Molti sostengono che abbia già lasciato un segno nella storia del mondo dell’informazione.  In un momento delicato per l’editoria, l’ esempio di HuffingtonPost e di Arianna Huffington, la sua fondatrice, sembra ridare ossigeno e speranza. Per alcuni il sito risulta essere un vero e proprio “vaccino contro l’influenza del giornalismo”
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La formula vincente dell’Huffington Post sembra lanciare un segnale agli editori di tutto il mondo: il giornale online, senza corrispettivo cartaceo, può “funzionare” economicamente, può conquistare i giovani, può diventare autorevole, può superare, a livello di audience, le grandi testate storiche, anche nel giro di pochi anniâ€.
Una approfondita analisi del fenomeno HuffPost è contenuta in uno dei capitoli conclusivi della tesi di laurea di Roberta Bertero, “Il quotidiano online in Italia: stato dell’arte e possibili evoluzioniâ€, che abbiamo appena pubblicato.
“Cambiare i termini e le strategie della propria presenza online,[…] farsi venire delle idee nuove, investire in innovazione tecnologicaâ€. Questi alcuni dei suggerimenti che Arianna Huffington porge in una fanta-intervista che l’ autrice della tesi ha realizzato mettendo assieme brani di interventi e riflessioni che la creatrice di HuffPost ha distribuiti nel corso di questi anni di successi e che riproduciamo qui sotto.
“Le crisi economiche- osserva ancora la signora Huffington –  non sono come i temporali, che arrivano e vanno via senza che ci tocchi far nulla. L’alternativa all’innovazione è trattenere il respiro, tirare la cinghia e aspettare che la crisi passi. Di fatto, si tratta di una condanna a morte: senza un cambiamento coraggioso e tempestivo, quel giorno sarà troppo tardi.”
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di Roberta Bertero
(da “Il quotidiano online in Italia: stato dell’arte e possibili evoluzioni†)
La fondatrice di quello che viene considerato il prototipo del giornalismo del futuro si è espressa a più riprese sul futuro della professione. Ho deciso, quindi, di creare una fanta-intervista, unendo stralci di colloqui fra la blogger-manager e alcuni giornalisti. Dalle sue stesse parole si riescono a intuire, da un lato, il suo carisma, dall’ altro, le sue idee sul futuro del giornalismo.
Ecco l’ intervista.
I: Arianna, ha letto il necrologio fatto dal Financial Times all’ industria giornalistica?
A: I necrologi per la carta stampata sono prematuri.
I: Ammetterà però che la carta è in crisi: cala la pubblicità , calano i lettori, vengono tagliati dipendenti e stipendi.
A: Fino a quando la generazione che è cresciuta prima dell’ era di Internet non si sarà estinta, ci sarà un mercato per i quotidiani stampati. E’ qualcosa che abbiamo nel nostro DNA collettivo: sveglia, caffè, sfogliamo una pagina, leggiamo una notizia sfiziosa, e passiamo il quotidiano a chi ci sta a fianco.
I: La scenetta potrebbe anche avvenire davanti a un computer portatile.
A: O usando il proprio Blackberry, certo. Ma l ‘istinto mi pare che ci porti ancora sui fogli. E poi davvero c’ è qualcuno che rischierebbe di ungere con una spalmata di burro il proprio nuovo MacBook Pro?
I: Il destino dei quotidiani comunque è online?
A: Sì. Il futuro è ibrido: i vecchi editori e lettori abbracceranno i new media (la trasparenza, l’ interattività e l’ immediatezza) e i new media adotteranno le pratiche migliori dei vecchi media (l’ onestà e l’ accuratezza). I lettori ora sono abituati a ottenere le notizie che vogliono, quando, dove e come le vogliono. Nonostante tutte le relazioni disastrose sullo stato dell’ industria dei giornali, stiamo attraversando l ‘età dell ‘oro per i consumatori di news che possono navigare in rete, uti- lizzare i motori di ricerca, accedere alle migliori storie provenienti da tutto il mondo, e essere in grado di commentare, interagire, e formare delle comunità .
I: Cosa pensa, invece, del dibattito relativo al ripensamento sulla circolazione gratuita dei contenuti giornalistici?
A: E’  troppo tardi per sovvertire quello che succede in rete, dove non si paga per i contenuti: a meno che non si tratti di contenuti molto specializzati (per esempioquelli economici del Wall Street Journal). Nessuno riuscirà a cambiare il modo in cui le persone si sono abituate a raccogliere le informazioni in rete. Per questo credo molto nel potere degli aggregatori, e non credo che limitare l’ aggregazione e la riproposizione dei contenuti originali sia una buona idea: se gli aggregatori lavorano bene, portano traffico anche alle fonti originali. Noi riceviamo centinaia di richieste ogni giorno da parte di siti che vogliono che linkiamo le loro storie per avere più lettori.
I: Come mantenere, quindi, il buon giornalismo? I siti di informazione a pagamento non funzionano. Che cosa ne pensa di chi, come Walter Isaacson, propone che si paghi online ogni pezzo letto?
A: Non credo ai micropagamenti e all’ editoria che resiste grazie alle piccole sottoscrizioni. Basta chiedere a quelli del New York Times. Loro hanno sperimentato l’’operazione Time Select. L’ unica cosa per cui la gente è disposta a pagare online sono i porno e le informazioni finanziarie. Ma al momento mi pare che anche lì ci sia qualche scetticismo.
I: Se, però, tutti i soldi vanno agli aggregatori e non a chi produce le news, con quali soldi si producono, poi i contenuti? Se il New York Times chiudesse, voi, poi, cosa aggreghereste?
A: Adesso c’ è stata una specie di tempesta perfetta prodotta dalla crisi economica e dalla crisi della pubblicità , ma non è che il New York Times non faccia profitti Aspetterei a pensare che il New York Times chiuderà . Inoltre, ci stiamo muovendo verso molti potenziali modelli diversi: io credo che l’ informazione sarà prodotta da combinazioni di enti commerciali e non profit, di giornalisti, blog e citizen journalism.
I: Internet, dunque, non ha nessuna responsabilità sul futuro del giornalismo investigativo?
A: Io penso che le ipotesi sulla morte dei giornali siano molto esagerate e trascurino gli enormi spazi di innovazione che ci sono nel futuro. Ma non dimentichiamo anche che il giornalismo investigativo tradizionale ha avuto di recente i suoi bei fallimenti: ha sbagliato sulla guerra in Iraq, quando ha fatto da cheerleader all ‘amministrazione Bush e ha trascurato di fare inchieste che andavano fatte, onon ha dato loro lo spazio che meritavano. Non è riuscito, poi, a prevedere la crisi finanziaria.
I: L’ Huffington Post come viene finanziato?
A: Il nostro è  un modello legato all’advertising.
I: E a un fondo di investimento che ha coperto con parecchi milioni di euro le vostre pagine virtuali. Poi ci sono anche molte sottoscrizioni. Qualche cifra?
A: In questo momento non diamo numeri, mi dispiace.
I: I governi devono aiutare i quotidiani in difficoltà ?
A: Non mi pare che qui, negli Usa, ci sia questa prospettiva. Ma chiunque riconosca l ‘importanza fondamentale del giornalismo nella nostra democrazia, cerca di preservare questo ruolo. E per questo che noi abbiamo creato il Fondo per il giornalismo investigativo. E durante la campagna per le presidenziali abbiamo lanciato l’iniziativa “Off the bus”.
I: Di che cosa si tratta?
A: Uno spazio per coinvolgere i cittadini, facendoli diventare reporter occasionali: cronisti fuori dal pullman dello staff dei candidati. Anche per dare un punto di vista diverso ad quello dei giornalisti dei quotidiani mainstream che, invece, spesso, stanno on the bus.
I: All’ Huffington Post tutti vengono pagati?
A: No, solo i giornalisti, i tecnici e i reporter dello staff che curano e aggiornano ogni sezione dell’ Huffington Post. In totale sono 55. I 3 mila blogger che sono in contatto con noi, immagino si accontentino del prestigio della nostra piattaforma. Non hanno ne scadenze ne misure da rispettare.
I: Le notizie e i commenti dei blogger vengono controllati prima della pubblicazione?
A: Generalmente sono affidabili. Ma i fact checker, i verificatori del nostro staff, scovano e segnalano gli errori molto velocemente. I blogger, una volta avvisati, hanno 24 ore per correggere il loro post. Se non lo fanno, il post viene cancellatoe la password del blogger viene ritirata.
La redazione fa anche pre-moderazione. Ogni post riceve centinaia di commenti. Il mese scorso ce ne sono stati un milione. Noi li controlliamo tutti prima, per evitare di pubblicare insulti o aggressioni. Una redazione, il quartier generale, si trova a New York. Poi c’e una redazione più  piccola a Washington.
I: Ma lei vive a Los Angeles?
A: Io lavoro a casa in uno studio segreto al piano di sopra, nascosto da una libreria e da una immagine dei Cardinals. Per il resto, mi muovo e sono sempre in contatto con le redazioni tramite e-mail, chat, sms. Per la telepatia ci siamo attrezzando.
I: Lei da dove scrive i suoi post?
A: Principalmente da Los Angeles. Ma posto da dove capita. Ho scritto il mio primo Twitter mentre ero a cena con un economista a New Haven.
I: Il giornale lo fate per telefono?
A: Faccio le riunioni soprattutto al telefono. Riunioni diverse con ciascuna sezione del giornale: per il resto, i singoli caposervizio hanno molta libertà . Successivamente assestiamo insieme le impostazioni di ciascuna sezione.
I: Come le è venuto in mente di creare l’ Huffington Post?
A: Il mio socio Kenny Lerer ed io decidemmo di creare quello che poi diventò l’ Huffington Post dopo la sconfitta di John Kerry. Volevamo mettere assieme un aggregatore di news e un blog collettivo: cominciammo con 500 blogger, ora ne abbiamo 3 mila.
I: Quando ha capito che l’ Huffington Post sarebbe diventato qualcosa di importante?
A: Durante una puntata del Tonight Show pochi mesi dopo la nascita del sito. Il presentatore comico, Jay Leno, nel suo monologo fece la battuta finale citando l’ HuffPo. Il pubblico rise. Voleva dire che il marchio ormai era passato.
I: Lo scoop di cui va più fiera?
A: Il modo in cui seguimmo la vicenda della reporter del New York Times, Judith Miller, fu un momento di svolta per Huffington Post perché abbiamo evidenziato le falle nella ricostruzione della Miller che parlava delle armi di distruzione di massa. Abbiamo contribuito a cambiare la percezione del pubblico sulla giornalista: da martire del primo emendamento a complice dell’ amministrazione Bush nel vendere la guerra in Iraq agli americani.
I: A cosa attribuisce il successo dell’Â Huffington Post?
A: Penso che le persone gradiscano il fatto che noi riusciamo a coprire numerosi argomenti differenti tra loro dalla politica all’ intrattenimento, dalla moda alla satira. C’ è sempre qualcosa di interessante da leggere, su cui riflettere e, anche, di cui ridere. E poi abbiamo una comunità molto vivace: nell’ottobre del 2009 abbiamo avuto 1,7 milioni di commenti.
I: Cosa risponde a chi sostiene che il vostro sito sia principalmente un aggregatore di notizie e strappi il lavoro di altri senza compenso?
A: L’ HuffPost serve ai navigatori come pagina da cui partire per conoscere i migliori contenuti rintracciabili sul web. Noi creiamo collegamenti diretti con altri siti. Ogni mese vengono viste 25 milioni di pagine su altri siti, a partire dal nostro. Per questo ogni giorno abbiamo piu di 100 richieste da parte di siti di news affinché sul nostro creiamo il link alla loro pagina. Comunque l’ aggregazione è solo una parte di ciò che facciamo. I post dei blog (originali) e gli articoli realizzati da noi costituiscono più  del 40% delle notizie che vengono visionate sul sito.
I: Quanto conta aver frequentato Washington nella costruzione di un blog in cui si va dal gossip agli scoop politici?
A: Diciamo che tutte le ore spese nei palazzi di Washington hanno contribuito abbastanza. Ma il segreto dell’ Huffington Post è  un altro: ha una voce poderosa e un punto di vista originale. Le esperienze online più  forti hanno cominciato offrendo qualcosa di unico e su quello hanno costruito il resto: contenuti avvincenti e interattività , sfruttando il potere del link.
I: Lei e il suo socio volevate fare politica o giornalismo quando avete creato l’ Huffington Post?
A: Giornalismo, è sempre stata una cosa di giornalismo.
I: Non vi interessa influenzare la politica?
A: Sì, ma attraverso il giornalismo. Non attraverso l ‘attivismo. C’ è una differenza. Vogliamo fare del giornalismo che abbia dei risultati. Significa per esempio che cerchiamo di restare fedeli a un’ inchiesta, di non lasciarla morire. I media tradizionali trovano una notizia e poi la abbandonano rapidamente. Ma per ottenere dei risultati bisogna perseverare su quella storia fino a che la gente non e stufa.
I: Che impressioni ha dell’ informazione online italiana?
A: A quanto sento, la convergenza è ancora in corso. Ci sono troppi ruoli separati tra le redazioni di carta e quelle online, tra i giornalisti e i blogger, tra le varie gestioni. Hanno bisogno di integrarsi, come è successo in America: basta guardare come funzionano oggi il New York Times e il Washington Post.