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Un omaggio ai ‘’fuochisti’’ dell’ informazione: gli ‘agenciers’, i giornalisti di agenzia

In un articolo pubblicato su Acrimed, René Naba, scrittore e giornalista, esperto di Medio Oriente, rende omaggio al giornalismo di agenzia, che lui stesso ha fatto per almeno 20 anni con la France Presse, diventando la prima persona di origine araba ad esercitare responsabilità giornalistiche sul mondo arabo-mussulmano all’ interno di una grande agenzia di stampa internazionale – Un omaggio all’ AFP tributato mentre il dibattito sullo statuto dell’ agenzia ‘’rischia di condurre questa prestigiosa testata verso un futuro incerto”
(nella foto la sede centrale dell’ AFP a Parigi)

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(p. r.) – In Francia hanno inventato un termine per i giornalisti di agenzia, agencier (ma una ipotetica traduzione italiana, agenziere, è orrida), per assonanza con soutiers, i fuochisti, quei marinai addetti a rifornire continuamente di carbone le caldaie dei battelli a vapore.

Acrimed ha pubblicato un articolo redatto da uno di loro, René Naba, che ha fatto l’ agencier tanto tempo. Un articolo che è un appassionato ricordo e un commosso omaggio al giornalismo di agenzia, attraverso il ricordo del ‘’sudore’’ e della fibrillazione continua di questi ‘’fuochisti dell’ informazione’’ e di altri aspetti caratteristici del lavoro alla Agence France Presse, l’ AFP*, per cui Naba ha lavorato per oltre 20 anni.

Francese di origine libanese, scrittore, esperto di questioni mediorientali , René Naba è stato tra l’ altro la prima persona di origine araba ad esercitare responsabilità giornalistiche sul mondo arabo-mussulmano all’ interno della grande agenzia di stampa francese e internazionalei. E anche di questo, nell’ articolo che pubblichiamo quasi integralmente in traduzione italiana, Naba dà atto alla France Presse, ripagando anche così ‘’il suo debito di gratitudine nei confronti’’ di Jean Marin, Bernard Cabanes, Boni de Torhout e Jean Vincent, mitici capi del servizio diplomatico dell’ agenzia, e rendendo testimonianza, attraverso l’ AFP e attraverso di loro, ‘’a tutti i giornalisti di agenzia in tutte le parti del mondo’’.

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En hommage aux soutiers de l’information : les agenciers ou journalistes d’agence**
di René Naba

Pianta selvatica che spunta nei luoghi deserti, il fico d’ india corrisponde perfettamente all’ immagine del giornalista di agenzia, spinoso a vedersi ma gustoso nella sostanza. Primo ad arrivare nei posti, ultimo ad andarsene, osservatore permanente e meticoloso degli avvenimenti di attualità, lontano dai fenomeni alla moda, il cronista di agenzia è uno storico dell’ attimo – e non un resocontista banale degli avvenimenti, cioè un essere sprovvisto di riflessione, come per tanto tempo lo hanno presentato i falsi confratelli invidiosi della sua posizione, e ancora meno un ritrasmettitore passivo di comunicati come progettano di ridurlo degli affossatori della democrazia in astinenza di notorietà.

Il lavoro del giornalista di agenzia, invariabilmente, si scompone secondo un rituale immutabile: come una partitura in tre tempi, l’ entrata in scena diventa crescendo, i fatti, la descrizione dei fatti allo stato grezzo, poi la messa in prospettiva, ‘’la comntestualizzazione’’, secondo il gergo di oggi, e quindi la chiarificazione, che a volte scivola nell’ analisi politica. Controllore solitario, il suo lavoro è ritmato dai fusi e dalle costrizioni orari e il suo lessico a volte sa di linguaggio guerresco: Deadline, la soglia imperativa oltre la quale un servizio è decretato inutile e quindi trasformato in ‘’spazzatura’’. Incubo dei giornalisti in crisi di informazioni o dipendenti dall’ aleatorietà delle trasmissioni, la deadline equivale a una morte subita.

Essere uomo di agenzia richiede anche una disciplina e un rigore assolutamente disadorni: i fatti bruti obbligatoriamente attributi alle ‘’fonti’’. L’ anonimato è un dato connaturato alla sua funzione e ‘’il quarto d’ ora di celebrità mediatica’’, secondo l’ espressione cara a Andy Warhol, non costituisce l’ ossessione della sua vita. Per tanto tempo anonimi, i suoi pezzi, spesso riprodotti quasi integralmente sui giornali, verranno integrati dalla firma sul tardi, solo verso la fine del XX° secolo, in particolare negli anni ’80. Prima la loro individuazione era legata alle iniziali del nome dell’ autore alla fine del testo della notizia, che gli specialisti decrittavano con la massima cura per giudicare il valore del servizio e classificare il suo autore.

Quando apparve l’ informatica

Momento cardine della storia dei media, l’ arrivo dell’ informatica provocherà un rovesciamento radicale nella concezione dell’ informazione, nella catena di produzione e nell’ economia del settore. Il passaggio dalla macchina da scrivere, col suo prolungamento delle strisce perforate, al computer si accompagnerà, parallelamente, a un rovesciamento psicologico e strutturale della professione, segnando la morte dei due simboli secolari del lavoro di agenzia, la telescrivente e la trasmissione pneumatica, quel sistema a compressione che inviava un dispaccio attraverso i vari budelli realizzati nel ventre di Parigi e nei vari piani della France Presse. Tonitruante ma efficace messaggero, in ogni caso più discreto e meno costoso dei corrieri contemporanei.

Negli anni ’70, la velocità di trasmissione per telescrivente era di 70 baud al minuto e quindi per una notizia completa ci volevano circa tre minuti… Una lentezza benvenuta visto che dava la possibilità di prevenire eventuali errori di precipitazione. Un decennio più tardi l’ introduzione dell’ informatica indurrà un fenomeno di accelerazione dei testi, triplicando la velocità di trasmissione del take e consentendo di trasmettere un dispaccio di 1.000 parole in un minuto, contro i tre minuti di una notizia di 600 parole che ci volevano dieci anni prima. Lo stato febbrile, la condizione naturale del giornalista di agenzia in tempi normali, cederà il posto alla frenesia, l’ informazione alla comunicazione, la celerità alla precipitazione.

Contemporanea della mondializzazione, l’ informatica accelererà la circolazione dell’ informazione e moltiplicherà le fonti di informazione attraverso lo sviluppo della diffusione satellitare, la moltiplicazione delle catene sovranazionali e altri canali di diffusione come internet, la posta elettronica, il blog, oltre al fax e ai cellulari. Al punto che sociologi e analisti politici finiranno per celebrare l’ arrivo di una ‘’società dell’ informazione’’ come il marchio caratteristico del XXI° secolo, la sconfitta del totalitarismo e il compimento della democrazia neoliberale.

Ma questo fenomeno, per reazione, finirà per innescare un processo di concentrazione capitalistica dando origine a gruppi multimediali che aggregano contenente e contenuti, produttore e distributore dei flussi e favorendo la fine dei principali vettori di informazione sotto la ‘’protezione’’ dei conglomerati finanziari, assicurando la costituzione di una nuova ‘’casta mediatica’’ tecnologica spinta da promozioni folgoranti, con i suoi codici, il suo linguaggio, le sue usanze.

La proliferazione dei database e dei motori di ricerca, in più, finirà per atrofizzare notevolmente la memoria viva in seno a un’ ampia frangia della categoria, che rappresentava prima un vero centro di documentazione umana, costituito dall’ effetto cumulativo dell’ esperienza, antidoto al rischio di disinformazione provocato dalla iper-informazione

Mai nella storia dell’ umanità, in effetti, l’ informazione è stata tanto abbondante e così istantanea e la sua diffusione così generale. Questa informazione mondializzata ha, certo, abolito le frontiere fisiche e linguistiche e trasformato il pianeta in un ‘’villaggio planetario’’. Ma questa concentrazione mediatica pone in maniera ricorrente il problema di preservare il ruolo della stampa, partendo dal miglioramento dell’ informazione al cittadino e del dibattito democratico.

[Secondo uno studio di John Stauber e Sheldon Rampton, che vengono considerati i migliori specialist della professione e co-autori di un notevole saggio sulla questione (Toxic sludge is good for you- Common Courage presse, 1995), il numero dei dipendenti delle agenzie di pubbliche relazioni (150.000) aveva ampiamente superato a partire dagli anni ’90 quello dei giornalisti (130.000).]

Negli Stati Uniti, il 40% di quello che viene pubblicato sulla stampa è riprodotto direttamente, senza alcuna modifica, da comunicati di ‘’Pubbliche relazioni’’, secondo Paul Moreira, produttore di programmi di Canal + e autore di un’ opera ben documentata su Le nuove censure-Dietro le quinte della manipolazione dell’ informazione’’ ***

Tragico ritorno delle cose: la comunicazione ha cercato di sostituirsi all’ informazione e le sue derive, con gli ‘’spin doctor’s’’, hanno tentato di rilanciare la propaganda di base dei regimi totalitari che i paesi democratici si erano impegnati a combattere, come avvenne proprio nel caso dell’ invasione americana dell’ Irak. ****

Il ‘’quarto potere’’, il garante della democrazia, è apparso allora come il vettore dell’ ideologia dominante e il linguaggio dei suoi operatori come un marcatore di una identità culturale con gli obbiettivi economici sottesi alla guerra semantica che essa implicava (precarietà vs flessibilità).

Peggio, l’ accresciuto controllo dei grandi conglomerati industriali sui vettori dell’ informazione, l’ importanza assunta peraltro dalle strategie di comunicazione, a detrimento dell’ informazione propriamente detta, la crescente endogamia in seno alla coppia media-e-politica, così come l’ interattività dei diversi attori all’ interno di questa stessa coppia, porrà in tutta la sua acutezza il problema del rapporto fra Media e democrazia, e, intrecciata ad essa, la questione della praticabilità di un dibattito democratico in una società in cui i principali canali di informazione sono dominati dalle potenze del danaro e dalla promozione degli interessi privati.

In Francia, la fagocitazione delle aziende editoriali da parte del complesso militar-industriale ha avuto come curioso risultato di piazzare i grandi quotidiani nazionali e i grandi vettori audiovisivi sotto l’ ala dei grandi gruppi legati agli interessi dello Stato: TFI Bouygues (Costruzioni e telefonia mobile), Le Figaro Dassault aviation, Libération-Edouard de Rothschild (Banca) e Lagardère armi ed editoria (Le Monde, Paris Match, Europe 1, VSD, Le journal de dimanche). In altre parole, lo Stato – e quindi i contribuenti – hanno alimentato dei grandi gruppi che si sono impossessati dei vettori che formano l’ opinione pubblica al servizio della soddisfazione di obbiettivi privati delle imprese.

Di fronte a un tale ondata, l’ AFP sembrerà come una piccola isola di indipendenza. Il giornalista di agenzia sarà così relativamente preservato da questo sconvolgimento per opera del suo modus operandi e del suo statuto ibrido, approvato nel 1957 per iniziativa del ministro della giustizia dell’ epoca, François Mitterrand, protezione contro la deriva collaborazionista che caratterizzò la stampa francese al tempo di Vichy.

Cosa era stato il giornalista della AFP…

Ben prima della comparsa delle nuove tecnologie e della net economy, l’ uomo di agenzia doveva essere, per scelta e per necessità, conciso e parco, sia di parole che di danaro. La carta di credito allora non esisteva. Il giornalista di agenzia era il contabile delle parole, dovendo pagare sull’ unghia ogni parola della sua corrispondenza al telescriventista alle Poste. Una ‘’trattenuta’’ che lo preservava ulteriormente da qualsiasi inflazione verbale, amplificata in seguito dalla esacerbazione della concorrenza e dai nuovi procedimenti tecnologici del copia-incolla.

Il Flash non doveva superare in nessun caso le cinque parole, fonte compresa: un imperativo categorico che scatenava istantaneamente un assetto da combattimento su tutti i piani, mettendo in movimento un meccanismo che faceva schizzare l’ informazione in tre secondi ai quattro angoli del mondo sulla base di un baccano piacevole…ma ansiogeno per il seguito dell’ avvenimento. Il ‘’B’’ (Bulletin), aveva diritto a un paragrafo di tre righe e il famoso Lead-journée mai più di tre take, 600 parole, la stessa dimensione degli editoriali del quotidiano Le Monde, identificabile, come un logo, dalla sua localizzazione in prima pagina, sulla colonnna di sinistra per il lettore, il suo orientamento politico del tempo in cui il quotidiano del pomeriggio era ancora il giornale di riferimento intellettuale e morale della classe politica e della gioventù studiosa.

Il sistema poteva sembrare retrogrado ma rimane ancora ai giorni nostri il miglior antidoto alla sialorrea, e il meno propizio alla manipolazione e alla disinformazione. A questo titolo l’ Agence France Presse, ben prima della nascita di tante scuole di giornalismo era stata a modo suo una scuola di giornalismo, il principale vivaio dei grandi quotidiani, compreso leMonde, anzi soprattutto leMonde, il cui organigramma abbonda di trasfughi, a cominciare da Pierre Vianson Ponté, il suo prestigioso capo del servizio politico dei tempi del generale del generale De Gaulle.

Ci si rassicuri comunque; l’ uomo di agenzia non rischia sempre l’ apoplessia. Ci sono dei sogni rigeneratori alle luci dell’ alba, al momento del ‘’Curtain raiser’’, l’ apertura del sipario, l’ avviso che apre la nuova giornata, il domani, bouquet finale di una produzione particolarmente massacrante.
(…)

L’ uomo di agenzia, diciamo, non è un adepto della Riduzione del Tempo di Lavoro propria della civiltà del piacere o delle 35 ore, né dei tre turni giornalieri, le famose ‘’brigate 3×6’’ caratteristiche dell’ industria pesante.

Un fuochista dell’ informazione insomma, condannato in più a essere giudicato a ogni pezzo, su ogni avvenimento, senza che gli sia possibile operare il minimo ritocco oppure uscirsene con qualche colpo di stile o qualche piroetta dalle situazioni più complesse.

Errori memorabili

Ma il giornalista d’ agenzia non è tuttavia questo essere perfetto, questo ‘’Cavaliere senza macchia e senza paura’’. Fallibile lo è, ma nanche poi troppo spesso. Molte generazioni di giornalisti se la ridono ancora, quando la evocano, quella bufala monumentale che annunciava, con emozione, la morte del Maresciallo Josep Broz Tito, leader della Federazione Jugoslava. Non è stato facile far rientrare le cose nella loro normalità.

Il virtuoso della tastiera che si trovava di turno quel giorno non aveva avuto il dito felice… prova dell’ umanità della funzione del giornalista di agenzia. Il primo flash che è crepitato sulle telescriventi del mondo intero annunciava ‘’Titi è morto’’, seguito tre secondi dopo da un nuovo Flash di rettifica, ‘’Toto è morto’’, per poi finalmente stabilizzarsi con un nuovo Flash minaccioso, superbo nella sua desolazione, ‘’per favore leggere dovunque Tito (rpt Tito) è morto’’. Tutti avevano capito ovviamente. Ma bisognava seguire le procedure. E anche quella volta la procedura fu seguita.

Una serata annaffiata da buon vino poteva salvare l’ Italia da un disastro ecologico, ma non dal ridicolo. Così quella notte in cui un giornalista del desk inglese, di ritorno da una festa in onore della regione vinicola del Beaujolais, un certo giovedì sera, trattando di una frana in Puglia, trasmise una notizia annunciando un ‘’collapsus at balls area’’, che poteva tradursi pudicamente con un crollo ‘’nella zona perineale’’. Tutto si era giocato per una sillaba. Frutto di un giornalista spiritoso, il take, spirituale, restò senza conseguenze a livello di gerarchia. Cosa che non sempre avviene.

Le intemperie potevano giocare un brutto scherzo, anche al giornalista di agenzia più perspicace. Così in occasione della riapertura del Canale di Suez, un mercantile che affrontava il canale ebbe diritto a un tonnellaggio variabile in funzione dei vari punti della rotta. E’ rimasto l’ unico caso nella storia della navigazione in cui un cargo cambiava tante volte il suo tonnellaggio in un tratto così breve. A quell’ epoca le notizie venivano inviate in morse – il linguaggio in codice di cifre e lettere – e la trasmissione era influenzata dale condizioni metereologiche, tanto capricciose all’ est, particolarmente in occasione di tempeste di sabbia, frequenti lungo il Sinai. Così il cargo era entrato nel Canale con un carico annunciato ufficialmente di 35.000 tonnellate. A mezza strada, nel corso di una sosta, il corrispondente regionale aveva annunciato lo scalo della nave con un carico di 3.500 tonnellate, una drastica riduzione. A fine giornata, la nave raggiunse il porto di Aden e il corrispondente dallo Yemen del Sud annunciò la notizia, ma senza sapere che il vento avrebbe fatto un suo ritocco. Infatti, il giornalista in sede, a Parigi, che decrittò il messaggio, arrivato via Londra, lanciò alla fine la notizia della conclusione del viaggio del cargo, assegnando però alla nave un tonnellaggio di 350.000 tonnellate, con una notevole inflazione nei numeri.

Essendo la capacità di sintesi una virtù cardinale del giornalista di agenzia, il redattore di turno, riprendendo le tre notizie della giornata relative a quella traversata, ne fece una sintesi straordinaria rimandando in rete il dispaccio in questi termini: ’’Il mercantile che cambia di tonnellaggio ad ogni scalo è arrivato ad Aden questa notte, al termine di una traversata del Canale di Suez segnata da un costante cambiamento del carico ad ogni scalo. Partito da Suez con un carico di 35.000 tonnellate, il mercantile si è trovato ad Aden con 350.000 tonnellate, dopo uno scalo a metà tragitto in cui era risultato avere un carico di 3.500 tonnellate’’.

Non era ancora l’ epoca dei video comici su YouTube. Il redattore di agenzia fu licenziato sul campo, senza la minima considerazione per il suo humour irriverente, che era grande, né per il suo talento, anch’ esso molto grande.

Un fornitore, un testimone

Per molto tempo, il giornalista di agenzia era l’ interlocutore obbligato, l’ intermediario necessario fra l’ attualità e i media, un ‘’fornitore’’ di notizie. Ora, dopo la confusa profusione di mezzi di comunicazione e la loro sofisticazione, con i giornalisti ‘’embedded ‘’’, gli SMS, Facebook e altri Twitter, il suo ruolo può sembrare se non declassato per lo meno cambiato. Resta lo stesso un intercessore indispensabile, sempre sul campo, irrimediabilmente sottomesso alle regole della scrittura di agenzia.

Osservatore avveduto, egli ha potuto rilevare la lenta erosione della lingua francese attraverso il semplice fenomeno di mimetismo dell’ anglicismo (…).

Il giornalista di agenzia che era entrato nel mestiere negli anni ’70, si divertirà ora a constatare l’ ampiezza presa dalla nuova generazione politica della ‘’gauche mutante’’, inconcepibile all’ epoca, fenomeno caratteristico dell’ epoca contemporanea, il più grande vivaio di transfughi dalla militanza rivoluzionaria al conservatorismo contemporaneo più rigido. Un fenomeno che colpisce anche il mondo arabo, non solo quello occidentale. E si divertirà nel costatare anche la permanenza della stigmatizzazione della figura dell’ orco nella costruzione dell’ immaginario occidentale.

Da Gamal Abdel Nasser (Égitto) a Mohammad Mossadegh, agli ayatollah Ruhollah Khomeiny e Mahmoud Ahmadinejad (Iran) passando per Yasser Arafat e Ahmad Yassine (Palestine), a Moqtada Sadr (Irak) e Hassan Nasrallah (Libano), tutti hanno avuto l’ onore di assumere questa funzione senza che nessuno mai si sia sognato di stabilire un legame fra l’ arroganza occidentale e la radicalizzazione di contestava la sua supremazia.

In tre decenni la carta geostrategica del mondo ha conosciuto una modificazione radicale, ma il lessio diplomatico internazionale rimane immutato su un solo fatto: ‘’l’ arabo israeliano’’, una espressione forgiata per designare un palestinese di nazionalità israeliana. Ma l’ occultamento della questione nazionale palestinese, elemento primario della diplomazia internazionale della seconda metà del XX° secolo, ha condotto gli strateghi della comunicazione a forgiare questo ibrido per eccellenza, come se l’ arabo israeliano non fosse un palestinese, come se il Palestinese e la Palestina non fossero nel cuore del mondo arabo e al centro dei conflitti del XX° secolo.

Epilogo

L’ autore di queste righe ha vissuto questo stato per 20 anni nei ‘’punti caldi’’ dell’ attualità internazionale. Prima come corrispondente dalla redazione regionale della France Presse di Beirut (1969-1979) dove fra l’ altro ha coperto la guerra civile giordano-palestinese, il ‘’Settembre nero’’ del 1970, la nazionalizzazione delle istallazioni petrolifere di Iraq e Libia (1972), una dozzina di colpi di Stato e di dirottamenti aerei, così come la guerra in Libano (1975-1990), la guerra d’ ottobre (1973), i primi negoziati di pace egitto-israeliani di Mena House al Cairo (1979).

Poi, come responsabile del mondo arabo-mussulmano della redazione diplomatica dell’ AFP (1978-1989) dove ha seguito la guerra Iraq-Iran (1979-1988), la guerra fra Algeria e Marocco, quella fra Ciad e Libia (1982-1987), il conflitto Usa-Libia (1986-1987), l’ assassinio del presidente egiziano Sadat (1981), e così via.

Francese di origine libanese, ricco di una doppia cultura franco araba, nato in Africa, giurista di formazione e giornalista di professione con attività di 40 anni in Medio Oriente, Africa del nord ed Europa, l’ autore di queste righe è stata la prima persona di origine araba ad esercitare, molto prima del discorso sulla diversità, delle responsabilità giornalistiche sul mondo arabo-mussulmano all’ interno di una grande azienda di stampa francese di dimensioni mondiali.

Il merito va all’ AFP, che ha avuto in questo campo un ruolo da precursore, molto prima che i concetti di ‘’discriminazione positiva’’ o di ‘’quote etniche’’ arrivassero a inquinare il dibattito pubblico.

In tutta questa sequenza, l’ AFP si è impegnata a mantenere una visibilità pluralista dell’ attualità, come in occasione della guerra del Vietnam o del conflitto libanese, forzando il rispetto dei suoi clienti, che è la prima garanzia della sua esistenza, compensando in qualche modo la sua conquista tardiva dell’ informazione economica.

L’ autore di queste righe ha esercitato le sue funzioni sernza la minima interferenza editoriale da parte della gerarchia o dei poteri pubblici, cosa molto lontana dalla realtà invece nel caso dell’ emittenza pubblica. Ha voluto darne pubblicamente atto e portare questa testimonianza in questo momento particolare della storia dell’ agenzia, in omaggio allo spirito di indipendenza foirgiato da generazioni di giornalisti di agenzia, mentre il dibattito sullo statuto dell’ AFP rischia di condurre questa prestigiosa testata verso un futuro incerto.

Bernard Cabanes, redattore capo dell’ AFP, – ucciso il 13 giugno 1975 per errore in un attentato contro il suo appartamento nella banlieu parigina – è stato il primo a scovare quel ragazzotto di bottega che doveva essere allora il firmatario di questo articolo facendolo venire da Beirut al desk centrale dell’ agenzia, a Parigi, nel giugno del 19775, come preludio alla sua consacrazione come corrispondente.

Boni de Torhout, Capo del servizio diplomatico dell’ AFP, è stato il primo inviato speciale dell’ AFP nella Cisgiordania occupata nel 1967, corrispondente di guerra in Irlanda del nord e poi a Beirut.

Grande specialista dell’ Asia, Jean Vincent è stato interlocutore del primo ministro cinese Ciu en Lai e del generale Giap, ministro vietnamita della difesa, vincitore della b attaglia di Dien Bien Phu.

L’ autore di queste righe ha avuto il delizioso privilegio di servire sotto la loro autorità in senso al servizio diplomatico dell’ AFP (1980-1990), al tempo del suo prestigio prima dello smantellamento. Dedicando a loro questo articolo, egli ha inteso ripagare il suo debito di gratitudine nei loro confronti, rendendo testimonianza postuma a questi tre grandi signori del giornalismo, al di là dell’ AFP, e, attraverso l’ agenzia, a tutti i giornalisti di agenzia in tutto il mondo.

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*L’Agence France Presse (AFP) è la decana delle agenzie di stampa. Prima agenzia francofona e terza a livello mondiale dopo Associated Press (AP, Usa) e Reuters (Gb), è presente in 165 paesi e conta quasi 4.000 collaboratori di tutti i paesi del mondo. Fornisce a getto continuo, a più di 7.000 associati, dei contenuti pronti per essere utilizzati (notizie, servizi, foto, infografie e video), redatti e gerarchizzati tenendo conto di esigenze di qualità editoriale e di obbiettività.
Attualmente il suo statuto è al centro di un dibattito che – secondo Acrimed – ‘’potrebbe rimetterne in questione l’ indipendenza’’.

** Il testo è tratto dall’ introduzione dell’ ultimo libro di René Baba De notre envoyé spécial… Un correspondant sur le théâtre du monde (1969-2009), Edizioni l’Harmattan, maggio 2009

***Edizioni Robert Laffont, febbraio 2007.

****Sulla nuova problematica dei media nell’ era della mondializzazione e della net-economia, vari articoli sul sito dell’ autore.

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