Continua il dibattito sul giornalismo dei dati – Un reporter di grossa esperienza, Corrado Giustiniani, prova a chiedersi se e in che modo il DJ avrebbe potuto aiutarlo nel suo lavoro e risponde: ‘’Booh, magari a trovare qualche chicca in più, ma senza il motore interno delle rivelazioni le mie inchieste non sarebbero partite’’ – Risponde Andrea Fama, autore dell’ ebook su Data journalism e Open data: ‘’ Il DJ non si sostituisce al giornalismo tradizionale, né alle sue inchieste o ai suoi strumenti, ma vi si integra, offrendo semplicemente un’opportunità in più, un altro strumento figlio del giornalismo digitale e delle sue nuove prospettiv (e magari se i dati relativi alle inchieste di Giustiniani fossero stati pubblici, a rilevare gli spunti per un’iniziativa giornalistica sarebbe potuta essere proprio la cosiddetta società civile)
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Corrado Giustiniani, giornalista del Messaggero e blogger del Fatto quotidiano, ha inviato a Lsdi alcune riflessioni in relazione al dibattito che si è sviluppato in occasione della presentazione dell’e-book “Open Data – Data Journalism. Informazione e trasparenza al servizio delle società nell’era digitaleâ€.
Le pubblichiamo insieme a una replica di Andrea Fama, autore della ricerca, invitando chi è interessato all’ argomento ad intervenire.
CHE AIUTO MI AVREBBE POTUTO DARE
IL DJ NELLE MIE INCHIESTE?
di Corrado Giustiniani
“Avrei voluto capire di più il perché il Data Journalism è essenziale per il giornalismo d’oggi, e quello che un po’ in fretta ho letto nella newsletter di LSDI non ha appagato tutti i miei dubbi. Parto da una considerazione banale: compito del giornalismo di ieri, di oggi e di domani è tirare fuori delle notizie che l’utente-cittadino non conosce. Non è questo, certamente, l’unico ruolo del giornalismo, che deve anche chiarire, spiegare, ricapitolare, ma certo è il più importante. E allora mi sono chiesto: in che modo il DJ mi avrebbe aiutato nelle inchieste che ho condotto nella mia vita professionale?
Ne ho velocemente passate in rassegna alcune. L’articolo più fortunato della mia carriera, indubbiamente, è stato quello che ha rivelato l’evasione fiscale di Luciano Pavarotti. Ma lì, senza fonti interne all’amministrazione finanziaria, avrei fatto ben poco. Quand’anche i suoi dati fossero stati in rete, ci sarebbe stato bisogno di una password per trovarli. E poi non erano in rete le scartoffie della sua vertenza col fisco.
Ancora, il pezzo “il generale e le mele marce“, che raccontò le spericolate verifiche auto-decise in Fininvest dai finanzieri infedeli Tripodi e Capitanucci, aprendo le porte al processo Berlusconi ter, e chiamandomi a testimoniare nell’ufficio del pm Di Pietro. Anche qui fonti interne, pazienti verifiche, un’intervista trabocchetto fatta al generale Ramponi, riscontri al tar di Milano e a Roma al Consiglio di Stato: dubito che il Data Journalism mi avrebbe aiutato a scovare la notizia.
Continuando: l’inchiesta sul malfunzionamento della Siae, per la quale venne chiesto al Messaggero (e al sottoscritto) un risarcimento complessivo di 87 miliardi di lire (l’euro non c’era ancora). Per fortuna le mie fonti mi avevano rivelato correttamente le malefatte interne, e la Società italiana autori ed editori venne commissariata (e commissario, ahinoi, venne nominato Mauro Masi). Mi avrebbe aiutato, il DJ? Booh, magari a trovare qualche chicca in più, ma senza il motore interno delle rivelazioni la mia inchiesta non sarebbe partita.
Ecco perché avrei voluto essere lì, e fare qualche domanda agli ospiti presenti. A ben vedere, analizzando meglio i dati, si sarebbe forse potuto prevenire lo scandalo Parmalat: quello cioè di un gruppo che figurava in utile eppure, curiosamente, continuava a indebitarsi, come se i prestiti fossero essenziali alla sua sopravvivenza. Ma questo era un lavoro da superispettori del fisco, più che da semplici giornalisti, e purtroppo il Secit, il servizio in cui erano organizzati, era stato di fatto smantellatoâ€.
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NON E’ UNA PANACEA
MA UNA GRANDE OPPORTUNITA’ IN PIU’
di Andrea Fama
Differenze di scala e di genere. Come riportato nell’e-book, si parte da una stessa matrice, per poi arrivare ad evoluzioni inaspettate, spesso nelle dimensioni più che nel risultato, che resta quello di portare alla luce storie nascoste.
Analizzando l’esperienza di Wikileaks, ad esempio, si rileva che
“L’impatto che l’organizzazione di Assange ha sul giornalismo è un impatto di scala piuttosto che di genere; ciò che sta accadendo non è del tutto nuovo, ma ha dimensioni senza precedenti … La differenza tra le i plichi consegnati in segreto da fonti interne, le fotografie dei cittadini (i cosiddetti citizen journalist) e i database pubblici è una differenza di scala, e differenze di scala estreme alla fine si tramutano in differenze di genereâ€.
Un’ evoluzione, dunque, che riscopre ed eredita la parte migliore che il giornalismo tradizionale ha da offrire, nel tentativo di depurarsi dalle scorie accumulate in decenni di compromessi e giochi di potere tra editori, inserzionisti, istituzioni, lobby, eccetera eccetera eccetera.
È in questo contesto prevalentemente digitale di ritrovata igiene che prende gradualmente forma un modello giornalistico se non completamente nuovo, senz’ altro altamente innovativo nel suo approccio multidisciplinare alla professione: il data journalism.
Come accennato, il giornalismo dei dati non è un alieno improvvisamente atterrato sul pianeta dell’informazione, anzi, gli elementi che lo caratterizzano sono in buona parte rintracciabili in numerosi, consolidati aspetti della professione giornalistica.
La differenza, piuttosto, sta nella forma mentis del data-giornalista, che pensa in digitale e non in analogico, con tutte le differenze di approccio e prospettiva che questo comporta.
Ciò detto, bisogna considerare che magari il Data Journalism non avrebbe fatto emergere quelle inchieste citate da Corrado Giustiniani (nate all’ombra di una cessione di informazioni fiduciaria e personale), ma probabilmente ne avrebbe fatte emergere delle altre, figlie dell’analisi dei cosiddetti Big Data, che spesso languono alla luce del sole in attesa che qualcuno vi individui le storie potenziali che essi contengono. E gli esempi non mancano.
Pensiamo al Pulitzer per il giornalismo di inchiesta assegnato a Paige St. John, del Sarasota Herald-Tribune per un’analisi sulla fragilità dei fondi assicurativi della Florida (qui), o a quello assegnato nel 2010 al New York Times per un progetto sulle acque tossiche, le cui dimensioni (differenze di scala e di genere) lo rendono difficilmente replicabile all’interno di molte redazioni. Un altro esempio è quello del data-giornalista Matt Waite, anche lui vincitore del Pulitzer con PolitiFact.
Ma al di là delle glorie del Pulitzer, ci sono tanti altri casi di ottimo giornalismo di inchiesta basato sui dati, basti pensare al grande lavoro svolto dal Guardian (ricordando in particolare le inchieste sulle spese dei parlamentari britannici e sulle academies inglesi), o alle numerose iniziative intraprese nel giornalismo dei dati canadese. E l’elencazione potrebbe continuare.
Tutto ciò per dire che, come per ogni artigiano, anche per il giornalista esistono diversi strumenti di lavoro: più la tua cassetta degli attrezzi ne contiene, e più possibilità hai di tirarne fuori qualcosa di buono, originale, impensato.
A corredo di quanto detto, si aggiunge il fatto non trascurabile che il Data Journalism (proprio in virtù dei suoi natali digitali) non è solo inchiesta, ma è anche condivisione e partecipazione. Ciò significa che lettori, utenti, cittadini più o meno comuni possono contribuire e arricchire le inchieste giornalistiche aggiungendo informazioni e dataset, o perfino suggerendo ambiti di inchiesta correlati, dando vita ad un giornalismo reticolare di vasta portata, in grado di far convergere fonti, strumenti e professionalità distinte, secondo modalità fino a poco tempo fa inimmaginabili.