E’ il momento di dire addio ai corrispondenti esteri?

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Solana Larsen, managing editor di Global Voices, ipotizza che “saranno le voci locali a fornirci le notizie dall’ estero”, sostenendo che “le persone che vivono nel loro paese forniscono un servizio migliore perché non sono influenzate da agende esterne“ – Una tesi eretica che ha  trovato però il sostegno di  Richard Sambrook, ex direttore della sezione Global News della BBC, secondo cui il giornalismo paracadutato starebbe per sparire, mentre centinaia di stringer locali sono già al lavoro per la BBC – Ma che, come testimonia sul sito del Guardian Roy Greenslade, vede anche diversi oppositori, fra cui uno dei fondatori  di Global Voices, Ethan Zuckerman

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Si può – e si deve – fare a meno dei corrispondenti dall’ estero?

Questa idea eretica, al centro di un dibattito alla Nieman Foundation for Journalism di Harvard, è stata lanciata da Solana Larsen, managing editor di Global Voices,una comunità di blogger e traduttori di tutti i paesi del mondo, in un articolo dal titolo: ‘’Saranno le voci locali a fornirci le notizie dall’ estero?”.

Basandosi sulle sua esperienza di redattrice di notizie internazionali scritte da persone che vivono nel loro paese, Larsen sostiene che queste ultime forniscono un servizio migliore perché non sono influenzate da agende esterne.

GreensladeLo riporta sul sito del Guardian Roy Greenslade (nella foto), nel corso di un’ ampia analisi sulla questione, citando un articolo di Larsen:

I fatti non sembrano gli stessi quando vengono raccontati dall’ interno. Penso a questo tutti i giorni, quando confronto i nostri articoli con quelli che leggo sui giornali. E mi confermo che quello che facciamo è speciale quando sento inviati o corrispondenti costretti a lottare con i direttori per poter ‘vendere’ importanti servizi dall’ estero. Se non possono contare su una audience internazionale, devono anche trovare qualche aspetto locale della vicenda in modo che il pubblico occidentale possa venire interessato ad essa per qualche aspetto che non sia il solo punto di vista umano.

Immaginate la differenza se tutte le notizie dall’ estero venissero raccontate da persone del posto dove i fatti accadono. Sono sicura che cambierebbe la scelta delle vicende da raccontare, il modo di raccontarle e il modo con cui il pubblico reagirebbe ad esse.

Non è stata la prima sfida all’ ortodossia lanciata da Larsen. Un paio di anni fa – racconta Greenslade – la stessa giornalista aveva agitato l’ idea a una conferenza sostenendo che giornalisti stranieri paracadutati in un paese senza conoscere neanche la lingua in modo da poter leggere i giornali locali non potevano fare un lavoro migliore dei giornalisti ‘nativi’.

Larsen ha detto di essere stata “etichettata come ingenua e irresponsabile”. Ma di avere anche  “sorprendentemente” trovato il sostegno di  Richard Sambrook, allora direttore della sezione Global News della BBC. E aveva scritto: “Sambrook è d’ accordo con me. Il giornalismo paracadutato sta per sparire e centinaia di stringer locali sono al lavoro per la BBC”.

Ha aggiunto comunque di non voler essere troppo rigida, rilevando che c’ erano sicuramente giornalisti preparati in grado di lavorare bene all’ estero. E aveva citato in particolare il corrispondente del Guardian dagli Usa,   Gary Younge, come un esempio di come un esterno potesse sommare doti di conoscenza locali e internazionali.

Naturalmente Larsen ha toccato un nervo scoperto.  Una risposta le è venuta da uno dei suoi colleghi, Ethan Zuckerman, uno dei co-fondatori di Global Voices, che ha detto di essere meno sicuro sulla “provocatoria idea” di Larsen.

“Condivido la passione di Larsen per dare alle voci indipendenti una audience globale. Ma sono meno ottimista di lei riguardo alla sua ipotesi di eliminare i corrispondenti stranieri”.

Zuckerman si è detto d’ accordo sul fatto che i corrispondenti esteri paracadutati in una situazione non familiare siano spesso poco informati sulla situazione locale e influenzati dai punti di vista del proprio pubblico di casa. E ha lodato “lo sviluppo dei media partecipativi e il fiorire della stampa induipendente in tutto il mondo”, che costituiscono un forte aiuto per i corrispondenti esteri. Ma ha ribattuto che il crowd-sourcing non potrà mai sostituire la qualità del tradizionale giornalismo degli ‘esteri’. Per lui i corrispondenti operano come dei ponti fra il paese straniero e quello della pubblicazione.

Basterebbe solo il fatto che con un giornalista sul posto le probabilità che un fatto divenga notizia sono molto alte. Senza corrispondenti stranieri è difficile avere una buona informazione di attualità.

Zuckerman osserva: “I migliori corrispondenti dall’ estero non sono quelli maggiormente informati sul paese di cui scrivono, ma quelli che sono in grado di attirare il proprio pubblico verso una vicenda che possono aver precedentemente ignorato”.

I giornalisti che risiedono all’ estero possono non capire tutto della cultura in cui vivono, ma sono in grado di stimolare l’ interesse e di offrire delle buone analisi per i loro lettori in patria.

Argomenti che godono di forte sostegno, commenta Greenslade. Bill Schiller, un corrispondente estero del Toronto Star, ha difeso il suo mestiere in un analisi per la Nieman Foundation,  Even in digital age, ‘being there’ still matters in foreign reporting.

“Abbiamo la possibilità di andare abbastanza vicini per ascoltare – e capire quello che abbiamo sentito”, scriveva. “Ed è il lavoro di reporting – blocchetto di appunti in mano, sul terreno, particolari verificabili – che resta al centro del nostro mestiere, specialmente per gli inviati all’ estero, dove occuparsi di un’ altra cultura non è mai un compito facile”.

Ma John Maxwell Hamilton, un ex corrispondente dall’ estero e attualmente docente in una scuola di Giornalismo, ha aperto il dibattito richiamandoci alla mente una scomoda realtà.

“Poche persone si interessano davvero molto delle notizie dall’ estero. A chi fa i sondaggi dicono di sì ovviamente, ma fingono. Lo sanno che dovrebbero interessarsene – alla fine tutti sanno che le notizie internazionali sono importanti – o sono in imbarazzo ad ammettere che i fatti di oltreoceano non sembrano poi così impellenti quando si stanno ingozzando di altre notizie”.

Questa – osserva Greenslade – è una delle ragioni, la principale ragione, che spinge gli editori a chiudere le redazioni estere e spesso a rifiutarsi di inviare giornalisti all’ estero per coprire l’ attualità.

Con dei budget editoriali ridotti all’ osso, i direttori sono costretti a risparmiare soldi dove possono. Ma è la ricetta di Solana Larsen la risposta per risolvere quel problema? Oppure – conclude –  Zuckerman è più realista?