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di Raffaele Fiengo
Abbiamo deciso di tradurre i documenti sulle torture resi pubblici da Obama per metterli a disposizione dei giornalisti e dei lettori. Si tratta di testi che sono stati solo sommariamente resi noti in Italia dai mass media. E si tratta indubbiamente di scritti importanti rispetto alla difesa dei diritti umani, anche di quelli dei detenuti sospettati di terrorismo.
I documenti che pubblichiamo sono stati resi pubblici in seguito all’azione legale intentata dall’ACLU, l’ American Civil Liberties Union, attraverso il Freedom of Information Act (il Foia) che permette a ogni cittadino, americano o straniero, di ottenere i documenti della pubblica amministrazione, pagando soltanto le spese per le fotocopie. (I giornalisti e le università non devono pagare nemmeno quelle).
Il Foia è nato in Svezia e Finlandia dopo la seconda guerra mondiale, è stato introdotto negli Stati Uniti nel 1966 e ora è diffuso in una ottantina di Paesi di tutto il mondo, compresa l’India (che ha in vigore una delle versioni più ampie). Per sapere come farlo funzionare è utile la lettura di una tesi che sarà nei prossimi giorni pubblicata sul sito di Lsdi e su quello di Giornalismo e democrazia. L’autore è il giovane ricercatore Fabio Friso, che tra l’altro ha passato un periodo a Washington per provare le regole sul campo.
In Italia il Foia non c’è. Permane in sostanza, nel nostro Paese, la vecchia regola restrittiva, in base alla quale può chiedere un atto amministrativo soltanto chi ha un “interesse legittimo†ad averlo. Un diritto di accesso ai documenti pubblici venti anni fa è stato introdotto nel nostro ordinamento. Ma questa famosa legge n.241 del 1990 è pensata per il singolo alle prese, per i casi suoi, con la pubblica amministrazione. Non nasce come diritto della comunità dei cittadini a sapere.
Una eccezione importante in verità ci sarebbe: in materia ambientale, dal 25 giugno 1998, una convenzione internazionale firmata ad Aarhus in Danimarca anche dall’Italia, dà a tutti il diritto di accedere alle informazioni che riguardano l’ambiente. Norma poco conosciuta e poco praticata dai giornalisti. La ragione c’è: è previsto uno termine di un mese (allungabile dagli enti a due mesi per il volume e la complessità dei documenti richiesti) entro il quale devono essere rilasciate le carte. Questo termine è abbastanza paralizzante per gli usi giornalistici: pensiamo agli atti relativi ai morti di Messina travolti dal fango.
In realtà la situazione italiana è pessima. Non solo sui grandi drammi, le stragi e il segreto di Stato. Da una parte la pubblica amministrazione è, quasi per natura, poco trasparente e non ottempera a questi obblighi nemmeno quando ci sono. Se faticosamente si stabilisce che gli uffici stampa pubblici debbono essere coperti da giornalisti neppure allora ciò si traduce immediatamente in un lavoro volto alla conoscenza da parte dei cittadini. La vocazione al ruolo di portavoce è assai forte.
Molti anni fa, dovevo fare per un settimanale una inchiesta sui treni sporchi. Chiesi invano di avere una copia dei capitolati di appalto con gli specifici obblighi delle imprese di pulizia. Un muro, anche se erano ovviamente strapubblici. Finii per rubarne una copia da un cassetto della Stazione Termini. Scoprii così che ogni treno doveva essere pulito da cima a fondo, compresa la lucidatura degli ottoni, prima di ogni partenza. Nella realtà , riscontrata con i miei occhi, le cose funzionavano così: un signore, all’uscita della stazione accanto ai binari, contava le vetture dei treni che passavano in partenza e tutti venivano dati per puliti e lucidati con relativo pagamento milionario. (Questa storia, ahimè, finì miseramente perché l’inchiesta di dodici pagine fu ridotta a tre in tipografia per intervento del proprietario-direttore su richiesta delle Ferrovie). Non si tratta di vicende solo del passato. Un mese fa su un vagone letto di prima classe in arrivo a Milano da Parigi sono state trovate molte zecche.
Il giornalismo italiano è più dedito alle opinioni che ai fatti. E non ha, salvo eccezioni, l’abitudine di lavorare sui documenti. Spesso supplisce, su questo terreno, con qualche magistrato amico, con funzionari e gole profonde e il tutto confluisce normalmente nell’informazione schierata. Le imprese editoriali non coltivano l’indipendenza. Nella migliore delle ipotesi cercano una equidistanza quantitativa. Non chiedono ai loro giornalisti di fornire gli elementi per il processo di formazione dell’opinione pubblica.
Anche per indicare una strada presentiamo questi testi. Sono informazioni materiali, scomode e fastidiose, imbarazzanti. Toccano un campo delicato, la sicurezza nazionale. Proprio in questi giorni Obama, sotto le minacce concrete degli attentati, ha detto che gli Stati Uniti sono in guerra con Al Qaeda dovunque si trovi, ma ha subito aggiunto, chiaro e netto, che non porterà il suo Paese fuori dai valori fondanti. Rispetterà i diritti umani dei sospettati di terrorismo. Chiuderà Guantanamo.
È il giornalismo a scoprire e denunciare le torture. Ma è lo Stato, poi, a permettere che i dettagli delle violazioni commesse, gli atti che li hanno autorizzati, diventino pubblici.
Questo è il rapporto diretto tra il giornalismo e la democrazia. Per questo i testi dei documenti sulle torture sono un contributo cognitivo, ma anche l’indicazione di un metodo. Il giornalismo passa da qui.
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(p.r.) – I quattro pareri legali sono introdotti da un articolo di Matteo Bosco Bortolaso, che da New York ha seguito tutta la vicenda, e corredati da una scheda sugli ultimi sviluppi politico-giudiziari e dall’ articolo del New York Times che nell’ aprile scorso aveva accompagnato la pubblicazione dei documenti spiegandone genesi e taglio.
La traduzione dei memorandum è stata curata da Valentina Barbieri, Matteo Bosco Bortolaso, Barbara Di Fresco, Andrea Fama e Anna Martini.
Ecco i materiali: