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Cresce il non profit, il nuovo ecosistema del giornalismo Usa

Molti giornalisti e responsabili di redazione hanno scelto di migrare alla ricerca di un contesto lavorativo più ospitale, un ambiente non commerciale e senza fini di lucro, più incline ad un giornalismo di inchiesta votato al servizio pubblico. È così che nel corso del tempo è andato emergendo un nuovo ecosistema giornalistico, quello del giornalismo non profitUna ricerca su questa nuova realtà ha analizzato 60 organizzazioni impegnate nell’informazione di pubblico servizio, che impiegano 443 giornalisti a tempo pieno e registrano un fatturato complessivo fra gli 80 e gli 85 milioni di dollari l’ anno – Questi nuovi siti, secondo Poynter.org, “offrono una solida base all’informazione dei cittadini, pur operando nell’atroce dubbio della sostenibilità. In quanto no-profit, sfidano in maniera più diretta il cittadino ponendogli la domanda: chi pagherà per le notizie?L’ autore della ricerca, Charles Lewis, spiega come sia particolarmente importante questo nuovo ecosistema citando Barry Sussman, notissimo giornalista americano e docente ad Harvard: “Il Watergate ha consegnato alla gente un giornalismo onesto, un lavoro che valesse la pena svolgere. Oggi la percezione è mutata. Il modello no-profit, nel suo percorso di crescita, rafforzamento e mantenimento dell’indipendenza, potrebbe riconsegnare al pubblico quello stesso spirito, attirando nuovamente forze giovani e idealistiche verso la professione giornalistica”.

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New journalism ecosystem thrives
di  Charles Lewis

(da InvestigativeReport)

(traduzione di Andrea Fama)

“Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Applicare allo strano mondo del giornalismo le parole immortali che Sir Isaac Newton pronunciò oltre tre secoli fa, potrebbe essere sconsigliato. Ma guardiamo allo stato dell’arte del panorama giornalistico: il declino della fruizione dell’ informazione in America iniziato decenni fa, la contrazione delle entrate pubblicitarie e della raccolta di informazioni di natura commerciale, i brutali tagli applicati dai contabili in nome dell’efficienza, gli editori stranieri che raccolgono i propri investimenti ormai maturi (ma non più in crescita), le redazioni sempre più tranquille e meno intraprendenti. Tutto ciò ha fatto sì che molti seri giornalisti e responsabili di redazione abbiano necessariamente scelto di migrare altrove, alla ricerca di un contesto lavorativo più ospitale, un ambiente non commerciale e senza fine di lucro più incline ad un giornalismo di inchiesta votato al servizio pubblico. È così che nel corso del tempo è andato emergendo un nuovo ecosistema giornalistico.

Innanzitutto, è necessario contestualizzare quanto accaduto al giornalismo tradizionale così come l’abbiamo conosciuto per generazioni. Non solo l’impatto umano di tale trasformazione sismica è stato devastante – come rilevato l’anno scorso da Leonard Downie Jr. e Michael Schudson nello studio “The Reconstruction of American Journalism” – ma il numero di dipendenti delle testate commerciali è crollato del 33% – dagli oltre 60.000 nel 1992 ai circa 40.000 nel 2009. Come tutti sanno, venerabili quotidiani americani quali il Philadelphia Inquirer, il Los Angeles Times, il Chicago Tribune, Newsday, il Baltimore Sun e altri hanno attraversato bufere finanziarie che hanno portato alcune testate alla bancarotta. Altri quotidiani, come il Rocky Mountain News nello Stato di Denver ed il Seattle Post-Intelligencer non esistono più. Oltre 100 testate hanno cancellato l’edizione cartacea del sabato o di altri giorni della settimana. Secondo il Project on Excellence in Journalism (PEJ), il numero di reporter inviati a tempo pieno dalle capitali di Stato è sceso dai 524 nel 2003 ai 355 nel 2009.

L’impatto della contrazione delle redazioni si traduce ovviamente nella mancata copertura di determinate attività pubbliche e private degli uomini al potere. Un esempio riportato dal PEJ – oggi estendibile in molte altre città – riguarda il numero di reporter impegnati nell’area metropolitana di Philadelphia che, dal 1980 al 2005, è passato da 500 a 220.

E’ noto che il giornalismo più serio, completo e di pubblico servizio negli Usa è stato nel secolo scorso quello dei quotidiani nazionali. Pertanto, l’impatto specifico che i tagli continui nelle redazioni hanno sulla capacità di produrre giornalismo di inchiesta – uno dei più onerosi (in termini economici e temporali), difficili e imprevedibili generi giornalistici – è stato e continua ad essere terribile. I team ad esso dedicati sono stati smantellati, e buona parte del personale estero e locale è stata ridotta o è scomparsa del tutto. Solo pochi quotidiani impiegano corrispondenti esteri a tempo pieno; il management editoriale ha iniziato a considerare il giornalismo di inchiesta e quello dall’ estero come forme di giornalismo molto rischiose, complesse ed onerose, e pertanto impraticabili.

Il risultato più ovvio di questo processo di svuotamento è che oggi sempre meno persone indagano, scrivono ed elaborano storie originali in merito ad un mondo infinitamente più dinamico  e complesso; sempre meno giornalisti ad inchiodare i potenti alle proprie responsabilità. Inoltre, contemporaneamente allo svuotamento delle redazioni dei giornali, delle radio e delle televisioni americane (iniziato nel 1980), il numero di esperti e manager in relazioni pubbliche è raddoppiato passando da circa 45.000 persone a 90.000.

Per dirla con Robert McChesney e John Nichols (autori del recente The Death and Life of American Journalism), “anche se il giornalismo si ridimensiona, le notizie continueranno ad esistere, e saranno diffuse sempre più da decine di migliaia di esperti PR ben retribuiti e determinati a spiegare il mondo alla cittadinanza, nei termini più consoni ai propri datori di lavoro aziendali o governativi”.

Il grave vuoto informativo ed editoriale, inoltre, è colmato sempre più da prominenti organizzazioni non governative e think tank specializzati e – implicitamente o esplicitamente – a sostegno di determinate aree di interesse, quali ad esempio l’International Crisis Group, l’  Human Rights Watch e il Natural Resources Defense Council. E mentre l’elite giornalistica tradizionale si è soffermata a valutare se e come adattarsi alle nuove esigenze dell’età dell’informazione rispetto al proprio ruolo di controllo su cosa fosse adatto alla pubblicazione, il mercato globale non strettamente giornalistico, di idee e informazioni, si espande continuamente, con dei livelli di qualità e di affidabilità dei contenuti diciamo variabili, a voler essere clementi.

È proprio su questo sfondo complesso e contraddittorio  che sono sbocciate nuove realtà no-profit. Il Rapporto, Il nuovo ecosistema del giornalismo, costituisce un tentativo ambizioso ed inevitabilmente imperfetto di tracciare in modo sistematico i contorni di un  fenomeno eccitante e dinamico, e magari di generare anche un dibattito pubblico in merito. Una pubblicazione che vuole essere una “risorsa vivente” e in continuo aggiornamento attraverso il sito dell’ Investigative Reporting Workshop dell’iLab, una realtà in espansione che dal 2011 valicherà i confini degli Stati Uniti.

Come sono state selezionate le testate

Prima di citare i risultati più significativi dello studio, è importante definire la metodologia con cui si è proceduto all’analisi. Per poter ottenere credibilità, la metodologia ricalca le stesse procedure utilizzate dal giornalismo tradizionale, che produce informazioni originali e autorevoli vitali per l’informazione della cittadinanza e per la stessa democrazia.

Per elaborare il rapporto sono stati esaminati 60 siti/organizzazioni no-profit, nuovi e meno nuovi, che forniscono ai cittadini informazioni a livello locale, regionale, nazionale e internazionale, il cui ambito, pur spaziando dall’inchiesta all’articolo esplicativo, è sempre quello di un pubblico servizio. Naturalmente non si tratta di un compendio esaustivo. Esistono diverse altre realtà che si sarebbe potuto includere nel rapporto, e la scelta è responsabilità unica dell’autore.

Pensiamo, ad esempio, al grande giornalista pioniere Lowell Bergman, co-fondatore del Center for Investigative Reporting nel 1977 e protagonista di collaborazioni multimediali e pluripremiate con il New York Times, il programma documentario Frontline della PBS e altri programmi di inchiesta presso l’Università della California. O, ancora, Walter Robinson, emerito professore di giornalismo presso la Northeastern University che ha portato i propri studenti a scrivere e pubblicare sul Boston Globe ben 16 inchieste da prima pagina, e che – grazie ai finanziamenti della Knight Foundation e della Ethics and Excellence Foundation – a giugno ha lanciato la Initiative for Investigative Journalism.

Tuttavia, nessuna di queste due realtà è stata inserita nel report sull’ecosistema giornalistico in virtù della loro natura non-istituzionale. Al contrario, abbiamo descritto le attività di 14 organizzazioni no-profit vicine ad una struttura universitaria (23% del totale). Delle università fanno parte otto Centri, mentre sei risultano legalmente e finanziariamente distinti.

Nel nuovo panorama del giornalismo no-profit non abbiamo inserito neanche le emittenti pubbliche (per esempio la National Public Radio con i suoi numerosi programmi già premiati e le sue centinaia di stazioni locali) o i programmi della PBS come Frontline: che queste realtà facciano del giornalismo improntato al servizio pubblico è evidente a tutti e le loro attività verranno analizzate in un prossimo lavoro.

Di converso, alcuni veterani del giornalismo potrebbero sorprendersi nel vedere incluse alcune organizzazioni che pubblicano principalmente progetti di inchiesta sui propri siti Web. Gruppi quali il Center for Responsive Politics con le sue informazioni finanziarie e politiche, il National Institute for Computer Assisted Reporting (che fa parte dell’Investigative Reporters and Editors), il  National Security Archive ed il Transactional Records and Access Clearinghouse (TRAC) hanno prodotto e reso possibile realizzare incredibili inchieste giornalistiche nel corso degli anni; pubblicano tutti on-line; e alcuni dei loro collaboratori sono autori di importanti pubblicazioni. È da molto tempo che meritano di vedere il proprio lavoro riconosciuto come editoria giornalistica di inchiesta.

Tre delle 60 organizzazioni incluse nel rapporto di fatto finanziano il giornalismo di inchiesta – l’Alicia Patterson Foundation, il Fund for Investigative Journalism e l’Investigative Fund presso il Nation Institute. Ad esempio, la Patterson Foundation eroga sovvenzioni di un anno e mezzo a quei giornalisti che perseguono progetti di particolare interesse, realizzando poi, sulla base delle inchieste condotte, articoli giornalistici che vengono pubblicati su APF Reporter, il magazine on-line della Fondazione. Le tre organizzazioni pubblicano on-line importanti lavori giornalistici, direttamente o indirettamente (tramite link nel caso in cui gli articoli vengano pubblicati altrove). Vi sono altre eccellenti comunità e programmi di sovvenzione che sembrano essere meno coinvolti nel processo di editing e di pubblicazione, ma anche in questo caso si tratta di una valutazione soggettiva che necessita di essere rivista alla luce della continua evoluzione di queste realtà.

Un ultimo aspetto relativo alla ratio che ha guidato questo report riguarda lo sforzo compiuto per cercare di guardare anche gli angoli più remoti dell’ ecosistema tratteggiato, sia geograficamente che finanziariamente. Il rapporto, pertanto, include nuove no-profit che faticano nel tentativo di sopravvivere e crescere, il cui prezioso contributo va difeso dagli artigli della speculazione finanziaria. Almeno otto delle no-profit elencate nel rapporto (e forse anche di più) hanno un budget operativo annuo inferiore a 100.000 dollari, il che significa che diversi giornalisti esperti lavorano in cambio di una paga minima se non addirittura nulla, in veste di volontari della conoscenza che mettono a disposizione il proprio tempo nel tentativo eroico di creare una nuova istituzione laddove prima vi era solo il vuoto.

Ed è proprio questa nuova dimensione a rappresentare forse l’aspetto più intrigante. Delle 60 organizzazioni prese in esame, 38 (pari al 63%) sono stata avviate nel 2006. Tre dei tentativi più consistenti – ProPublica, The Bay Citizen e The Texas Tribune – sono il frutto del lavoro dei propri fondatori e finanziatori, ovvero rispettivamente Herb e Marion Sandler, Warren Hellman e John Thornton. Ma la stragrande maggioranza è stata lanciata da redattori e reporter che hanno scarsa o nulla esperienza in materia di finanza, imprenditoria o management.

Ed è a questo punto che bisogna riconoscere la dimensione darwiniana del Nuovo Ecosistema del Giornalismo. Alcune di queste organizzazioni non ce la faranno, altre invece sì, e altre ancora emergeranno in seguito. Si tratta di un ambiente fluido, stressante e molto competitivo, che dipende dai capricci del fato, dalle economie nazionali e locali, dalla resistenza e dall’imprenditorialità dei fondatori, dalla stabilità o dalla mutevolezza dei finanziatori, piuttosto che dalla risonanza pubblica del giornalismo prodotto, tanto per menzionare qualche variabile.

Per dirla con Karen Dunlap, presidente del Poynter Institute, questi nuovi siti “offrono una solida base all’informazione dei cittadini, pur operando nell’atroce dubbio della sostenibilità. In quanto no-profit, sfidano in maniera più diretta il cittadino ponendogli la domanda: chi pagherà per le notizie?

Le organizzazioni prese in esame con i bilanci più alti sono:

Secondo i nostri calcoli, queste 60 organizzazioni impiegano 658 persone a tempo pieno, di cui due terzi sono giornalisti professionisti con un’esperienza lavorativa alle spalle. Pertanto, solo una piccola frazione (443 persone, per l’esattezza) della diaspora di talentuosissimi giornalisti che hanno lavorato nel giornalismo commerciale ha accettato la sfida del no-profit.

Il bilancio annuale cumulativo di queste organizzazioni ammonta a 79,7 milioni di dollari. Ma 11 di queste 60 realtà, che impiegano 40 persone, non hanno fornito informazioni in merito. Pertanto, la spesa totale annua stimata dal rapporto si attesta tra gli 80 e gli 85 milioni di dollari.

Per quanto riguarda il “quid” del Nuovo Ecosistema del Giornalismo, per ogni organizzazione si è inteso individuare chi fosse il fondatore; chi fossero editori e redattori; la precisa natura della struttura corporate e governance; quando è stata avviata l’impresa; il numero di impiegati a tempo pieno (alcune delle organizzazioni più nuove e piccole hanno pochi impiegati a tempo pieno e ricorrono massicciamente collaborazioni su base volontaria, studenti e freelance a contratto); il numero di impiegati a tempo pieno con precedente esperienza nel campo del giornalismo professionistico; il grado di apparente conformità alle tecniche tradizionali di raccolta delle informazioni, incluse le prassi interne consolidate; i riconoscimenti derivanti da altre realtà giornalistiche sotto forma di premi legati al materiale pubblicato.

È stato inoltre rilevato che 28 delle 60 organizzazioni sono state insignite di premi relativi alla loro produzione giornalistica, il che significa che il giornalismo tradizionale ha iniziato a riconoscere sempre di più il lavoro originale e di qualità che viene pubblicato.

Un criterio che riveste particolare importanza nel contesto del no-profit è la trasparenza. Le organizzazioni pubblicano apertamente sui rispettivi siti Web le proprie fonti di finanziamento, l’entità del proprio budget e gli stipendi dei propri collaboratori? E pubblicano anche i propri modelli esattoriali indicando, oltre a queste fondamentali informazioni, anche gli importi specifici per singolo donatore (contenuti nella sezione “confidenziale” dei modelli, e non in quella “pubblica” che viene generalmente resa nota)? Ma soprattutto, fino a che punto le organizzazioni in questione sono sensibili alla necessità di trasparenza e di responsabilità?

La cosa più sorprendente e deludente riscontrata attraverso il rapporto è proprio questa: solo 13 organizzazioni su 60 pubblicano tale modello o, ad ogni modo, rendono note le informazioni in esso contenute. Per i centri con base nelle università, il modello è incluso nel medesimo prospetto relativo all’intero ateneo, mentre alcune organizzazioni non pubblicano i dati sul proprio sito Web, bensì attraverso Guidestar, il sistema di reporting delle no-profit – il che naturalmente non è diretto come nel caso del proprio sito.

È leggermente più rassicurante il fatto che il 47 organizzazioni (78%) pubblichi una lista dei donatori sul proprio sito. Tuttavia, in molti casi la riluttanza nei confronti di una totale trasparenza è ovvia. Tali informazioni possono essere sepolte tra centinaia di migliaia di parole, nelle FAQ o su vecchie pagine dei blog. Eppure sono i cittadini normali – e non dei certificatori forensi – a dover potere accedere facilmente a tali informazioni. Una trasparenza falsata lede l’immagine di simili organizzazioni e mina la credibilità dei contenuti giornalistici da esse prodotti.

Metà delle organizzazioni analizzate ha una politica etico-editoriale che approfondisca le pratiche  e gli standard adottati, mentre solo 10 di esse (17%) adotta una poitica cosidetta “per la diversità” – si tratta di un dato fuorviante poiché alcune delle organizzazioni etnicamente più variegate non adotta questo tipo di politica. Sono 23 (38%), infine, le organizzazioni con a capo una donna, sebbene valga la pena sottolineare che in quattro casi si parla di una leadership condivisa con un collega uomo.

Ma a parte i dettagli nudi e crudi, si auspica che il presente rapporto fornisca un quadro più chiaro del fenomeno cui  si assiste negli Stati uniti da cinque anni a questa parte.

I nuovi modelli funzioneranno?

E come sarà considerato il nuovo ecosistema del giornalismo no-profit dagli eminenti rappresentanti del giornalismo tradizionale? Da questa domanda trae ispirazione Phil Meyer – padre del giornalismo assistito da computer e autore di due libri seminali, Precision Journalism (1973) and The Vanishing Newspaper (2004). “Il giornalismo no-profit funziona perché i proprietari ed i manager delle testate hanno ampliato i propri orizzonti a differenza di quanto accade per il mondo del business statunitense in generale. Devono comunque far quadrare, ma sono liberi di lavorare in nome della salute a lungo termine delle proprie imprese e delle proprie comunità di riferimento”.

Barry Sussman è stato ai vertici del giornalismo americano quale redattore speciale press oil Washington Post in occasione del Watergate, monitorando il lavoro svolto da Bob Woodward e Carl Bernstein. Oggi è capo redattore del Nieman Watchdog Project presso l’Università di Harvard. Così come Meyer, anche Sussman è entusiasta del fenomeno no-profit e della ventata di energia e speranza che sta portando al giornalismo.

“Redattori, reporter, imprenditori e sponsor coinvolti nel giornalismo no-profit hanno lavorato per decenni sfornando storie importanti, e negli ultimi anni stanno ottenendo i giusti riscontri anche dal punto di vista dei numeri, del riconoscimento e dell’impatto del proprio lavoro”.

“I media tradizionali fanno ancora del grande giornalismo, ma in piccolissima parte”, continua Sussman. “È il modello no-profit a mostrare le prospettive più interessanti. Più di ogni altra realtà, il giornalismo no-profit servirà – sta già servendo – a responsabilizzare i leader del Paese e a mantenere acceso il dibattito pubblico su questioni importanti”.

“Il giornalismo no-profit è importante anche sotto un altro aspetto”, conclude Sussman. “Il Watergate ha consegnato alla gente un giornalismo onesto, un lavoro che valesse la pena svolgere. Oggi la percezione è mutata. Il modello no-profit – nel suo percorso di crescita, rafforzamento e mantenimento dell’indipendenza – potrebbe riconsegnare al pubblico quello stesso spirito, attirando nuovamente forze giovani e idealistiche verso la professione giornalistica”.

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