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Google sta sviluppando una tecnologia che le consentirà di competere con un nuovo tipo di aziende digitali: quelle che cercano di  produrre contenuti meno cari rispetto ai media tradizionali usando analisi statistiche per identificare gli argomenti che interessano maggiormente gli utenti e quindi assoldano free lance per produrre servizi o video su quei temi.
Google, in particolare, quest’ anno ha brevettato un sistema che gli consentirà di individuare dei temi sviluppati inadeguatamente e quindi suscettibili di approfondimento sul web, sulla base di un confronto fra gli argomenti a cui gli internauti mostrano interesse attraverso le ricerche e quello che effettivamente trovano online, come ha spiegato un addetto che ha avuto modo di esaminare i materiali raccolti.
Questi dati – secondo quanto spiega Financial Times – “potrebbero essere venduti da Google a editori online, oppure resi pubblici, cosa che potrebbe complicare i progetti di aziendecome Demand Media, Associated Content e AOL, che stanno sviluppando dei sistemi per individuare idee per lo sviluppo di contenuti  usando dei software basati su algoritmi.
“Lavoriamo su varie idee e ne facciamo dei brevetti, ma non è detto che tutte queste idee diventino poi dei prodotti concreti”, ha replicato un portavoce di Google.
Gli sviluppi di questa corsa agli algoritmi per individuare gli argomenti che in teoria dovrebbero maggiormente interessare ai cittadini potrebbe avere anche dei risvolti inquietanti, come ipotizza Paolo Ottolinea su malditech, un blog del corriere.it, che in un post dal titolo “Giornali: i direttori sostituiti dai trend di Google†racconta bene come funziona una di queste aziende digitali, Demand Media.
“Il modello di Demand Media – racconta Ottolina – prevede un insieme di algoritmi che analizzano i dati dei motori di ricerca e gli argomenti più cliccati sul web per identificare delle “parole chiave” su cui le aziende sono disponibili a investire in pubblicità perché considerate di richiamo. Il flusso delle notizie, scritte o video, è generato da circa 10 mila freelance ed è piazzato su siti quali eHow, un portale di “how to” (manuali per imparare a fare le cose più disparate), o YouTube. Il sistema permette a Demand Media di sputare fuori contenuti a folle velocità , circa 180 mila pezzi al mese. Contributi che sono pagati 15 dollari (12 euro) l’uno a chi li produce.
Quello che oltreoceano chiamano “content farming” non è un modello esclusivo di Demand Media – sottolinea Ottolina -. Aol lavora su uno schema simile, battezzato Seed. Yahoo di recente ha pagato 100 milioni per Associated Content, che commissiona buona parte dei suoi pezzi analizzando le ricerche degli utenti e le relative possibilità di ritorno pubblicitarioâ€.
Le critiche a uno schema del genere sono ovvie – conclude malditech -: un sistema informativo guidato solo dagli argomenti più “trendy” (e di solito più frivoli) e dalla velocità di produzione (con prezzi simili un freelance deve produrre 7-8 pezzi al giorno per tirare a campare), rinuncia in partenza a ogni velleità di approfondimento e di istanza informativa. E pone una formidabile sfida, economica ma anche culturale, al modello dei vecchi media, già abbondantemente in crisi.