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Nessun segreto: la missione di Julian Assange per la trasparenza totale

Pubblichiamo in traduzione italiana un interessante ritratto del fondatore di WikiLeaks delineato nei giorni scorsi dal New Yorker, che lo descrive così: “capelli bianchi e spettrali, la pelle pallida, gli occhi freddi e la fronte ampia, sotto le luci di uno studio televisivo sembra un’entità sbarcata sulla terra per diffondere all’umanità una qualche forma di verità segreta. Questa impressione è accresciuta dal suo rigido contegno e dalla sua voce baritonale, che scivola via dalle labbra lentamente, a basso volume” – Australiano, figlio di una donna radicalmente anticonformista, una vita di costante nomadismo, dalla fuga con la madre alle prime esperienze di hacker fino alla costituzione di WikiLeaks (i ‘leaks’, le fughe di notizie, come strumento di guerra dell’ informazione), Assange continua a nascondersi lontano dagli Usa – Ora, dalla “clandestinità” spiega che i suoi legali stanno ‘trattando’ con l’ amministrazione Obama, che da settimane sta tentando di individuarlo e di bloccare la pubblicazione di un nuovo video molto compromettente per le forze armate Usa – WikiLeaks, racconta Raffi Katchadurian sulla rivista newyorkese, “non è esattamente un’organizzazione, ma piuttosto si tratta di un’insorgenza mediatica. Non ha personale a libro paga, così come non ha una fotocopiatrice, una scrivania né un ufficio – Assange è il motore di ogni operazione, e si può ben dire che l’esistenza di WikiLeaks dipende da ciò che fa lui. Allo stesso tempo, però, centinaia di volontari di tutto il mondo danno una mano a mantenere la complessa infrastruttura del sito; molti di loro collaborano in piccole dosi, ma ci sono tra le tre e le cinque persone che si curano WikiLeaks a tempo pieno. I membri chiave si conoscono solo tramite le iniziali (M, ad esempio) anche all’interno di WikiLeaks, dove le comunicazioni avvengono attraverso servizi di chat online criptati – La segretezza deriva dal fatto che un gruppo di intelligence di natura populista che virtualmente non vanta nessuna risorsa e che è rivolto a rendere pubbliche le informazioni che istituzioni molto potenti voglio tenere riservate, probabilmente avrà avversari temibili – Così WikiLeaks mantiene i propri contenuti su oltre venti server in tutto il mondo e su centinaia di domini differenti – Le spese sono sostenute grazie alle donazioni, e qualche buon cuore indipendente realizza sempre qualche sito di supporto

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Julian Assange ha annunciato in una intervista al Daily Beast che continuerà a restare lontano dagli Stati Uniti (per ora indefinitamente) mentre i suoi avvocati hanno aperto una linea di comunicazione a Washington con l’ amministrazione Obama in relazione al progetto del sito di Wikileaks (di cyui Aassange è fondatore)  di diffondere un nuovo video segreto del Pentagono che testimonierebbe una strage compiuta dall’ aviazione americana in Afghanistan l’ anno scorso.

Assange ha spiegato che l’ iniziativa dei suoi avvocati nasce in relazione alle dichiarazioni di esponenti governativi e di notizie di stampa secondo cui gli Stati Uniti lo stavano cercando in tutti i modi anche per cercare di impedire a Wikileaks di pubblicare quel video e numeroso altro materiale coperto da segreto che aveva in custodia in Kuwait, Bradley Manning,  un giovane analista dei servizi segreti Usa arrestato ai primi di giugno.

“La legge può essere usata in modi anche poco rituali se c’ è la volontà politica di farlo”, ha spiegato Assange. “C’ è una lunga storia di abusi nei procedimenti penali”.

Sulla vicenda (vedi anche Lsdi, Il bottino di guerra di Wikileaks sulle spalle di apprendisti spie cinesi) pubblichiamo la traduzione dell’ eccitante e misterioso ritratto di Assange pubblicato nei giorni scorsi dal New Yorker, un articolo-racconto nella migliore tradizione della rivista newyorkese.

Una intervista ad Assange è stata realizzata in questi giorni anche da Raffaele Mastrolonardo per il Manifesto.
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Nessun segreto. La missione di Julian Assange per la trasparenza totale.

di Raffi Khatchadourian

(New Yorker, 7 giugno, 2010)

(traduzione a cura di Andrea Fama)

La casa su Grettisgata, a Reykjavik, ha circa un secolo, è piccola e bianca e si trova a pochi passi dall’Atlantico. I venti del Nord sono in grado di portare all’improvviso ghiaccio e neve in città, anche in primavera, e quando accade l’aria si carica di un silenzio particolare.

Proprio questo era lo scenario nel corso della mattinata del 30 marzo, quando un alto australiano di nome Julian Paul Assange – occhi grigi e sottili capelli bianchi – arrivò sul luogo accompagnato da un piccolo entourage.

“Siamo giornalisti”, dichiarò al proprietario della casa. Il vulcano Eyjafjallajökull aveva appena iniziato ad eruttare, e così aggiunse: “Siamo qui per scrivere sul vulcano”. Una volta che il proprietario lasciò l’abitazione, Assange accostò rapidamente le tende, e si assicurò che rimanessero chiuse giorno e notte. La casa, per quanto lo riguardava, sarebbe diventata una sala da guerra: il bunker, la chiamavano. In una stanza arredata in modo spartano furono installati una mezza dozzina di computer. Alcuni attivisti islandesi si misero al lavoro, più  o meno alle direttive di Assange, per tutto il giorno. Erano tutti concentrati sul Progetto B – il nome in codice che Assange aveva assegnato ad un video di 38 minuti girato in Iraq nel 2007 da un elicottero militare Apache. Il video mostrava militari americani mentre uccidevano almeno 18 persone, tra cui due giornalisti della Reuters; in seguito divenne un evento largamente controverso, ma all’ epoca si trattava ancora di un segreto militare strettamente riservato.

Assange è un trafficante internazionale (o almeno una sorta). Lui e i suoi colleghi raccolgono documenti ed immagini confidenziali per governi ed istituzioni e li pubblicano sul sito Web www.wikileaks.org. Dal lancio online di tre anni e mezzo fa, il sito ha pubblicato un ampio elenco di materiale segreto, dalle procedure adottate presso il Camp Delta (Standard Operating Procedures) di Guantanamo alla corrispondenza digitale del cosiddetto “Climategate”, inoltrate dalla University of East Anglia verso l’account privato Yahoo! di Sarah Palin.  L’ elenco in questione è particolarmente significativo poiché WikiLeaks non è esattamente un’organizzazione, ma piuttosto si tratta di un’insorgenza mediatica. Non ha personale a libro paga, così come  non ha una fotocopiatrice, una scrivania né un ufficio. Assange non ha neanche una casa. Si limita a viaggiare Paese per Paese, ospite di sostenitori o di amici di amici -  come egli stesso ebbe a dire una volta: “ultimamente vivo negli aeroporti”. È il motore di ogni operazione, e si può ben dire che l’esistenza di WikiLeaks dipende da ciò che fa Assange. Allo stesso tempo, però, centinaia di volontari di tutto il mondo danno una mano a mantenere la complessa infrastruttura del sito; molti di loro collaborano in piccole dosi, ma ci sono tra le tre e le cinque persone che si curano WikiLeaks a tempo pieno. I membri chiave si conoscono solo tramite le iniziali – M, ad esempio – anche all’interno di WikiLeaks, dove le comunicazioni avvengono attraverso servizi di chat online criptati. La segretezza deriva dal fatto che un gruppo di intelligence di natura populista che virtualmente non vanta nessuna risorsa e che è rivolto a rendere pubbliche le informazioni che istituzioni molto potenti voglio tenere riservate, probabilmente avrà avversari temibili.

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Il Project B

L’Islanda è stato il posto naturale in cui sviluppare Project B. L’anno scorso, proprio in Islanda, Assange ha collaborato con politici e attivisti per redigere una legge sulla libertà d’espressione di impatto senza precedenti (approvata nei giorni scorsi all’ unanimità, ndr), ed un certo numero di quelle stesse persone ha accettato di aiutarlo a lavorare sul video in totale segretezza. Il video era molto potente – una rappresentazione senza filtri delle ambiguità e crudeltà della guerra moderna – e Assange sperava che pubblicandolo si sarebbe scatenato un dibattito mondiale sui conflitti in Iraq e Afghanistan.. Aveva pianificato di svelarne il contenuto davanti ad una platea di giornalisti presso il National Press Club di Washington, il 5 aprile, la mattina successiva alla domenica di pasqua, un giorno probabilmente un po’ fiacco dal punto di vista delle notizie. Per raggiungere quanto pianificato, lui e gli altri membri della community di WikiLeaks avrebbero dovuto analizzare il video nella sua forma grezza, editarlo rendendolo un breve filmato, realizzare un sito Web dedicato per diffonderne la visione, lanciare una campagna mediatica e preparare la documentazione per il prodotto finale – tutto questo in meno di una settimana.

Assange voleva anche essere certo che, una volta postato, il video fosse impossibile da rimuovere. Mi ha rivelato che WikiLeaks mantiene i propri contenuti su oltre venti server in tutto il mondo e su centinaia di domini differenti. (Le spese sono sostenute grazie alle donazioni, e qualche buon cuore indipendente realizza sempre qualche sito di supporto). Assange definisce il sito “un sistema incensurabile per documenti di massa irrintracciabili e analisi pubbliche”, e un governo o un’azienda intenzionati a rimuoverne il contenuto sarebbero praticamente costretti a smantellare l’intera Rete per farlo. Finora, anche se il sito ha ricevuto oltre un centinaio di minacce legali, quasi nessuno ha intentato una causa. I legali della banca britannica Northern Rock hanno minacciato di fare causa dopo che il sito aveva pubblicato un imbarazzante memo, ma erano ormai ridotti all’indigenza. Anche un politico keniano aveva minacciato ritorsioni legali dopo che Assange aveva pubblicato un rapporto confidenziale in cui si sostiene che il Presidente Daniel Arap Moi ed i suoi colleghi avessero portato miliardi di dollari fuori dal Paese. Il lavoro svolto in Kenya è valso al sito un premio da parte di Amnesty Internationl.

Assange generalmente manda al diavolo i potenziali attaccabrighe. Nel 2008, WikiLeaks ha pubblicato alcuni manuali segreti di Scientology, e i legali che rappresentano la comunità avevano richiesto che i contenuti venissero rimossi. La risposta di Assange è stata quella di pubblicare altro materiale riservato e di annunciare che “WikiLeaks non si piegherà a richieste abusive di natura legale da parte di Scientology né più né meno di quanto non abbia fatto con le banche svizzere, con i centri russi di cellule staminali offshore, con gli ex cleptocrati africani o con il Pentagono”.

Quando scrive online, specie su Twitter, Assange attacca seccamente quelli che percepisce come nemici. Al contrario, in televisione, dove appare più di frequente, si comporta con un incredibile sangue freddo. Con i suoi capelli bianchi e spettrali, la pelle pallida, gli occhi freddi e la fronte ampia, sotto le luci di uno studio televisivo sembra un’entità sbarcata sulla terra per diffondere all’umanità una qualche forma di verità segreta. Questa impressione è accresciuta dal suo rigido contegno e dalla sua voce baritonale, che scivola via dalle labbra lentamente, a basso volume.

In privato, tuttavia, Assange è spesso confusionario ed energico. È in grado di concentrarsi intensamente anche se intorno c’ è baccano, ma è il tipo di persona capace di dimenticare di prenotare un biglietto aereo, o prenotarlo e dimenticare di pagarlo, o pagarlo e dimenticare di andare all’aeroporto. Le persone che gli stanno attorno sembrano volersi prendere cura di lui; sembrano volersi assicurare che si trovi lì dove debba trovarsi. A tratti, sembra che la notevole influenza di cu gode non dipenda da lui.

Seduto ad un tavolo di legno nel bunker Assange sembrava esausto. Lavorava di fronte a due computer – uno online e l’ altro disconnesso dalla Rete poiché pieno zeppo di documenti militari segreti (Assange nutre preoccupazioni da analista di cyber-securty in merito alla vulnerabilità dei computer e prende abitualmente precauzioni per allontanare visite indesiderate). L’intera comunità di WikiLeaks soffre di una leggera paranoia. Lo stesso Assange racconta di aver dovuto allontanare degli sconosciuti che avevano tentato di scattargli una foto per motivi di sorveglianza. A marzo, ha pubblicato un rapporto militare segreto, creato nel 2008 dall’Army Counterintelligence Center, in cui si sosteneva che il sito costituisse una potenziale minaccia per l’esercito e si delineavano brevemente alcune vie deterrenti affinché i funzionari pubblici non facessero trapelare documenti in favore del sito. Assange considerò il rapporto come una dichiarazione di guerra e lo pubblicò con il titolo “L’Intelligence statunitense pianifica di distruggere WikiLeaks”. Durante un viaggio per una conferenza prima di entrare nel bunker, Assange pensava di essere seguito e il suo timore iniziò ad infettare anche altri. “Sono stato in Svezia e ho frequentato una ragazza (redattrice esteri di un giornale del Paese) che divenne così paranoica circa il fatto che la CIA mi stesse seguendo che se n’è andata di casa lasciandomi solo”, ha dichiarato.

Assange sedeva di fronte a Rop Gonggrijp, un attivista, hacker e imprenditore olandese. Gonggrijp consoce bene Assange da diversi anni. Aveva notato la preoccupazione di Assange circa il fatto di essere seguito e aveva deciso che ci fosse bisogno del suo aiuto. “Julian riesce ad andare avanti nonostante le poche ore di sonno o il grande caos che ha intorno, ma anche lui ha dei limiti e potevo vedere che stava chiedendo troppo a sé stesso”, mi ha rivelato Gonggrijp. “Così ho deciso di farmi avanti e di ristabilire la situazione”. Gonggrijp divenne il manager e tesoriere non ufficiale del Porject B, anticipando circa 10 mila euro a WikiLeaks perché portasse avanti il progetto. Ha gestito i collaboratori, si è assicurato che la cucina fosse fornita e che il Bunker fosse in ordine.

Attorno alle tre del pomeriggio una parlamentare islandese di nome Birgitta Jonsdottir  entrò nel Bunker e lanciò ad Assange una maglietta di WikiLeaks: “tieni, hai bisogno di cambiarti”, disse.

Birgitta Jonsdottir è stata in parlamento per circa un anno, ma si considera una poetessa, artista, scrittrice e attivista. Le sue inclinazioni politiche sono principalmente anarchiche. “Ero sostanzialmente disoccupata prima di trovare questo lavoro”, mi spiega. “Quando siamo entrati per la prima volta in parlamento la cosa sembrava così grande: noi siamo persone che hanno sempre protestato contro il parlamento, eravamo dei rivoluzionari, e oggi siamo dentro. Nessuno di noi aveva aspirazioni di diventare parlamentare. Abbiamo una lista di cose da fare, e una volta portate a termine il nostro lavoro è concluso, torneremo fuori”.

Mentre prendeva dalla borsa il suo computer, Jonsdottir chiese ad Assange come pensava di ripartire il lavoro per Project B. Vi erano altri attivisti islandesi in arrivo; erano circa una dozzina e avrebbero contribuito al video, mentre altrettanti volontari di WikiLeaks avrebbero preso parte al al voro. Assange suggerì che qualcuno di loro prendesse contatti con Google per assicurarsi che YouTube pubblicasse il filmato.

“È per garantire che non lo tolgano una volta sotto pressione?”, domandò Birgitta Jonsdottir.

“Hanno una regola circa la violenza gratuita”, rispose Assange. “In questo caso la violenza non è gratuita, ma è successo che abbiano tolto dei filmati in precedenza. E’ troppo importante perché qualcuno interferisca”.

“Su cosa possiamo impiegare M?”, domandò. Assange, immerso nel suo lavoro, non rispose.

Le sue preoccupazioni circa lo stato di sorveglianza non si erano del tutto placate. Il 26 marzo aveva scritto un’e-mail esplosiva dal titolo “C’è del marcio nello Stato islandese”,  nella quale raccontava la vicenda di un adolescente islandese volontario di WikiLeaks detenuto dalla polizia locale per più di 20 ore. Il volontario era stato arrestato per aver tentato di introdursi nella fabbrica in cui lavorava il padre – “le ragioni per cui stava tentando di introdursi lì dentro non sono del tutto giustificate”, mi spiega Assange – e ha dichiarato che durante lo stato di fermo è stato interrogato in merito al Project B. Assange sostiene che durante l’interrogatorio gli abbiano mostrato alcune foto che “mi ritraevano all’esterno di un ristorante di Reykjavik, l’Icelandic Fish & Chips”, dove i membri di WikiLEaks avevano tenuto una riunione operativa in una sala privata sul retro.

La polizia negava i passaggi chiave del racconto del volontario, e Assange cercava di saperne di più. Ricevette una chiamata e dopo qualche minuto riattaccò. “Il nostro giovane amico ha parlato con uno dei poliziotti”, disse. “Stavo per saperne di più ma la batteria del mio cellulare è morta”. Sorrise e guardò con sospetto al suo telefono.

“Siamo tutti dei paranoici schizofrenici”, disse Jonsdottir. Fece segno ad Assange, che ancora indossava la sua tuta da neve: “Basta guardare come si veste”.

Gonggrijp si alzò, andò alla finestra e aprì le tende per dare uno sguardo fuori.

“Qualcuno?”, domandò Jonsdottir.

“Solo il furgone con la telecamera”,disse in tono piatto. “Il furgone della manipolazione cerebrale”.

Verso le sei del pomeriggio Assange si alzò dalla sua postazione. Reggeva un hard-drive contenente Project B. Il video – estratti da un filmato ripreso da un telecamera montata a bordo di un elicottero Apache – ritraeva soldati impegnati in un’operazione ad est di Baghdad, non molto dopo l’inizio delle ostilità. Rifacendosi al Freedom of Information Act, la Reuters aveva cercato per tre anni di ottenere il video dall’esercito, ma senza successo. Assange non avrebbe rivelato la sua fonte, limitandosi a dire che si trattava di qualcuno contrario all’attacco. Il video era criptato digitalmente e ci sono voluti tre mesi perché WikiLeaks riuscisse a crackarlo. Assange, crittografico dalle doti eccezionali, dice che decriptare il file è stato “moderatamente difficile”.

Una piccola folla si radunò di fronte al computer per guardare il video. In un bianco e nero sgranato, si vedeva l’equipaggio dell’Apache – Reggimento Ottavo Cavalleggeri -  mentre sorvola Baghdad insieme ad un altro elicottero. Un grandangolo inquadrava la cupola di una moschea. Potevamo vedere edifici, palme e strade abbandonate. Potevamo sentire i rumori radio e le comunicazioni tattiche, infarcite di cinica ironia. Due soldati stavano comunicando; le prime parole udibili nella registrazione sono “Ok, ho capito”. Assange fermò la riproduzione e disse: “Questo video mostra diverse persone uccise”. Il filmato consisteva in tre fasi: “Nella prima fase, si vede un attacco basato su un errore, un errore davvero dovuto alla superficialità. Nella seconda fase l’attacco è chiaramente un omicidio, secondo la definizione di una qualunque persona normale. E nella terza fase si assiste all’uccisione di civili mentre i militari inseguono dei target legittimi”.

La prima fase era da pelle d’oca, in parte perchè il cinico disincanto dei soldati andava ben oltre i confini della conversazione civile. L’equipaggio dell’Apache sorvolava una dozzina di uomini che procedeva a passo lento a circa un isolato dalle truppe americane, e secondo i membri dell’Apache cinque o sei di loro erano armati di AK-47; mentre l’Apache si metteva in posizione per fare fuoco, l’equipaggio vide uno dei  giornalisti della Reuters, che camminava tra quegli uomini, e scambiò il suo teleobiettivo per un RPG. L’Apache aprì il fuoco su quegli uomini per 25secondi, uccidendoli quasi tutti praticamente all’istante.

La seconda fase iniziava subito dopo. Mentre l’elicottero sorvolava la carneficina, l’equipaggio aveva notato un superstite ferito dimenarsi a terra. L’uomo sembrava disarmato. “Prova solo a prendere in mano un’arma”, disse un militare sull’Apache. D’un tratto, un furgone entrò nella visuale e tre uomini disarmati si affrettano a prestare soccorso al ferito. “Ci sono persone accorse sulla scena, sembra che vogliano raccogliere i corpi e le armi”, riferirono dall’Apache, sebbene quegli uomini stessero solo aiutando un superstite e non si curassero delle armi. L’Apache fece fuoco, uccidendo i soccorritori ed il superstite, e ferendo due bambini che sedevano sui sedili anteriori del furgone.

Nella terza fase, l’Apache comunicava via radio ad un comandante che almeno sei uomini armati erano entrati in un edificio fatiscente che si trovava in un’area urbana densamente popolata. Alcuni di loro era possibile che si stessero ritirando da uno scontro con truppe americane, ma non era chiaro. L’Apache chiese il permesso di attaccare la struttura, che sembrava abbandonata: “Potremmo centrarla con un missile”, comunicarono dall’elicottero, ed il permesso fu prontamente accordato. Un attimo dopo, due persone disarmate entrarono nell’edificio. Sebbene i militari ne fossero consapevoli, l’attacco proseguì: tre missili Hellfire distrussero la struttura. I passanti si ritrovarono inghiottiti da una nube di detriti.

Assange giudicava le immagini in termini morali inflessibili, sebbene il filmato non offrisse elementi legali cui appigliarsi. Nel mese precedente al video, un battaglione del Sedicesimo Reggimento di Fanteria aveva subito oltre 150 attacchi, 19 feriti e 4 morti; quella stessa mattina l’unità aveva subito attacchi di artiglieria leggera. I soldati dell’Apache erano pragmatici circa le uccisioni e parlavano con asprezza delle loro vittime, ma il primo attacco poteva essere giudicato un tragico malinteso. L’attacco al furgone era discutibile  – l’uso della forza non sembrava né ponderato ne moderato – ma i soldati sono autorizzati a sparare ai combattenti, anche quando assistono dei feriti, e si poteva obiettare che l’equipaggio, in quel momento di tensione, avesse ragionevolmente pensato che gli uomini del furgone stessero assistendo il nemico. La terza fase poteva essere considerata fuori legge, forse omicidio o peggio. Sparare dei missili contro un edificio, in pieno giorno, per uccidere sei persone che non erano di importanza strategica pareva costituire un uso smodato della forza. L’attacco sembrava condotto con leggera deliberazione, e non è chiaro perché l’esercito non abbia avviato delle indagini.

Assange aveva ottenuto gli atti dell’operazione interni all’ esercito, in cui si sosteneva che tutte le vittime, ad eccezione dei giornalisti della Reuters, erano insorgenti. E il giorno successivo all’attacco un portavoce dell’esercito aveva dichiarato: “Non vi è dubbio che le Forze di Coalizione siano state ingaggiate in operazioni di combattimento contro forze ostili”. Assange sperava che Project B screditasse la versione dei fatti ufficiale dell’esercito. “Questo video mostra cosa sia oggi un moderno scenario di guerra e, a giudicare dalle immagini, chiunque senta di un certo numero di vittime a seguito di scontri con supporto aereo potrà comprendere cosa stia succedendo”, affermò nel Bunker. “Dal video è chiaro che i civili vengono catalogati automaticamente come insorgenti, a meno che non si tratti di bambini, e che i passanti non vengono neanche menzionati”.

WikiLeaks riceve circa 30 documenti al giorno, e di solito pubblica quelli che ritiene essere credibili nella loro forma grezza, corredandole con un commento. “Voglio istituire un nuovo standard: il giornalismo scientifico”, mi ha confidato Assange. “Se pubblichi uno studio sul DNA, ogni valida pubblicazione del settore ti richiede i dati alla base della ricerca – l’obiettivo è quello che le persone possano replicare tali dati, controllarli e verificarli. Ebbene, lo stesso dovrebbe accadere anche per il giornalismo tradizionale. Vi è infatti un immediato squilibrio di potere, poiché i lettori non sono in grado di verificare ciò che gli viene raccontato, e questo determina degli abusi”.Visto che Assange pubblica il materiale da cui parte un’ inchiesta, ritiene che WikiLeaks sia libera di proporre una sua analisi, non importa quanto essa sia speculativa. Nel caso di Project B, Assange vuole lavorare il filmato grezzo per produrre un breve video quale mezzo per un commento. Per un po’ ha pensato di chiamare il video “Permission to Engagé” (permesso di ingaggiare uno scontro a fuoco, NdT), ma poi ha optato per qualcosa di più potente: “Collateral Murder” (omicidio collaterale, NdR). Ha detto a Gonggrijp: “Vogliamo sbarazzarci di questo eufemismo del ‘danno collaterale’, così ogni volta che qualcuno utilizzerà il termine si penserà a ‘omicidio collaterale’”.

Nella sua forma originale il video era un puzzle – un frammento di prova disgiunto dal contesto. Assange e i suoi ragazzi del Bunker hanno impiegato gran parte del proprio tempo cercando di metterne insieme i pezzi: l’unità coinvolta, la sua struttura di comando, le regole di ingaggio, il gergo dei soldati via radio e, cosa più importante, se gli iracheni a terra fossero armati o meno.

“Uno di loro ha un’arma”, disse Assange guardando ad un immagine sfuocata degli uomini in strada. “Guarda tutte quelle persone ferme in quel punto”.

“E c’è un ragazzo con un RPG in spalla”, aggiunse Gonggrijp.

“Non sono sicuro”, continuo Assange. “Sembra solo vagamente un RPG”. Riprodusse di nuovo il video. “Ti dico cosa c’è di strano: se si tratta di un RPG, allora ce n’è solo un uno. Dove sono tutte le altre armi? Tutte quelle persone. È molto strano”.

Il lavoro forense era reso più difficoltoso dal rifiuto di Assange di discutere la faccenda con i militari. “Ho pensato che fosse più deleterio che altro. Ho avuto a che fare con loro in precedenza e, non appena sentono che si tratta di WikiLeaks non è che diventino troppo collaborativi”. Assange stava conducendo Project B come un attacco a sorpresa. Aveva diffuso una voce secondo cui il video fosse stato girato nel 2009 in Afghanistan, nella speranza che il Dipartimento della Difesa fosse colto impreparato. Assange non crede che i militari agiscano in buona fede con i media. Mi disse: “Che diritto ha questa istituzione a vedere il filmato prima che sia pubblicato?”.

Questa mentalità ostile permeava il bunker. Più tardi, quella stessa notte, un attivista domandò se Assange potesse venire arrestato una volta arrivato negli Stati Uniti.

“Se mai c’è stato un momento in cui potrei andare tranquillo negli USA, è adesso”, lo rassicurò Assange.

“Dicono che Gitmo sia molto bella in questo periodo dell’anno”, disse Gonggrijp.

Il lavoro era molto intenso. Oltre a gestire l’ attività dei volontari, i problemi tecnici ed i finanziamenti, Assange voleva che le famiglie delle vittime dell’attacco fossero contattate, in modo da prepararsi all’attenzione mediatica, ma anche per ottenere qualche informazione in più. Insieme all’emittente nazionale islandese, RUV, inviò due giornalisti a Baghdad per rintracciarle.

Alla fine della settimana il lavoro era stato minuziosamente completato, rivelando dettagli – un corpo a terra, ad esempio – che non erano visibili ad un’occhiata più superficiale. “Analizzare gli ultimi attimi di vita di queste persone è stato terribile”, sostenne un attivista. Assange aveva dovuto tagliare la fase riguardante i missili Hellfire: quell’attacco non aveva la dimensione umana degli altri, e lui pensava che il pubblico potesse essere sovraccaricato di informazioni.

La versione definitive del video durava 18 minuti ed iniziava con una citazione di Gorge Orwell scelta da Assange ed M: “Il linguaggio politico è fatto per far sembrare veritiere le menzogne e rispettabile l’omicidio, e per dare al vento una parvenza di solidità”. Poi dava informazioni sui giornalisti uccisi e sulla risposta ufficiale all’attacco. L’audio di questa sezione del video aveva in sottofondo gli ironici scambi radio dei soldati. Nel rivedere il video, un attivista di nome Gudmundur Gudmundsson disse che i commenti dei soldati potevano far sì che il pubblico “creasse un legame emotivo” con i soldati. Assange ribattè che per lo più era frammentario e disturbato, ma Gudmundsson insistette: “Usano di continuo questa tecnica per suscitare slanci emotivi”.

“Noi però li dipingiamo come mostri”, obiettò qualcuno.

“Si, ma l’emozione ha sempre la meglio”, continuò Gudmundsson. “Oltretutto, ho lavorato al suono per un film, ‘Children of Nature’, che ha ricevuto una nomination agl Oscar, quindi parlo per esperienza”.

“Bene, qual è la tua alternativa?”; domandò Assange.

“Fondamentalmente esplosioni di suono che interrompano il silenzio”, disse.

L’idea fu approvata: i commenti dei soldati furono sostituiti da rumori radio. Assange diede l’ok finale.

Sabato era già tarda notte quando, poco prima che il lavoro dovesse essere terminato, i giornalisti inviati a Baghdad inviarano una mail ad Assange: avevano trovato i bambini del furgone. I bambini vivevano ad un isolato dal luogo dell’attacco e quella mattina il padre li stava portando a scuola. “Ricordano il bombardamento, hanno sentito un gran dolore e poi hanno perso conoscenza”, scrisse uno dei giornalisti, i quali trovarono anche il proprietario del palazzo centrato dai missili, secondo cui la struttura ospitava delle famiglie e sette residenti vi erano morti. Il proprietario, un insegnante di inglese in pensione, aveva perso moglie e figlia. Queste novità determinarono un’intensa discussione sul da farsi: valeva la pena usare queste informazioni al National Press Club o era meglio temporeggiare? Se i militari avessero giustificato gli attacchi missilistici adducendo di non aver provocato vittime, allora WikiLeaks avrebbe risposto diffondendo le nuove notizie, in una sorta di imboscata. Jonsdottir si voltò verso Gonggrijp, i cui occhi erano gonfi.

“Stai piangendo ?”, chiese.

“Sì, ma è ok, è solo per i bambini; fa male”. Gonggrijp si ricompose. Poi, riaprendo la discussione sull’imboscata disse: “Ad ogni modo, induciamoli all’errore. Cadranno nella rete. È una risposta logica”.

Anche Jonsdottir adesso era in lacrime.

“Ora voglio rieditare il lavoro”, disse Assange. “Voglio inserire la parte con i missili. Vi erano tre famiglie che vivevano lì; non era abbandonato”. Ma era impossibile rieditare il video. Gli attivisti lavoravano a mille, ma tra poche ore sarebbe stata Pasqua.

Alle dieci e mezzo del mattino  Gonggrijp aprì le tende ed il bunker fu invaso dalla luce del sole. Rimanevano le questioni dell’ultimo minuto, tra cui trovare un penalista che li difendesse negli Stati Uniti.

“Come siamo messi coi tempi?”, chiese Assange a nessuno in particolare.

“Abbiamo tre ore”, rispose Gonggrijp.

Assange corrugò la fronte e rivolse la sua attenzione allo schermo del computer su cui stava leggendo una copia del 2006 delle regole di ingaggio segrete in Iraq, uno dei diversi documenti militari segreti con cui aveva intenzione di corredare il video. WikiLeaks ripulisce questo tipo di documenti così che non rimangano tracce digitali che possano ricondurre alla fonte. Assange stava eliminando queste tracce il più velocemente possibile.

Le strade di Reykjavik erano vuote, e le campane di una cattedrale iniziarono a suonare. Bisognava ripulire il bunker da ogni traccia del Project B prima di partire per l’aeroporto. Assange doveva ancora preparare i bagagli e radersi, e i suoi capelli erano un casino. Stava scrivendo un comunicato stampa quando Jonsdottir si avvicinò per dargli una mano. “Puoi tagliarmi i capelli mentre finisco col comunicato?”

“No”, disse Jonsdottir, ma poi si convinse e iniziò a tagliare. Intanto Gonggrijp stava mettendo alcune delle cose di Assange in un borsone. Poi saldò il conto con il proprietario. I piatti erano stati lavati. I mobili rimessi al loro posto. I volontari si infilarono in una piccola auto e in un istante la casa era di nuova vuota e silenziosa.

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Geneticamente incline al randagismo

Assange sostiene di essere geneticamente incline al randagismo. Cambia numero di telefono ed indirizzo e-mail di continuo, e tende a celare ogni dettaglio sulla sua vita. È nato nel 1971 a Townsville, sulle coste nord-orientali dell’Australia. Poco dopo il suo primo compleanno, la madre – che chiameremo Claire – sposò un direttore di teatro, e i due collaboravano a piccole produzioni. Si trasferirono spesso. Erano anticonformisti convinti e Assange ricorda la sua vita allora come un periodo alla Tom Sawyer.

La madre di Assange riteneva che l’educazione formale avrebbe inculcato nei suoi figli un rispetto insalubre per le autorità e avrebbe leso la loro voglia di apprendere. Ad ogni modo, durante i suoi primi quattordici anni di vita, la famiglia di Assange si trasferì 14 volte, rendendo impossibile la sua istruzione. Fu istruito in casa, o per corrispondenza, e teneva lezioni informali con professori universitari. Ma più che altro leggeva da solo, voracemente.

Quando Assange aveva otto anni, Claire ebbe un’altra relazione, con un musicista violento che la costrinse alla separazione. Dagli undici ai sedici anni vissero in fuga, e siccome l’uomo pare appartenesse ad una setta – la Famiglia – con infiltrazioni nel Governo, riusciva speso rimettersi sulle tracce di Claire.

Durante la fuga, Claire affittò una casa di fronte ad un negozio di elettronica. Assange era solito recarvisi per scrivere programmi su di un Commodore 64, finché Claire non riuscì a mettere da parte i soldi per comprargliene uno. Presto fu in grado di crackare programmi molto conosciuti, scoprendo messaggi nascosti lasciati dai loro creatori. Assange affrontava la vita come un outsider. Tempo dopo ebbe a scrivere di sé e di un amico: “Eravamo ragazzi intelligenti e sensibili che non appartenevano alla subcultura dominante, i cui membri venivano puntualmente etichettati come stupidi”.

Quando Assange compì sedici anni ottenne un modem, e il cuo computer fu trasformato in un portale. I siti Web ancora non esistevano – parliamo del 1987 – ma i network informatici e i sistemi telefonici erano sufficientemente collegati in modo da creare un paesaggio elettronico nascosto che gli adolescenti dotati dei necessari requisiti tecnici potevano attraversare. Assange assunse il nome di Mendax – dallo splendide mendax di Orazio – e si fece la reputazione di un sofisticato programmatore in grado di entrare nelle reti più sicure. Si unì a due hacker e insieme formarono un gruppo noto come International Subversives, in grado di penetrare nei sistemi informatici europei e statunitensi, inclusi quelli appartenenti al Dipartimento della Difesa americano e quelli del Los Alamos National Laboratory. In un libro intitolato “Underground”, cui ha collaborato assieme ad uno scrittore di nome Suelette Dreyfus, delineò le prime regole d’oro della subcultura hacker: “Non danneggiare (o distruggere) le reti in cui entri; non modificare le informazioni in esse contenute (se non per coprire le tue tracce); condividi le informazioni”.

In questo periodo Assange si innamorò di una sedicenne, e per un po’ lasciò l’appartamento della madre per stare con lei. “Pochi giorni più tardi, si fece viva la polizia che portò via tutta la mia attrezzatura informatica insinuando che avevamo rubato 500 mila dollari dalla CityBank”, ricorda Assange. Tuttavia, non fu incriminato, e la sua attrezzatura fu restituita. “A quel punto, decisi che sarebbe stato saggio essere un po’ più discreti. Assange e la ragazza si trasferirono in uno squat a Melbourne, finché non appresero che lei era in cinta. Allora si trasferirono di nuovo in un posto vicino a Claire. Quando Assange compì 18 anni, i due si sposarono con una cerimonia non ufficiale,e poco dopo ebbero un figlio.

L’hackeraggio rimase una costante nella sua vita, e l’eccitazione dell’esplorazione digitale era amplificata dalla crescente consapevolezza, tra I membri dell’Internationl Subversives, che le autorità erano interessate alle loro attività. La Polizia Federale australiana aveva intessuto un’inchiesta, chiamata Operation Weather, che i tre hacker cercavano di monitorare.

Nel settembre 1991, un ventenne Assange penetrò nel master terminal che Nortel, la compagnia telefonica canadese, manteneva a Melbourne, e iniziò a ficcare il naso ovunque. Gli International Subversive avevano visitato il master terminal di frequente. Di solito Assange penetrava nei sistemi di notte, quando erano meno sorvegliati, ma in quell’occasione un amministratore della Nortel era attivo. Fiutando che poteva essere scoperto, decise di affrontarlo con humor. “Ho preso il controllo”, scrisse, senza fornire il suo nome. “Per anni, mi sono dibattuto in questo grigiore, ma finalmente vedo la luce”. L’amministratore non rispose e Assange inviò un altro messaggio: “è stato bello giocare con il vostro sistema. Non abbiamo fatto alcun danno e abbiamo perfino migliorato qualcosa. Per favore, non avverta la Polizia Federale”.

Le incursioni degli International Subersives nella Nortel si rivelarono uno sviluppo critico per l’Operation Weather. Gli investigatori federali avevano messo sotto controllo le linee telefoniche per verificare quali fossero quelle usate dagli hacker. “Julian era il più competente e discreto del gruppo”, mi disse Ken Dat, l’investigatore capo. “Era mosso da un principio di altruismo. Credo che agisse nella convinzione che chiunque avrebbe dovuto avere accesso a tutto”.

Underground descrive la crescente paura di Assange di essere arrestato: “I raid di polizia turbavano di continuo i sogni di Mendax. Sognava lo scricchiolio di passi nell’ingresso di casa; ombre nell’oscurità che precede l’alba; una squadra di polizia che faceva irruzione armata nel suo appartamento alle 5 del mattino”. Ad ottobre si trovava in un pessimo stato. La moglie lo aveva lasciato, portando con sé loro figlio. L’appartamento era un disastro. A stento dormiva o mangiava. La notte che la polizia arrivò, la ventinovesima, aveva collegato i fili del telefono alla radio e ascoltò il segnale occupato fino alle 23:30, quando Ken Day bussò alla sua porta dicendogli: “Credo che mi stessi aspettando”.

Contro Assange furono mossi 31 capi d’accusa per hackeraggio e reati collegati. In attesa del processo, cadde in depressione e per un breve periodo fu ricoverato in ospedale. Cercò di sistemarsi con sua madre, ma dopo pochi giorni si ritrovò a dormire nei parchi delle vicinanze. Viveva in una foresta di eucalipti nel Dandenong Ranger National Park, che era infestato da zanzare le cui punture gli lasciavano cicatrici sul viso. “La tua voce interiore si acquieta”, mi disse. “Il dialogo interiore è stimolato da un desiderio preparatorio di parlare, ma non è utile se poi non c’è nessuno con cui scambiare una parola. Non voglio sembrarti troppo buddista, ma la visione che hai di te stesso svanisce”.

Occorsero più di tre anni alle autorità per portare in tribunale il caso di Assange e degli altri International Subversives. Day mi disse: “avevamo appena costituito la squadra per i crimini informatici, e il Governo ci disse che dovevamo fungere da deterrente. Ebbene, per essere un deterrente bisogna portare in tribunale i trasgressori, e noi ci eravamo riusciti con Julian ed il suo gruppo”. Gli addetti alla sicurezza informatica della Nortel in Canada avevano redatto un rapporto in cui asserivano che le attività di hacking del gruppo avevano causato danni per un ammontare di oltre 100 mila dollari. Il procuratore capo, nel descrivere l’accesso quasi illimitato di Assange, disse alla Corte che “si trattava di Dio onnipotente che si aggirava libero di fare ciò che più gli pareva”.

Assange, che rischiava una potenziale condanna a 10 anni di detenzione, rimase confuse dalla reazione dello Stato. Comprò “The First Circe”, un romanzo di Aleksandr Solzhenitsyn su alcuni scienziati e tecnici rinchiusi in gulag, e lo lesse tre volte. (“I parallelismi erano così somiglianti alle mie avventure!”, ebbe poi a scrivere). Era convinto che la l’hackeraggio che si limitasse ad osservare le cose fosse un reato senza vittime, e intendeva opporsi alle accuse. Ma gli altri membri del gruppo decisero di cooperare. “Quando un giudice pronuncia le parole ‘Il prigioniero si alzi’ e nessuno nella sala si alza in piedi, beh, si tratta di una prova di carattere”, mi disse. Infine, si è dichiarato colpevole di 25 accuse, 6 delle quali caddero. Ma nella sentenza finale il giudice dichiarò: “Non vi è prova che sia stato fatto altro se non un abile intrusione e il piacere di riuscire a – qual è l’espressione corretta? – navigare attraverso tutti quei computer”. L’unica condanna a carico di Assange fu quella di pagare un piccola somma di denaro alla Nortel per i danni causati.

Nel corso del processo, Assenge e la madre stavano anche conducendo una campagna per ottenere la piena custodia del figlio di Assange –una battaglia legale che, per molti aspetti, fu ben più dolorosa della sua difesa penale. Erano convinti che la madre del bambino ed il suo nuovo compagno costituissero un pericolo per il piccolo, e tentarono di limitarne i diritti. L’ente statale per la tutela infantile, l’Health and Community Services – non fu d’accordo, per motivi poco chiari.

La battaglia per la custodia – che nel 1995 vide coinvolto anche un comitato parlamentare – si trasformò in un duro scontro con lo stato. “Ciò che vedemmo fu una burocrazia enorme che devastava le persone”, mi raccontò Claire. Lei e Assange, insieme ad un altro attivista, formarono un’organizzazione chiamata Parent Inquiry Into Child Protection. “Abbiamo usato tutti i metodi degli attivisti”, ricorda Claire. Negli incontri con l’Health and Community Services “registravamo gli incontri in segreto”. L’organizzazione richiamava il Freedom of Information Act australiano ottenere documenti dall’Health and Community Services, e distribuiva volantini ai lavoratori della tutela infantile, incoraggiandoli a farsi avanti per fornire informazioni dall’interno destinate ad un database che stavano implementando. “Se vuoi, puoi rimanere anonimo”,diceva uno dei volantini. Uno di quei lavoratori passò al gruppo un importante manuale interno. “Avevamo talpe che erano dissidenti interni”, mi rivelò Assange.

Nel 1999, dopo oltre 30 tra udienze e appelli, Assange spuntò un accordo di custodia con sua moglie. “Abbiamo vissuto momenti di intensa adrenalina, e credo che dopo che la vicenda si fu conclusa ho sofferto di disturbo post traumatico da stress (D.P.T.S.). Era come tornare da una guerra. Non si può più interagire allo stesso livello con le persone normali, e sono sicura che Jules soffra dello stesso disturbo”. No molto tempo dopo il processo, ricorda Claire, i capelli di Assange, un tempo castano scuro, fu come se si fossero svuotati di ogni colore.

Assange era bruciato. Viaggiò in moto per il Viet Nam. Fece svariati lavori, e guadagnava anche qualcosa come consulente per la sicurezza informatica, sostenendo suo figlio nella misura in cui gli era possibile. Studiò fisica alla Melbourne University. Pensava che cercare di decriptare le leggi segrete che governano l’universo avrebbe costituito un’urgenza ed uno stimolo intellettuale per l’hackeraggio. Non fu così. Nel 2006, nel suo blog scrisse su una conferenza organizzata dall’Istituto Australiano di Fisica, “con 900 fisici in carriera, l’ossatura dei quali era costituta da conformisti timorosi e frignanti di una tempra tristemente inferiore”.

Concepiva il dilemma umano non come una lotta tra sinistra e destra, o tra fede e ragione, bensì tra individuo ed istituzioni. In quanto allievo di Kafka, Koestler e Solzhenitsyn, era convinto che la verità, la creatività, l’amore e la compassione fossero corrotti dalle gerarchie istituzionali, e dalle “reti di patronati” – una delle sue espressioni preferite – che attanagliavano lo spirito umano. Abbozzò un mediocre manifesto, dal titolo “Conspiracy as Governance”, in cui tentava di applicare la teoria dei grafici alla politica. Assange sosteneva che l’autorità illegittima fosse per definizione cospiratoria – il prodotto di funzionari che “collaborano in segreto, lavorando a detrimento della popolazione”. La sua teoria era che, quando si danneggiano le linee di comunicazione interna di un regime, il flusso di informazioni tra i cospiratori va arrestandosi e, nell’avvicinarsi allo zero, la cospirazione si dissolve. Le fughe di notizie (leaks, NdT) costituivano uno strumento di guerra dell’ informazione.

Queste teorie presero subito la forma di WikiLeaks. Nel 2006, Assange si barricò in un’appartamento vicino all’ università e si mise a lavoro. Colto da lampi di creatività, scriveva su porte e pareti i diagrammi di flusso per il sistema, in modo da non dimenticarli. Aveva un letto in cucina, e offriva alloggio ai ragazzi on the road che passavano per il campus, in cambio di aiuto per la costruzione del sito. “Non dormiva mai”, mi disse una persona che aveva vissuto lì con lui. “E non mangiava”.

Allo stato attuale, il sito si appoggia principalmente ad un provider svedese chiamato PRQ.se, che è stato creato per sostenere sia la pressione ordinaria che gli attacchi cibernetici, e che difende fieramente l’anonimato dei suoi clienti. Le proposte vengono indirizzate prima attraverso PRQ, poi ad un server di WikiLeaks in Belgio, e infine verso “un altro Paese che ha leggi più adatte”, mi disse Assange, dove vengono rimosse da particolari macchine e archiviate altrove. La manutenzione di queste macchine è affidata a ingegneri estremamente riservati, l’ alto clero di WikiLeaks. Uno di loro, comunicando solo attraverso una chat criptata, mi ha detto che Assange e gli altri membri pubblic di WikiLeaks “non hanno accesso ad alcune parti del sistema con misura a tutela loro e nostra”. L’intera filiera, cos’ come i documenti che la attraversano, è criptata, e il traffico è mantenuto anonimo attraverso versioni modificate del network Tor, che invia il traffico Internet attraverso “tunnel virtuali” estremamente privati. Inoltre, ogni istante i computer di WikiLeaks inviano centinaia di migliaia di proposte fasulle attraverso i tunnel, oscurando i documenti reali. Assange mi ha detto che vi sono ancora dei punti vulnerabili, ma che è comunque “molto più sicuro di qualunque rete bancaria”.

Prima di lanciare il sito Assange aveva bisogno di dimostrare ai sostenitori finanziari che l’ operazione era realizzabile. Uno degli attivisti di WikiLeaks possedeva un server che usavano come nodo per la rete TOR. Da lì passavano milioni di trasmissioni segrete. L’attivista notò che hacker cinesi usavano la rete per raccogliere informazioni sui governi stranieri, e iniziò a registrare questo traffico. Sebbene solo una piccola parte del materiale finì su WikiLeaks, la tranche iniziale servì da fondamenta per il sito, mettendo Assange in condizione di poter dire di aver “ricevuto oltre un milione di documenti da 13 Paesi diversi”.

Nel dicembre 2006 WikiLeaks pubblicò il suo primo documento: una “decisione segreta”, firmata da Sheikh Hassan Dahir Aweys, un leader ribelle somalo dell’ Islamic Courts Union, selezionato dal traffico generato dalla rete TOR verso la Cina. Nel documento richiamava all’esecuzione di funzionari del governo per mano di delinquenti assoldati come sicari. Assange e gli altri non erano certi della sua autenticità, ma pensarono che i lettori, utilizzando funzioni del sito simili a Wikipedia, potessero contribuire ad analizzarlo. Pubblicarono la decisione corredata da un ampio commento, in cui ci si chiedeva: “Siamo di fronte ad un manifesto coraggioso da parte di uno stravagante militante islamico con legami con Bin Laden? O si tratta di  una montatura da parte dell’ intelligence statunitense, studiata per screditare l’ Islamic Courts Union, incrinare le alleanze somale e manipolare la Cina?”.

Non si arrivò mai a stabilire l’autenticità del documento, e le voci su WikiLeaks subito presero il posto della rivelazione stessa. Diverse settimane dopo, Assange volò in Kenia per il World Social Forum, un convegno anti capitalista, per presentare il sito. “Fece le valige nel modo più strambo che abbia mai visto”, ricorda una persona che all’epoca viveva nella sua abitazione. “Qualcuno venne a prenderlo e gli chiese dove fossero le sue valigie. Lui corse di nuovo dentro. Aveva una sacca da marinaio, afferrò un mucchio di roba e ce la buttò dentro – principalmente calze”.

Assange finì per restare in Kenya diversi mesi. Si faceva vivo con gli amici via telefono  o Internet di tanto in tanto, ma non era mai preciso su questi movimenti. Uno dei suoi amici mi raccontò che si domandavano di continuo dove fosse Julian. “È sempre stato difficile sapere dove si trovasse. Sembrava quasi che cercasse di tenersi nascosto”.

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La mattina di Pasqua ci volle circa un’ora dal Bunker all’aeroporto internazionale, situato su un campo di lava sul mare. Assange aveva con sé uno zaino con hard drive, schede telefoniche e telefoni cellulari. Gonggrijp aveva acconsentito ad andare a Washington per dare una mano per la conferenza stampa. Fece il chek-in, poi l’addetto ai biglietti si rivolse ad Assange.

“Mi spiace”, disse, “non riesco a trovare il suo nome”.

“Interessante”, disse Assange a Gonggrijp. “Divertiti alla conferenza stampa”.

“No”, disse Gonggrijp. “Abbiamo il numero del documento per la prenotazione”.

“È stato confermato”, insistette Assange.

L’addetto sembrava perplesso. “Lo so, ma qui mi dice che è stata cancellata”.

I due uomini si scambiarono uno sguardo: c’era dietro un’agenzia governativa? Assange attese ansioso, ma risultò che aveva comprato il biglietto e non aveva confermato l’acquisto. Comprò velocemente un altro biglietto, e i due volarono a New York e poi fecero rotta per Washington. Arrivarono circa alle due del mattino. Presero un taxi e Assange, che non voleva rivelare la posizione del suo hotel, disse all’autista di dirigersi verso un incrocio nelle vicinanze.

“Eccoci nella tana del leone”, disse Gonggrijp mentre il taxi procedeva speditamente lungo Massachusetts Avenue, oltrepassando file di uffici anonimi. “Non sembra così leonino”, commentò Assange.

Poche ore dopo l’alba Assange era già dentro il National Press Club, pronto a presentare “Collateral Murder” alla quarantina di giornalisti che sarebbero stati presenti. Indossava un blazer marrone, camicia nera e cravatta rossa. Mostrò il video al pubblico, arrestandolo quando era necessario per poter discutere i vari dettagli. Alla fine del video, proiettò il filmato dell’attacco missilistico – una donna dal pubblico ebbe un sussulto quando il primo missile centrò l’edificio – e lesse l’e-mail inviatagli dal giornalista islandese in Iraq. La soffiata, riferì ai reporter, “sta a significare che qualcuno interno all’esercito non approva quanto sta succedendo”.

Il video, sia nella versione originaria che in quella lavorata, è stato pubblicato sul sito che WikiLeaks ha realizzato appositamente. Pochi minuti dopo la conferenza stampa, Assange fu invitato al quartier generale di Al Jazeera a Washington, dove trascorse metà della giornata a rilasciare interviste, e quella stessa sera la MSNBC mandò in onda un lungo servizio sul video. ÌAnche il Times ne parlò, in diversi articoli, così come tutti i principali quotidiani. Solo su You Tube, più di sette milioni di persone avevano visto “Collateral Murder”.

Il Segretario della Difesa Robert Gates fu chiamato a dare conto del filmato e dichiarò, chiaramente irritato, che “queste persone possono pubblicare ciò che gli pare e non sono mai chiamate a risponderne”. Guardare questo video è come osservare la guerra “da una cannuccia di soda”, disse. “Non c’è un prima né un dopo”. I portavoce dell’esercito insistevano sul fatto che non fosse stata commessa alcuna violazione delle regole di ingaggio. Inizialmente, i media si divisero sull’interpretazione di Assange, ma nei giorni a seguire, dopo che molti commentatori avevano soppesato la vicenda e l’esercito si era espresso in proposito, Assange era sempre più frustrato. Gran parte della copertura mediatica non si concentrò sull’attacco missilistico o su quello al furgone, ma sull’uccisione dei giornalisti e su come un soldato potesse ragionevolmente scambiare una macchina fotografica per un PRG. Da Twitter Assange accusò Gates di essere “un bugiardo”.

Per certi versi, Assange sembrava più infastidito dal processo giornalistico stesso – “qualcosa di vile che succhia quanto necessario dalle fonti ufficiali per riempire un’eventuale articolo con una qualche base ufficiale”, come ebbe a dire una volta.

WikiLeaks ha sempre avuto una relazione complicata con il giornalismo convenzionale. Quando nel 2008 il sito fu denunciato per aver pubblicato documenti confidenziali di una banca svizzera, il Los Angeles Times, la Associated Press e un’altra decina di gruppi editoriali si schierarono dalla sua parte (in seguito, la banca ritirò la denuncia). Tuttavia, una sera nel Bunker Gonggrijp mi disse: “noi non siamo la stampa”. Gonggrijp considera WikiLeaks un gruppo di appoggio e tutela per le fonti; nell’ambito del sito, sostiene, “la fonte non dipende più dal trovare un giornalista che possa fare qualcosa di buono o meno con i propri documenti”.

Nonostante parli di giornalismo scientifico, Assange tende ad enfatizzare come la sua missione consista nello smascherare le ingiustizie, e non nel fornire una piatta catalogazione degli eventi. Nel 2006, in un invito a potenziali collaboratori, scrisse: “il nostro target primario è costituito da quei regimi fortemente oppressivi come quello cinese, russo e dell’Eurasia centrale, ma intendiamo assistere anche coloro che in occidente desiderino rivelare comportamenti illegali o immorali da parte dei propri governi o corporazioni”. La sua idea è che un “movimento sociale” che rivela segreti sia in grado di “far cadere molte amministrazioni che basano il proprio operato sul mascherare la realtà – inclusa l’amministrazione statunitense.

Assange non si pone gli stessi limiti degli editori tradizionali. Recentemente, ha pubblicato documenti che includevano i numeri di previdenza sociale di alcuni soldati, e nel Bunker gli domandai se la missione di WikiLeaks sarebbe stata compromessa se lui avesse redatto quelle parti. Lui rispose che alcune fughe di notizie potevano danneggiare persone innocenti – “chiamiamoli danni collaterali, se desideri” – ma che non poteva soppesare l’importanza di ogni dettaglio in ogni documento. Forse i numeri di previdenza sociale un giorno sarebbero tornati utili a qualche investigatore, disse; nel rendere pubblica l’informazione faceva sì che il giudizio avvenisse all’aperto.

Un anno e mezzo fa, WikiLeaks ha pubblicato i risultati di un test dell’esercito condotto nel 2004; il test consisteva in dispositivi elettromagnetici studiati per prevenire la l’attivazione di ordigni esplosivi rudimentali (IED: improvised esplosive device, NdT). Il documento rivelava aspetti fondamentali circa il funzionamento dei dispositivi e mostrava anche le interferenze che essi provocavano con i sistemi di comunicazione usati dai soldati – informazioni che potevano tornare utili ad un sovversivo. Quando WikiLeaks pubblicò l’informazione, l’esercito aveva già iniziato ad usare tecnologie più avanzate, ma alcuni soldati usavano ancora quei dispositivi. Chiesi ad Assange se si fosse trattenuto dal rivelare informazioni che avrebbero potuto provocare la morte di qualcuno. Lui rispose di aver istituito “una politica di riduzione del danno”, secondo cui le persone nominate in determinati documenti venivano contattate prima della pubblicazione, per metterle in guardia, ma vi sono anche casi in cui i membri di WikiLeaks potrebbero “sporcarsi le mani di sangue”.

Uno dei membri mi disse che inizialmente la politica editoriale di Assange la metteva a disagio, ma che poi anche lei aveva sposato il suo punto di vista, poiché riteneva che nessuno sia stato danneggiato ingiustamente. Naturalmente, tali danni non sono sempre facili da calcolare. Quando era alla ricerca dei membri permanenti di WikiLeaks, Assange contattò Steven Aftergood, che cura un servizio di newsletter mail per la Federation of American Scientists, che pubblica documenti sensibili. Aftergood ha rifiutato l’invito. “Quando vi sono elementi allo stesso tempo sensibili e lontani da un attuale oggetto di controversie, la mia linea editoriale è quella della cautela”, dichiarò. “E nel loro caso non mi sembra si pongano questo problema”.

Allo stesso tempo, Aftergood mi disse che troppe informazioni vengono secretate e che ciò costituisce un problema sempre maggiore, che non solo danneggia i cittadini – i quali dovrebbero essere in grado di accedere ai registri governativi – ma va a scapito dello stesso sistema di segretezza. Quando ci sono troppi segreti, diventa difficile distinguere quelli importanti. Se l’esercito avesse consegnato il filmato dell’Apache alla Reuters a valere sul Freedom of Information Act, allora quel materiale non sarebbe diventato un video dal titolo “Collateral Murder” e non sarebbe diventato un incubo dal punto di vista delle relazioni pubbliche.

Il luogotenente colonnello Lee Packnett, portavoce per le questioni di intelligence dell’esercito, era molto agitato quando lo chiamai. “Non daremo ufficialità a WikiLeaks. Non parleremo di WikiLeaks, non è affar nostro. Puoi parlarne con qualcun altro”. A suo modo di vedere le cose, nel momento in cui “Collateral Murder” ha attraversato la fase mediatica, la minaccia di controspionaggio che WikiLeaks costituiva per l’esercito si è dissolta.

Con la pubblicazione di “Collateral Murder” WikiLEaks ha ricevuto oltre 200 mila dollari in donazioni, e il 7 aprile Assange ha scritto su Twitter: “Un  nuovo modello per il finanziamento del giornalismo: proviamoci, per cambiare”. Proprio quest’inverno aveva messo il sito in uno stato di semi sonno poiché non vi era denaro sufficiente a tenerlo attivo, e aveva bisogno di qualche intervento ingegneristico. Assange ha molo più materiale di quello che riesce a lavorare, ed è alla ricerca di specialisti in grado di muoversi attraverso la caotica library di WikiLeaks e di assegnare i documenti ai volontari perché li analizzino. Le donazioni hanno fatto sì che WikiLeaks fosse in grado di pagare qualche altro volontario, così che a maggio l’archivio completo è tornato online. Tuttavia, il sito rimane un progetto ancora allo stadio iniziale. Assange non  è solo alla ricerca del modo giusto per gestirlo, ma anche di lettori interessati al più arcano dei materiali di cui il sito dispone.

Nel 2007, Assange ha pubblicato migliaia di pagine di informazioni su segreti militari relativi a un largo numero di approvvigionamenti militari in Iraq e Afghanistan. Lui e un volontario hanno trascorso settimane alla costruzione di un database navigabile, studiando i codici d’acquisto dell’esercito e aggiungendo il costo degli approvvigionamenti – miliardi di dollari. Il database catalogava il materiale ordinato da ogni unità: mitragliatrici, Humvees, telefoni satellitari, ecc. Assange sperava che i giornalisti vi si sarebbero riversati, ma sono stati in pochi a farlo. “Sono molto arrabbiato. Si trattava di un’ottima soffiata: la struttura dell’esercito in Iraq e Afghanistan, fino all’ ultima poltrona, eppure nulla è successo”, ha commentato Assange.

WikiLeaks è finalista per una sovvenzione di mezzo milione di dollari da parte della Knight Foundation. Il progetto intende tracciare una strada che consenta alle fonti di trasferire i documenti ai giornalisti in un modo sicuro; WikiLeaks avrebbe il ruolo di una sorta di conto cifrato presso una banca svizzera, nel quale poter scambiare le informazioni in maniera anonima. (Il sistema prevede che la fonte dia al giornalista una scadenza, oltre la quale il documento sarà automaticamente disponibile su WikiLeaks). Assange ha anche sperimentato altre idee. In base al principio secondo cui le persone non danno valore a qualcosa a meno che non sia a pagamento, ha provato a mettere all’asta i propri documenti invitando altre realtà editoriali a partecipare; nel 2008, il tentativo riguardò 7 mila e-mail interne dell’account dell’ex autore dei discorsi del presidente venezuelano Hugo Chavez. L’asta fu un fallimento. Assange sta anche pensando ad un sistema di abbonamento per cui i membri hanno accesso privilegiato alle informazioni raccolte dal sito.

Ma le sperimentazioni riguardo alla presentazione del sito ed alle sue operazioni tecniche non risponde ad un’altra domande cruciale per WikiLeaks: qual è il suo punto di forza? La forza del sito lo rende uno strumento del bene all’interno di società le cui leggi sono ingiuste. Ma, a differenza dei regimi autoritari, i governi democratici celano segreti solo perché i cittadini concordano sul fatto che ciò sia necessario per tutelare una politica legittima. Nelle società liberali, la forza del sito è anche la sua debolezza. Le denunce legali, se giuste, sono una sorta di deterrente contro gli abusi. A breve Assange dovrà fare i conti con il paradosso della sua creazione: la cosa che pare detestare di più – il potere senza responsabilità – fa parte del DNA del sito, e sarà sempre più accentuato man mano che WikiLeaks si trasforma in una vera istituzione.

Dopo la conferenza di Washington, ho incontrato Assange a New York, nel Bryant Park. Aveva con sé il bagaglio, poiché si muoveva da un appartamento ad un altro, ospite di amici di amici. Bevemmo un caffè insieme. Quella settimana Assange avrebbe dovuto recarsi a Berkeley e poi in Italia, ma in Islanda il vulcano aveva ripreso ad eruttare, e il suo piano di volo attraverso l’Europa sarebbe stato probabilmente modificato. Era un po’ shockato. “Mi ha sorpreso l’essere stati considerate come arbitri imparziali della verità. Il che la dice lunga su quanto abbiamo fatto finora”, mi disse. “Ma essere completamente imparziali significa essere idioti. Ciò significa che dovremmo considerare la polvere per strada alla stregua di persone che vengono uccise”.

Un certo numero di commentatori si è chiesto se il titolo del video non fosse manipolatorio. “Col senno di poi, avremmo dovuto chiamarlo ‘Permission to exchange’ piuttosto che ‘Collateral Murder’?”, mi domandò. “Non ne sono sicuro”. Era seccato dai commenti di Gates al filmato: “Ha detto che non c’era un prima né un dopo; beh, almeno adesso c’è un durante, ed è un gran passo avanti”. Poi Assange si è sporto in avanti e, sussurrando, ha iniziato a parlare di una fuga di notizie – nome in codice Project G – che sta sviluppando in un’altra location segreta. Ha promesso che sarebbe stato uno scoop, e ho visto in lui la stessa miscela di serietà e divertimento che mostrava nel Bunker. “Se sembra che siamo dilettanti, è perché lo siamo. Ognuno lo è in questo settore”. E poi, una volta finito il caffè, ha lasciato il parco incamminandosi verso Times Square, dileguandosi tra la folla.

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