quegli amici che ho visto emergere on-line dopo aver resistito diversi anni come redattore di riviste cartacee. Con la sua continua critica ad Israele, il sito ha finito per irritare anche qualcuno dei suoi sostenitori, ma ha dato voce ad una varietà di che in passato avrebbero avuto poche occasioni di essere ascoltate. A Giugno, Weiss, con 8.000 dollari in donazioni dei lettori, si è recato a Gaza con un gruppo antimilitarista e, per diversi giorni, ha steso relazioni sugli incontri avuti con studenti, membri di organizzazioni umanitarie e funzionari di Hamas.
2.
Il Web offre analisi e rivelazioni anche su tematiche da prima pagina, come la crisi finanziaria. Quando a metà del 2007 è esplosa la bolla dei mutui subprime, ad esempio, i giornalisti, che faticavano a spiegare l’intricato fenomeno, si precipitavano su siti come Calculated Risk, dove Tanta, pseudonimo di un banchiere specializzato in mutui con un’esperienza ventennale nel settore, sezionava le follie dei prestatori e l’inettitudine dei regolatori. Su Naked Capitalism, Yves Smith, pseudonimo di un veterano nel settore dei servizi finanziari, demistificava i mercati del credito, mentre su Grasping Reality with Both Hands, Brad DeLong, professore di economia presso l’Università della California di Berkeley, offriva un’attenta analisi critica delle opinioni dei fautori della politica economica.
Durante le ricerche di questo articolo, mi sono imbattuto in un filone di nuovo materiale circa i rapporti tra Wall Street e Washington. Su suggerimento di Ezra Klein, ho ricercato le pubblicazioni di Ryan Grim su Huffington Post, il sito Web ampiamente conosciuto per la sua divertente accozzaglia di storie piccanti, titoli accattivanti e blog di celebrità varie.
Il sito, tuttavia, ha anche un ufficio a Washington con sette tra direttori e reporter (incluso Dan Froomkin, aggiuntosi a giugno dopo che il Washington Post ha rescisso il suo contratto. In veste di reporter, Grim segue i temi relativi al Congresso, e durante la primavera ha seguito da vicino la battaglia per il controllo del settore delle banche, delle carte di credito e dei mutui. Grim, che è in grado di scrivere diversi post al giorno, traccia le procedure con una completezza che molti giornalisti della carta stampata invidiano. In un articolo circa i tentativi della lobby della banche di far deragliare una proposta di legge volta a prevenire i pignoramenti, Grim ha riportato l’angosciosa osservazione del Senatore Dick Durbin secondo cui “le banche – per quanto difficile a credersi in un periodo di crisi del settore bancario generato dagli stessi istituti finanziari – sono tuttora la lobby più potente a Capitol Hill, dove francamente hanno in mano il potere”.
Lo sfogo di Durbin sembrava una presa d’atto del potere che il settore bancario esercita incessantemente sul Congresso, eppure nessuno tra i principali quotidiani ha ripreso la notizia. (Sei settimane dopo, Frank Rich ne ha fatto menzione nel suo editoriale sul Times). Avvertendo immediatamente l’importanza di tale affermazione, Arianna Huffington l’ha inserita in uno dei pungenti editoriali che posta regolarmente sul suo sito. “Perché i banchieri sono tuttora trattai come Beltway Royalty?”, titolava, per poi rispondere con una serie di esempi molto equilibrati su come “particolari interessi radicati” continuino “a dettare legge a Capitol Hill”.
Barlumi di tali realtà emergono occasionalmente sulla carta stampata quotidiana e settimanale, come ad esempio nella sezione “USA Inc.” del Wall Street Journal o nei report di Gretchen Morgenson e Stephen Labaton del Times. In larga misura, comunque, la copertura della crisi finanziaria sulla stampa quotidiana è stata episodica, diluita, camuffata e neutralizzata dai commenti e dalle negazioni di uomini di affari e dei loro portavoce prezzolati, verso i quali i giornalisti tradizionali si sentono obbligati a concedere un eguale spazio.
I blogger che ho seguito rifiutano tali tentativi di “equilibrio”, ed è la loro volontà di abbandonare tali convenzioni a fare della blogosfera un luogo vivace e frizzante. Il caso più evidente è quello di Glenn Greenwald. Avvocato ed ex civilista, Greenwald è relativamente nuovo nel mondo dei blog, avendo iniziato solo nel dicembre 2005 ma, come fa notare Eric Boehlert nel suo accurato ed in parte affannoso Bloggers on the Bus, a sei mesi dal suo esordio “ha raggiunto una posizione di leadership ufficiosa della blogosfera”. A differenza dei post brevi e incisivi adottati da molti blogger, Greenwald presenta un unico intervento quotidiano di due-tre mila parole. In ognuno di questi, attinge da attente ricerche, raccoglie una massiccia quantità di fatti, e, per citare le parole di Boehlert, costruisce il suo caso “proprio come fa un legale”.
Greenwald ha iniziato a farsi notare coni suoi feroci attacchi alla politica dell’amministrazione Bush relativa ad una sorveglianza ingiustificata, e tuttora affronta l’argomento con grande accanimento. Tra gli obiettivi recenti vi sono Goldman Sachs (per l’influenza che ha esercitato sull’amministrazione Obama), Jeffrey Rosen (per il suo articolo sprezzante su Sonia Sotomayor apparso su New Repubblic), Jeffrey Goldberg (per i suoi attacchi al giornalista del Times Roger Cohen), la pagina del Washington Post dedicata agli editoriali esterni (per i molti neoconservatori che ospita), e la stampa nazionale nel suo insieme (per la sua insistenza nel ricorrere ad eufemismi al posto della parola “tortura”). A giugno Greewald scriveva:
Il rifiuto risoluto e perpetuato da parte delle principali istituzioni giornalistiche del paese nel dichiarare quale “tortura” le azioni compiute dall’amministrazione Bush – perfino alla luce degli oltre 100 detenuti morti; del ricorso a tale termine da parte di uno dei principali funzionari di Bush nel descrivere metodi di interrogatorio identici ma applicati in altro paesi – è estremamente rivelatore del pensiero dei giornalisti moderni.
Per quanto riguarda la stampa, continua Greenwald, “vi sono sempre e soltanto due parti per ogni ‘dibattito’ – l’establishment democratico di Beltway e quello repubblicano”.
Nel vigilare in maniera così attenta sulla stampa, Greenwald ha fornito un servizio inestimabile. Eppure i suoi post hanno un aspetto negativo. Immergendomi nella forza delle sue argomentazioni e seguendo scrupolosamente i link che ne comprovano la bontà, mi sono sentito come in una galleria del vento ideologica, sfiancato a poco a poco dalle inesorabili raffiche delle sue opinioni e delle sue analisi. Dopo aver letto la dura denuncia nei confronti della decisione di Obama di non pubblicare le ultime sequenze fotografiche delle torture, ho iniziato a perdere di vista le persuasive argomentazioni di altri commentatori a sostegno della posizione del Presidente. Pur essendo provocatori e bene argomentati, i post di Greenwald spesso sembrano non tenere in conto le considerazioni pratiche con cui devono misurarsi i vertici politici.
Proprio questo è uno degli aspetti più problematici del giornalismo che sta prendendo forma sul Web. Gli eccessi polemici che contraddistinguono la blogosfera sono reali. Nel libro And Then There’s This, un resoconto impressionistico della cultura virale internettiana, Bill Wasik descrive il modo in cui “il network di blog politici, attraverso un processo circolare di feedback tra lettori e blogger”, abbia generato una macchina che fornisce ai lettori “informazioni pre-filtrate” che supportano il proprio punto di vista. Secondo uno studio citato da Wasik, l’85% dei blog linka verso blog della stessa corrente politica, “e quasi nessun blog sembra rispettare in maniera particolare ogni eventuale blog di corrente opposta”.
Con tutte queste voci in cerca di attenzione, l’accento cade sul sexy e sul sensazionale. I titoli sono esagerati in modo da assicurare un certo numero di click ed incrementare il traffico – l’unità fondamentale per misurare il successo del Web. In ogni momento, i gestori dei siti possono verificare quale pezzo sta andando bene e quale male, e possono sostenerli o affossarli di conseguenza. È difficile che le illuminanti relazioni di Ryan Grim sull’influenza esercitata da Wall Street su Washington si trovino su Huffington Post, dove invece non possono mancare post dal sapor di tabloid come “Lindsay Lohan in TOPLESS su Twitter”.
Chi scrive su Internet è sottoposto ad una costante pressione al fine di postare e di mantenere il traffico sostenuto. Molti di coloro che scrivono a tempo pieno sul Web si lamentano dei ritmi di lavoro tayloristici e della mancanza di tempo che gli impedisce di pensare o di lavorare a pezzi più lunghi. Gli stessi lettori sembrano allergici alla lettura di articoli più estesi sullo schermo di un computer. “Non siamo mai riusciti a risolvere la questione di come praticare un giornalismo on-line dalle forme più ampie”, afferma Jacob Weisberg, ex direttore di Slate. “I pezzi tipo New Yorker non funzionano on-line”. Per rimediare a questa situazione, il successore di Weisberg, David Plotz, a chiesto ad ogni giornalista di Slate di prendersi sei settimane per lavorare su progetti più lunghi.
In fondo, Internet rimane una serra di pettegolezzi, distorsioni e falsificazioni. Un esempio è l’ultima campagna presidenziale, durante la quale i blogger di sinistra (incluso Andrei Sullivan) hanno insistito sul fatto che Sarah Palin abbia finto di essere in cinta per proteggere sua figlia Bristol, mentre i blogger di destra hanno sostenuto la tesi che Barack Obama abbia falsificato il proprio certificato di nascita in quanto non era un cittadino americano. Il recente magma di materiale eruttato dall’Iran, con la conseguente ondata di e-mail, video e tweet non confermati, indica la necessità urgente di un sistema qualificato di aggregazione in grado di distinguere i fatti concreti da quelli più fantasiosi e di guidare così i lettori attraverso i tumulti del cyberspazio.
Rispetto a tutti questi problemi, oggi il Web è il laboratorio dove hanno luogo intriganti esperimenti di ogni sorta. YouTube ha recentemente introdotto un Reporter Center che offre i consigli di reporter esperti su come seguire le notizie internazionali. Huffington Post ha istituito un fondo investigativo per sostenere il giornalismo di inchiesta. Il Global Post, con base a Boston, si è accordato con decine di giornalisti indipendenti da tutto il mondo per trovare uno sbocco al loro lavoro. Siti come Minn Post di Minneapolis e Voice di San Diego stanno testando la fattibilità di un giornalismo metropolitano su Web. Tra gli sviluppi recenti più significativi vi è la sezione libri del Daily Beast; la sezione di video-dibattito Bloggingheads.tv; ed il collettivo di blogging di matrice conservativa NewMajority.com, lanciato da David Frum dopo il suo divorzio da National Review.
Prese insieme, tali iniziative indicano che un cambiamento fondamentale sta avendo luogo nel mondo delle notizie. Citando quanto affermato dal nel suo “State of the News Media” 2009:
il potere si sta allontanando dalle istituzioni giornalistiche verso il giornalista individuale … Attraverso ricerche, e-mail, blog, social media ed altro, i consumatori gravitano sul lavoro dei giornalisti e delle voci individuali, e si allontanano in qualche modo dai marchi istituzionali. I giornalisti a cui è rimasto un retaggio delle istituzioni giornalistiche stanno attirando fondi per creare i propri siti Web … Esperimenti come Global Post stanno testando la possibilità per i giornalisti individuali di diventare fornitori indipendenti di notizie per diversi siti, ricalcando in buona parte il rapporto che per tanti anni è intercorso tra fotografi e riviste.
In un saggio molto conosciuto, Clay Shirky, consulente Internet e professore presso la NYU nell’ambito del programma sulle telecomunicazioni interattive, paragona le attuali turbolenze nel mondo delle notizie con i disordini scaturiti dall’invenzione della stampa, quando le vecchie modalità di trasmissione delle notizie era al tramonto e nuove forme dovevano ancora stabilizzarsi – una transizione accompagnata da molta confusione ed incertezza. Questa analogia storica può essere portata un passo avanti: proprio come l’avvento della stampa ha aiutato ad interrompere il controllo della chiesa medioevale sul flusso delle informazioni, allo stesso modo Internet sta allentando la presa dei mass media facenti capo alle corporato-crazie. In pratica, sta avendo luogo un profondo e destabilizzante processo di decentralizzazione e democratizzazione.
Inutile a dirsi, l’industria tradizionale delle notizie continua a giocare un ruolo critico nell’informazione del pubblico. Ma potrà adattarsi all’ambiente mutevole delle notizie? E chi pagherà per la qualità delle notizie e dell’informazione nel futuro? Spero di poter affrontare entrambe le questioni in un ulteriore articolo.
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Fonti:
Bloggers on the Bus: How the Internet Changed Politics and the Press
by Eric Boehlert
Free Press, 280 pp., $26.00
And Then There’s This: How Stories Live and Die in Viral Culture
by Bill Wasik
Viking, 202 pp., $25.95
Rob Browne at Daily Kos: rbguy.dailykos.com
Juan Cole, Informed Comment: juancole.com
Brad DeLong, Grasping Reality with Both Hands: delong.typepad.com/sdj
Jeffrey Goldberg: jeffreygoldberg.theatlantic.com
Michael Goldfarb: weeklystandard.com/weblogs/TWSFP/
Glenn Greenwald: salon.com/opinion/greenwald/
Ryan Grim at The Huffington Post: huffingtonpost.com/the-news/reporting/ryan-grim
Joanne Jacobs: joannejacobs.com
Ron Kampeas, CapitalJ: blogs.jta.org/politics/
Mickey Kaus, kausfiles: www.slate.com/kausfiles/
Mark Kleiman, The Reality-Based Community: samefacts.com
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