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Nel Newseum di Washigton Carl Bernstein come Tiepolo

Impressioni su una visita al Museo dell’ informazione di Washington – Grande magnificenza ma, quando si esce, una profonda tristezza per essere finiti dentro un memoriale che celebra il giornalismo come se fosse ormai tramontato – Come succede in tutti i musei di storia dell’arte, infatti, si esce dal Newseum con un’impressione di essere stati in un tempio della conservazione della storia del passato e non di un istituto che propone una formazione di una strada per il futuro

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di Giulia Dezi

Due anni fa a Washington è stato inaugurato il Newseum, il magnifico museo della storia dell’informazione. Con una particolare attenzione rivolta al giornalismo e all’impatto della professione nel corso della storia, i sette piani del fantasmagorico palazzo offrono ai visitatori la possibilità di imparare a capire meglio l’importanza del ruolo dei media e dei diritti e delle responsabilità che sono connesse alla libertà di espressione.

Cinque secoli di storia del giornalismo sono miscelati insieme a tecnologie dell’ ultimo minuto e, come in qualsiasi museo americano che si rispetti, l’interattività e la didattica sono i veri pezzi forte dell’esibizione. Gallerie dedicate alla caduta del muro di Berlino, all’attacco dell’11 settembre, ai Pulitzer del fotogiornalismo, alla storia di Internet e Tv, solo per citarne alcune, si alternano a sale cinematografiche, mostre temporanee e sale interattive per giocare.

Entrando dentro al museo, uno dei pochissimi a Washington a pagamento, l’ impressione è subito di una grande magnificenza, veramente ad effetto. All’ interno il materiale è così abbondante che il museo stesso offre una guida, di solito un pensionato volontario, in grado di aiutare il visitatore a capire quali sono i punti focali che non possono essere persi nel frastuono della quantità di informazioni.

Da non perdere, ad esempio, la maxi cartina del mondo, sulla quale le nazioni sono colorate a seconda del grado di libertà di stampa – interessante sapere che dal 2009 l’Italia è gialla, ovvero  parzialmente libera, allo stesso livello di Mozambico, Colombia e Tailandia.

Molto commovente è la sezione dedicata ai giornalisti morti per aver compiuto il proprio dovere e sicuramente coinvolgente la galleria che ogni giorno espone molte delle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo.

Tutti i dettagli sulle offerte del Newseum sono su moltissimi siti, tra cui anche questo di Marco Pratellesi.

Niente da discutere sull’importanza di un luogo che rivendica la necessità di ricordare a tutti i cittadini l’importanza del primo emendamento della costituzione statunitense, che garantisce la libertà di stampa, di religione e di parola, e che ha permesso ai giornalisti americani di fare il loro lavoro.

Peter Pritchard il presidente del museo ha dichiarato che “i visitatori arriveranno al museo come turisti, ma lo lasceranno come cittadini meglio informati”. Sicuramente.

E di certo non si può non notare sulla maestosa facciata la gigante tavola di marmo, 50 tonnellate per 22,5 metri di altezza, su cui è inciso in stile biblico il testo completo del First Amendment.

Il punto di questo museo, come hanno scritto sul New York Times, infatti, è proprio quello di essere notato.

Però, c’è da dire di più. Se quando si entra si viene rapiti e ci si trasforma in bambini curiosi e felici, quando si esce si lasciano alle spalle pensieri amari. Nonostante tutto il lusso e la ricchezza di questa istituzione, si saluta il museo con una tristezza infinita: la sensazione è quella di aver lasciato alle spalle non solo un luogo culturale, ma un’intera epoca.

Il sospetto di essere finiti dentro un memoriale di qualcosa del passato è innegabile. Come succede in tutti i musei di storia dell’arte, infatti, si esce dal Newseum con un’impressione di essere stati in un tempio della conservazione della storia del passato e non di un istituto che propone una formazione di una strada per il futuro.

Il Newseum, con una vista incredibile sulla bianca cupola del Capitol, è situato sulla famosa Pennsylvania Avenue, di fronte alla National Gallery of Art e vicino all’Archivio Nazionale.

Costruito dalla fondazione privata Freedom Forum, con un notevole supporto di una serie di organizzazioni giornalistiche, il museo cerca infatti di presentarsi, alla stregua dei suoi illustri vicini, come un’istituzione pubblica.

Quindi, lo scopo di questa istituzione è una valorizzazione del nostro passato per poter andare coraggiosamente avanti verso il futuro?

Il presentimento è un altro: non ci sono pezzi di San Pietro al British Museum, ma del Partenone.

Insomma, da quand’è che la fruizione degli articoli dello scandalo Watergate è paragonabile a quella che si ha di fronte ad un ritratto del XVIII secolo?

Questo è quello che scrive lo scienziato cognitivo Francesco Antinucci nel suo saggio “Comunicare nel museo”:

«Bisognerebbe smettere di usare termini, del tutto impropri, come “valorizzazione” e “valorizzare”: non si tratta di conferire valore a ciò che non lo ha o di aumentare quello che già ha: gli “oggetti culturali” non sono beni […] Si tratta di metterli in condizione di svolgere la funzione per la quale sono stati concepiti e generati. Nient’altro. Qualsiasi altra esigenza, per quanto legittima, dovrebbe venire dopo questa, che è il semplice rispetto della loro natura».

Poter mostrare la storia della nostra civiltà non incarna mai un elemento di demerito. Il punto però è che avremmo bisogno anche di istituzioni pubbliche che lavorino a favore di una costruzione viva e  continua di quella stessa democrazia mostrata in un museo.

E perché no, magari anche sulla rete stessa.

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