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Una Cnn cinese contro la ‘’propaganda straniera’’

Renmin RibaoLa Cina vuole diffondere al mondo la sua voce in maniera diretta, senza dover dipendere più dal filtro e dalle ‘’distorsioni’’ dei canali di informazione stranieri, e sta mettendo in piedi un canale televisivo di notizie in inglese 24 ore su 24.

Per contrastare la "propaganda straniera" sul paese – che, su un territorio enorme, ha una popolazione con un quinto degli abitanti del pianeta, le più alte riserve valutarie al mondo e forze armate in veloce espansione – nascerà – spiega Alessandro Ursic su peacereporter.net –  quella che è già stata ribattezzata "la Cnn cinese", una rete che si ispirerà proprio ai tre grandi canali di news in inglese già esistenti (Cnn, Bbc World e Al Jazeera English).

Pechino ha annunciato di voler investire 45 miliardi di yuan (5,14 miliardi di euro) per potenziare le attività internazionali dei suoi tre apparati mediatici: l’agenzia di stampa Xinhua, i vari canali della rete Cctv e l’organo di partito "Quotidiano del popolo". La ‘’Cnn cinese’’ nascerà dalle strutture della Xinhua e della Cctv. Il tutto in un’atmosfera di "pace e armonia", due parole usate frequentemente dal Partito comunista per caratterizzare l’ ascesa del gigante asiatico.

Come si muoverà questa nuova grande struttura informativa rispetto al problema della libertà di espressione?

Tutti gli organi di informazione – commenta Peacereporter – hanno alti quadri di partito ai vertici delle loro strutture, e ricevono direttive dall’ alto come accadeva con le "veline" nell’Italia fascista. Influenze per niente nascoste. Per dire: sul suo sito, la Cctv si definisce "l’organo del Partito e del governo". Piccole sacche di giornalismo che cerca una sua indipendenza esistono, con quotidiani locali che provano ad essere sempre più aggressivi nella copertura della corruzione. Ma ogni tanto arriva la stangata – come l’arresto di un giornalista – che serva da esempio.

Se la "Cnn cinese" seguirà lo stesso schema o godrà di più libertà, non lo può sapere ancora nessuno, anche se i precedenti non fanno ben sperare. Alla prima crisi in Tibet nello Xinjiang o su Taiwan, tanto per citare tre temi sensibili per Pechino, si avrà un’iniziale risposta.