Notizie in fuga: nuovi scenari e vecchi quesiti per il giornalismo moderno

Assange

Il massiccio sdoganamento di documenti riservati sulla sporca guerra in Afghanistan da parte di Wikileaks segna una svolta non solo nello scacchiere afgano, ma anche nel mondo dei media che, forse per la prima volta, registra una collaborazione paritaria tra un media digitale emergente e tre testate storiche del giornalismo tradizionale – New York Times, The Guardian e Der Spiegel – coinvolte proprio da Wikileaks nel lavoro di ricerca e redazione degli articoli i cui contenuti oggi sono rimbalzati incessantemente tra etere e blogosfera

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di Andrea Fama

Il doppio gioco a scapito degli USA da parte dei servizi segreti pakistani sul fronte sempre aperto della guerra in Afghanistan; l’ordine segreto dell’apparato spionistico-militare statunitense di uccidere o catturare ogni talebano senza processo; l’utilizzo discutibile di droni telecomandati a distanza che hanno più volte messo a rischio la vita dei militari americani.

Sembra la trama avvincente di un libro di John Perkins (ex “sicario dell’economia” statunitense oggi autore di libri illuminanti sulle più ampie e sordide sfaccettature della politica estera americana), se non l’opera di fantasia di un giallista ben informato. Invece è tutto vero. Lo assicura Julian Assange, fondatore di Wikileaks (a cui Lsdi ha dedicato un ampio ritratto nei giorni scorsi, vedi Nessun segreto: la missione di Julian Assange per la trasparenza totale). Il portale specializzato nel rivelare documenti top secret ha appena pubblicato 92.000 documenti di intelligence che fotografano un quadro della guerra in Afghanistan ben diverso da quello ufficialmente propagandato.

Questo incredibile  sdoganamento di documenti riservati – di proporzioni pari solo ai Pentagon Papers alla base dello scoop del New York Times sulla guerra del Viet Nam, per dirla con lo stesso Assange – segna una svolta non solo nello scacchiere afgano, ma anche nel mondo dei media che, forse per la prima volta, ha generato una collaborazione paritaria tra un media digitale emergente e tre testate storiche del giornalismo tradizionale – New York Times, The Guardian e Der Spiegel – coinvolte proprio da Wikileaks nel lavoro di ricerca e redazione degli articoli i cui contenuti oggi sono rimbalzati incessantemente tra etere e blogosfera.

E come ogni svolta che si rispetti, anche questa ha dato prontamente il via ad una sequela di prese di posizione contrastanti.Wikileaks-Nyt

Un blog del New York Times, ad esempio, riporta il contenuto dell’e-mail (il cui oggetto recita “Riflessioni su Wikileaks”) che la Casa Bianca ha inviato come “consiglio ai giornalisti” su come maneggiare le informazioni divulgate, secondo cui le supposte rivelazioni di Wikileaks non solo non dicono nulla di sorprendente in merito al contro-spionaggio e alle zone franche di cui godrebbero i talebani in Pakistan – probabilità già ventilate pubblicamente dall’amministrazione USA – ma si riferiscono anche ad un periodo (2004-2010) precedente alla nuova strategia annunciata dal Presidente Obama il 1° dicembre 2009, dovuta proprio al “grave” evolversi della situazioni negli ultimi anni. La Casa Bianca, inoltre, con una nota ufficiale ha condannato la diffusione, da parte di singoli individui (leggi Wikileaks nella persona di Julian Assange ) e gruppi editoriali (leggi New York Times, Guardian e Der Spiegel), di informazioni riservate che possono mettere al rischio la vita dei cittadini americani e la sicurezza nazionale, ribadendo la solidità dell’alleanza tra USA, Afghanistan e Pakistan, un partner, sottolinea la nota, la cui “cooperazione contro il terrorismo ha portato ad assestare importanti colpi ai vertici di Al Qaeda”. Un’ultima sferzata è ancora per Assange, reo di non aver fatto nulla per mettere la Casa Bianca a conoscenza del materiale di cui era venuto in possesso, la cui imminente pubblicazione è stata comunicata al governo soltanto dagli organi di stampa.

Quanto sostenuto nella nota, tuttavia, pare contrastare con la momentanea auto-censura da parte di Wikileaks di 15.000 documenti potenzialmente pericolosi per la sicurezza del Paese, e con quanto affermato dal capo dell’ufficio di Washington  del New York Times, Dean Baquet, secondo cui il NYT ha precauzionalmente messo la Casa Bianca al corrente dei contenuti dell’articolo in modo tale da “dare all’Amministrazione il tempo di commentare e reagire”.

Sempre sullo stesso blog si legge che il Senatore ed ex candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry, attualmente presidente del comitato senatoriale USA per le relazioni con l’estero, è convinto che i documenti pubblicati da Wikileaks svelino aspetti delicati circa la gestione statunitense della situazione in Afghanistan e Pakistan: “per quanto siano venuti alla luce in modo illegale, questi documenti solevano seri interrogativi sulla realtà della politica americana nei confronti di Pakistan e Afghanistan”, sostiene Kerry, evidenziando l’urgenza di un cambio di rotta in tale politica.

Nulla di nuovo sotto il sole, invece, secondo il Presidente afgano Hamid Karzai. Il suo portavoce, Waheed Omar, sostiene che la pubblicazione dei rapporti segreti non ha irritato il Presidente: “Si tratta prevalentemente di morti civili e tentativi di coprire tali morti, unitamente al ruolo di una certa forza di intelligence in Afghanistan (riferendosi al Directorate for Inter-Services Intelligence, in pratica il contro spionaggio pakistano) … naturalmente, quanto accaduto accrescerà  la consapevolezza del mondo di fronte a entrambi questi aspetti”, ha dichiarato serafico Waheed Omar, secondo cui “la prima reazione del Presidente è stata: beh, niente di nuovo”.

Le reazioni, com’era prevedibile, si sono scatenate anche lontano dal mondo istituzionale. Politico, ad esempio, il portale statunitense che fa del suo nome una dichiarazione d’intenti, ha raccolto nella sua arena alcuni commenti interessanti. Alvin S. Felzenberg, autore del libro “The leaders we deserve” (i leader che ci meritiamo), nonché principale portavoce della Comissione per l’11 settembre ed ex consigliere del Dipartimento per la Difesa, richiama i Pentagon Papers e sostiene di non riuscire “a immaginare un modo migliore per commemorare il 36esimo anniversario delle dimissioni di Nixon, se non ricordando che il Watergate ebbe inizio con un tentativo da parte dell’Amministrazione di mettere a tacere una fuga di notizie”.

Brad Bannon, presidente di una società di comunicazione di matrice democratica, fa leva sull’inossidabile patriottismo a stelle e strisce (“Americani giovani e coraggiosi muoiono in Afghanistan e i loro cari hanno il diritto di sapere se il loro sacrificio è invano”), per poi abbracciare argomenti più materialisti e pragmatici (“Abbiamo speso 300 miliardi di dollari in Afghanistan e i talebani sono più forti di prima … Il Congresso si appresta a votare un nuovo finanzimento … Abbiamo promesso di dare più aiuti al Pakistan… I contribuenti hanno il diritto di sapere se stanno buttando i propri soldi”).

Ross Baker, politologo, sostiene che “la pubblicazione di Wikileaks è come i Pentagon Papers sotto l’effetto di steroidi” e che “tali informazioni favoriscono il nemico”. Baker parla anche di tradimento, apostrofando il portale come WikiTreason (tradimento, appunto).

Stesso parallelo tra VietNam e Afghanistan anche per James Carafano, ricercatore in materia di difesa e sicurezza del territorio, ex luogotenente colonnello dell’esercito e oggi in forze alla Heritage Foundation, accomuna i Pentagon Papers e le odierne rivelazioni parlando di “un incubo lisergico”  volto alla disinformazione in merito al conflitto: “documenti specifici e decontestaualizzati non rivelano un’intera vicenda”.

Il contributo probabilmente più illuminante è quello di Greg Dworkin, giornalista, secondo cui l’Amministrazione sta solo tentando di processare il messaggero puntando ad insabbiare le informazioni. “Oggi parleremo del processo (una vittoria per la Casa Bianca); forse domani parleremo della sostanza delle rivelazioni (una vittoria per la società)”.

Questo un concentrato di reazioni tanto contrastanti quanto compite e competenti. E così molti altri lettori e commentatori, tutti a dibattere sull’opportunità o meno di pubblicare tassativamente ogni notizia di cui si viene a conoscenza, a prescindere da come la si ottenga e dai potenziali risvolti che essa può avere per le società e per il concetto di sicurezza in generale.

A tale proposito, forse varrebbe la pena ricordare che a febbraio, in Islanda, l’opposizione ha presentato in Parlamento una proposta di legge che mira a trasformare il Paese in un bastione in difesa della libertà di stampa e di espressione. L’obiettivo dei fauturi della meglio nota Icelandic Modern Media Iniziative (l’iniziativa islandese per i media moderni), coadiuvati propri da WikiLeaks, è quello di attrarre sull’isola le principali testate online di giornalismo investigativo, garantendo loro una forte protezione legale.

Ebbene, la proposta è stata approvata. Inutile dire che se la sua effettiva applicazione dovesse andare in porto ci troveremmo di fronti a scenari, ancora una volta, completamente nuovi per il giornalismo. Si tratterebbe di una sorta di paradiso off-shore, non per speculatori ed evasori fiscali, ma per giornalisti. Altrettanto superfluo è sottolineare l’importanza di un quadro normativo trasparente che regoli gli equilibri di questa sperimentale Infolandia, la cui stessa esistenza amplificherebbe a dismisura il dibattito sollevato dai diari di guerra di WikiLeaks: pubblicare, sempre e tutto, o porsi/porre dei limiti alla libertà di stampa in nome di valori quali – come in questo caso – la sicurezza nazionale di un popolo? Ma è davvero di questo che si parla? La sicurezza del popolo americano è stata davvero messa a rischio da questa “fuga di notizie”, o lo sarebbe di più se nessuno mai squarciasse il velo della controinformazione figlia del lavoro di intelligence piuttosto che di redazione?

Giudicare non può e non deve essere necessariamente semplice e categorico, ma la ferma volontà da parte di molti governi di controllare l’informazione, e con essa la verità, o almeno parte di quella che potrebbe essere una verità, porta a fin troppo facili paragoni con la propaganda ipnotica di stampo Orwelliano, una condizione che, all’alba del terzo millennio, chiunque vorrebbe poter bollare come fantasie da romanziere e nulla di più.[1]


[1] L’unilateralità discriminante della fonte ufficiale si scontra contro la pluralità indiscriminata del villaggio globale, l’imposizione del dato contro la ricerca della verità, a conferma di come sia importante diffondere in maniera controllata determinate informazioni, anche allarmanti quando necessario – come nel caso di un potenziale conflitto – senza però consentire a fonti altre di inserire nell’agenda del dibattito pubblico diversi, potenziali motivi di allarme per la società, come quelli derivanti da un’eventuale ingegnerizzazione della minaccia e dalla sua conseguente risoluzione.

In Telegiornali, Istruzioni per l’Uso, Ugo Volli e Omar Calabrese hanno affrontato l’aspetto ideologico del problema affermando che “lo spettacolo del mondo come è raccontato dai notiziari televisivi è, secondo il punto di vista di Edelman, un’essenziale sorgente di legittimazione per lo Stato: là fuori ci sono terribili nemici e sfide complicate; per riuscire a vivere tranquilli qui dentro, nel salotto di casa dove il mondo è spettacolo, qualcuno deve pensarci per noi”.

Questo stesso tema è stato ricalcato anche da eminenti studiosi italiani quali Menotti e Bobbio, che identificavano con la minaccia della guerra un’alterazione di regole, giudizi e comportamenti, dalla quale lo Stato-nazione, lo Stato-potenza, dopo le velleità postmoderniste e costruttiviste degli anni Novanta, torna ad emergere rivestendo un ruolo potente, onnicomprensivo, quasi moderno, la cui segretezza e conseguente libertà d’azione sono legittimate dal pericolo imminente.

Da citazione in citazione, lo studioso americano Walter Benjamin affermava che “non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, ‘moderna’ e non abbia creduto di trovarsi immediatamente di fronte a un abisso. La consapevolezza disperatamente lucida di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità”. La percezione di questo abisso, di questa crisi, è però allontanata e alleviata dall’inclinazione, altrettanto cronica nell’umanità, che tali minacce non possano effettivamente concretizzarsi (questa volta a parlare è un altro emerito studioso, Eric J. Hobsbawm).

Pertanto, se una guerra è costantemente alle porte ma non avrà luogo, la minaccia servirà da sedativo, mentre l’idea che non possa concretizzarsi legittima l’abbandonarsi alla distrazione e all’intrattenimento a cuor leggero, il ché ci riporta alla dicotomia che regola i media attuali e che prevede la diffusione del terrore accompagnata dalla più superficiale, spietata e ottundente diversione.

Per approfondire.