Aisha, una icona di guerra

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Invece di una fotografia dal vivo, presa nel corso di un reportage, la foto sulla copertina di Time è un ritratto preparato accuratamente, come quello di una indossatrice o di una star, che rende più doloroso il contrasto fra la messa in scena della bellezza e la ferita aperta e serve alla fine per legittimare il proseguimento dell’ occupazione Usa in Afghanistan

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La foto che ritrae le mutilazioni di Aisha – la giovane donna afghana raffigurata sulla copertina dell’ ultimo numero di Time – sfugge completamente ai canoni dei reportage che puntano a denunciare l’ orrore delle guerre.

Mentre infatti, generalmente,  l’ immagine della donna vittima viene usata come simbolo per denunciare un conflitto, questa immagine serve invece per legittimare il proseguimento dell’ occupazione.

Lo osserva il sito di analisi dei media Owni.fr, rafforzando  l’ interpretazione che della vicenda aveva dato qualche giorno fa l’ Osservatorio europeo sul giornalismo (che ha parlato di un a sorta di ‘controspin’ dell’ amministrazione americana dopo la doccia fredda dei diari afghani di Wikileaks) e segnalando un’ altra differenza essenziale di questa icona:  invece di una fotografia dal vivo, presa nel corso di un reportage, si tratta di un ritratto preparato  accuratamente (lo ha realizzato Jodi Bieber), come quello di una indossatrice o di una star, che rende più doloroso il contrasto fra le messa in scena della bellezza e la ferita aperta.

“In questa foto – rileva André Gunthert – si può notare una eco paradossale di uno dei più celebri ritratti del XX° secolo, quello della giovane donna afghana raffigurata da Steve McCurry, pubblicata nel 1985 dal National Geographic. Al di là della vittimografia dei conflitti, stile gole tagliate, la copertina del Time racconta che il colmo della guerra è l’ aggressione contro la bellezza. Nel caso di Aisha non c’è da dubitare che fra qualche mese la rivista ci infliggerà una visione del dopo ‘ricostruzione’ del viso della donna, fornendo così l’ attestazione definitiva della giustezza dell’ invasione americana”.