(immagine cc by fdecomite)
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E’ interessante chiedersi perché alcuni giornalisti vedono internet come una opportunità per reinventare il proprio mestiere (e ci lavorano concretamente), mentre altri si lanciano in anatemi terrificanti e sterili.
Due culture del giornalismo, di fatto, una delle quali vede internet come una minaccia assoluta che rimetterebbe in causa non soltanto il monopolio dell’ informazione, quanto le basi stesse dello status e della legittimità sociale dei giornalisti professionali, mentre l’ altra vi scorge un terreno avventuroso, in cui tutto deve essere ricostruito ma in cui c’ è posto per tutti, se si accetta questo cambiamento formidabile della regola del gioco…
Partendo da due trasmissioni televisive sui rapporti fra il giornalismo e la Rete andate in onda contemporaneamente nei giorni scorsi in Francia – una su Arte e l’ altra su Direct8 – Narvic analizza a fondo sul suo blog questi due tipi di cultura, ricavandone l’ essenza e le motivazioni anche sul piano della sociologia professionale..
La riflessione naturalmente vale per i giornalisti di tutti i paesi.
Sulla prima rete, Arte, – racconta Narvic – una lunga lamentazione allarmista e drammatizzante che alcuni giornalisti si sono fatti fra di loro. Sull’ altra, su Direct8, invece, misura e pragmatismo.
Su Arte – prosegue Narvic – l’ affiorare a un ritmo sbalorditivo di tutti i cliché, le inesattezze, le approssimazioni, gli errori e i pregiudizi su internet che vengono diffusi da tanti giornalisti professionali: zero informazione: solo propaganda.
La sorpresa invece viene da una emittente privata – Direct8, che fa capo a Vincent Bolloré -, di cui il meno che si possa dire è che brilli per pretese culturali, in cui due giornalisti – Johan Hufnagel, redattore capo di Slate.fr, e Olivier Levard, caposervizio a TF1 News e co-autore di un recente libro-verità sulle reti sociali (Facebook : mes amis, mes amours … des emmerdes ! La vérité sur les réseaux sociaux) – mostravano di sapere quello di cui parlavano, esprimevano delle considerazioni moderate, mettendo in evidenza come internet fosse pieno allo stesso tempo di promesse e di minacce, che bisognava affrontare la questione con realismo, con misura e con pragmatismo.
Le due culture
Narvic racconta che, dopo aver visto le due trasmissioni, si è chiesto: ‘’Ma che possono avere nella testa quesi giornalisti che su Arte ci hanno presentato una trasmissione così scandalosamente parziale, distorta e mal informata?’’.
Ed è tornato con la mente a quella « cultura del net », evocata recentemente sul suo blog (« La culture du net survivra-t-elle au Web de masse ? »), sulla base dei lavori di Dominique Cardon (« Vertus démocratiques de l’Internet »), per vedere a qual punto sono proprio gli usi specifici e caratteristici degli internauti ad entrare in conflitto diretto e radicale con una certa cultura del giornalismo professionale.
Le procedure del prendere parola e della legittimazione del prioprio discorso su internet sono in effetti l’ esatto contrario di quelle che caratterizzano «lo spazio pubblico tradizionale, quello della stampa, del libro, della radio e della televisione», come dice Cardon, e che giustificavano – ai loro occhi per lo meno – lo status di cui beneficiano i giornalisti professionali nella società tradizionale.
« L’ allargamento dell’ accesso allo spazio pubblico su Internet ha in qualche modo comportato un abbassamento degli obblighi di distanza che hanno fondato le forme del discorso pubblico (politica, giornalismo, mondo intellettuale) piazzandolo nell’ orizzonte regolatore della ragione, dell’ autocontrollo, dell’ argomentazione e dal distacco rispetto agli interessi particolari […] Internet ci ha insegnato che, per allargare il cerchio dell’ espressione pubblica, è necessario tollerare delle enunciazioni in prima persona, dei punti di vista stentorei e delle voci flebili, dei colpi di tosse, delle affermazioni perentorie, delle idee azzardate, poetiche, strampalate, ridicole e vibranti. »
Ed è di questa tolleranza che i nostri giornalisti su Arte hanno rifiutato di dar prova, di fronte alla diversità delle espressioni non ‘’formattate’’ che compaiono su internet, che loro non si sognano per un attimo di interrogare (chiedendosi, ad esempio, perché ci sono dei complottisti?), ma che cercano di rigettare nell’ oscurità senza alcuna discussione, facendosi così apostoli di una censura senza dibattito, di cui loro sarebbero i soli agenti, e questo in nome della democrazia, di cui loro sarebbero i soli garanti!
Il sociologo avverte:
« La duplicità ‘’distanziata’’ fra identità civile e informazione di interesse generale, che costituisce la forma legittima di espressione pubblica nella nostra concezione dello spazio pubblico occupa su internet solo un posto molto specifico, anche se molto visibile. E sarebbe pericoloso e riduttivo considerare il web a partire da questa sola prospettiva, che ne farebbe solo uno spazio di informazione, di circolazione di idee e di valutazione critica. »
I nostri giornalisti di Arte sbagliano quindi radicalmente prospettiva, immaginando internet solo come una sorta di estensione del loro dominio dell’ informazione, ma in cui verrebbero privati del ruolo indispensabile che essi vi gioca(va)no. Sbagliano ‘’solo’’ il terreno di gioco!
Sono colpito – continua Narvic – nel vedere come questa miopia li domina. Internet non è affatto quello che loro credono. Non è un semplice « spazio d’ informazione » – di cui si credono, senza dirlo, i proprietari -, ma è prima di tutto uno spazio di espressione e di socializzazione, a disposizione di tutti. E se delle opinioni non ‘’formattate’’, non convenzionali, o anche assolutamente illegali, vi diventano visibili, non significa affatto che esse non esistessero già prima. Erano semplicemente bloccate rispetto allo spazio pubblico tradizionale dai « cani da guardia » che assegnano la parola, cosa che rendeva questa espressioni artificialmente invisibili, e cioè… censurate.
In quella trasmissione su Arte – prosegue Narvic – era quasi palpabile una sorta di nostalgia del mondo prima di internet, così ben controllato dai suoi « cani da guardia », e si sentiva anche, molto nettamente, anche se restava implicito, un appello pressante a ristabili la situazione precedente, anche se si sono ben guardati dal dire come si sarebbe dovuto fare!
La perdita di uno status e di una legittimità , più che di un monopolio
Questa nostalgia, e questa ambizione, che affiorava senza mai essere esplicitamente formulata, è quella di un ritorno a quel mondo descritto da Cardon :
« Lo spazio pubblico tradizionale è il risultato di un lungo processo di professionalizzazione e di addomesticazione dei ‘parlatori’ (locuteurs), che ha dato vita alla produzione di status riservati per coloro che prendono la parola in pubblico, a una organizzazione sindacale della stampa e dell’ editoria e a degli strumenti giuridici di protezione della libertà di espressione. Stringenti regole di pubblicità amministrano un controllo a priori (il sacrosanto ruolo di gate-keeper dei media e dell’ editoria) degli enunciati prima della loro messa in visibilità . Lo spazio pubblico tradizionale era pubblico perché le informazioni rese visibili a tutti erano state sottoposte a una selezione preliminare da parte di professionisti che obbedivano a delle norme deontologiche che erano state costruite parallelamente alle norme giuridiche che permettevano di punire, rendendole invisibili, le idee contrarie a quelle regole. »
Ora, su internet non funziona così. La legittimità di esprimersi è acquisita da tutti come un dato di fatto, su un piano di uguaglianza. La legittimità dei discorsi che « emergeranno » da questo flusso incontrollabile di voci – e che per diventare visibili più degli altri verranno rilanciati, ripetuti fino a coprire il resto -, non è acquisita a priori, in funzione dello status di colui che si esprime e delle procedure che applica. Questa forma originale di legittimazione dei discorsi si costruisce su  internet a posteriori, come « conseguenza di una gerarchizzazione ex-post effettuata dagli internauti in funzione della loro posizione nella struttura della reputazione sulla Rete » dice Cardon. E’, come rileva la filosofa Gloria Origgi, il  web nel suo insieme a costituire una macchina sociale di gerarchizzazione dell’ informazione.
Per il giornalista professionale, e in particolare per quello che è situato nel punto più alto della gerarchia redazionale, il redattore capo, è molto più grave della perdita del monopolio sull’ informazione. E’ la rimessa in gioco dalle fondamenta di uno status che concederebbe a priori una legittimità esclusiva nello spazio pubblico.
Su  internet, una legittimità da ricostruire
Quello che il funzionamento di internet rimette in gioco non è tanto l’ utilità dei giornalisti stessi, il cui ruolo di raccoglitori di nuove informazioni e di verifica dell’ informazione che circola non è assolutamente messo in dubbio. E che, al contrario, è più utile e necessario che mai. Ma è il modo con cui questo ruolo viene legittimato. Non fa capo a uno status stabilito a priori, ma a una reputazione che il giornalista si costruisce da solo all’ interno stesso delle reti, nelle interazioni sociali che vi si annodano, in funzione del posto che egli acquisisce « nella struttura delle reputazioni sulla Rete ».
Per tutti quei giornalisti che « giocano il gioco di internet », perché tengono un blog, rispondono ai commenti degli internauti ai loro articoli, si creano una rete sociale su Twitter o Facebook, condividono dei link du Delicious o dei video su Youtube, tutto questo non è d’ altronde un problema. Si ritagliano loro stessi la loro reputazione online, e non sono certo i più maldestri degli internauti a farlo. E questa reputazione conferisce loro una legittimità riconosciuta dai loro pari, anche se i loro pari ora sono cambiati! Non sono più gli altri giornalisti del corpo professionale, ma sono altri internauti, senza particolare status a priori, ma che si vedono riconoscere essi stessi una legittimità online, basata sulla reputazione che essi stessi hanno contribuito a costruirsi.
Ci sono dei complottisti sulla Rete? Certamente, ma chi è legittimarto a contestarli? Quelli che ruttano su Arte, facendo capire molto semplicemente che bisogna farli tacere con la censura, o quelli che si lanciano in un vero lavoro concreto di controinchieste online e di disintossicazione dell’ opinione pubblica a proposito dell’ 11 settembre, come la redazione di Rue89?
No: i giornalisti a cui internet fa paura sono quelli che hanno più da perdere. I redattori capo che se ne stanno seduti sul loro status e la loro rete personale molto opaca di connivenze e di spinte che li ha messi là e che là li mantiene, senza preoccuparsi minimamente in nessun momento dei lettori, telespettatori… o cittadini.
E anche quelli che pensano che occorrano troppi sforzi per lanciarsi nella mischia su internet e ricostruire a partire da niente una posizione che credono acquisita; quelli che non vogliono uscire dalla loro routine e dal loro comfort; e quelli che hanno perso la voglia e la curiosità , che valgono poi più di qualsiasi diploma quando si tratta di verificare se uno è un buon giornalista.