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- Corsi di alfabetizzazione al giornalismo digitale e dei dati;
- sinergie tra addetti ai lavori (associazioni) e redazioni, al fine di ottimizzare le risorse, valorizzare le rispettive competenze e favorire l’apprendimento reciproco;
- accesso alla redazione di un Data Team: giovani giornalisti, ricercatori e sviluppatori (magari in partenariato con le università e le scuole di giornalismo);
- creazione di una sezione online integrata ai siti delle testate quale piattaforma di condivisione e dialogo tra giornalisti, associazioni, utenti, ecc.
- cassetta degli attrezzi: come fare per …
Sono alcune delle iniziative ipotizzate da Andrea Fama – autore dell’ ebook sul Data Journalism appena pubblicato da Lsdi, Festival internazionale di Perugia e Simplicissimus (nell’ ambito della collana ‘’ebook di giornalismo’’) – per cercare di superare il profondo gap che divide il nostro giornalismo da quello di altri paesi anche attraverso un processo di de-gerarchizzazione delle redazioni tradizionali.
Le proposte si inseriscono nel dibattito stimolato giovedì scorso dalla presentazione nella sede della Fnsi della ricerca di Fama e dalle osservazioni che Mario Tedeschini Lalli aveva pubblicato sul suo blog, Giornalismo d’ altri, denunciando la sostanziale assenza del giornalismo professionale dal dibattito e dalle realizzazioni nel campo del giornalismo dei dati.
Prendendo spunto da quell’ intervento, Andrea Fama gli ha inviato ulteriori elementi di discussione, che Tedeschini Lalli ha pubblicato e che noi riportiamo qui di seguito.
Andrea Fama:
Nonostante sia amaramente consapevole della stentatezza del sistema italiano in materia di open data (con particolare riferimento al fantasma di un giornalismo dei dati tricolore), sento di avere il dovere morale – se non altro per ragioni anagrafiche – di essere ottimista e, citando un recente Altan, vedere il “pitale mezzo pienoâ€.
Indubbiamente, durante la stesura del libro e nel corso dell’organizzazione del dibattito, è stato desolante non individuare neanche una realtà giornalistica italiana propriamente tale riconducibile al data journalism. Diciamo che in tal senso il giornalismo è stato bocciato in primo appello e rimandato a settembre. Ora tocca rimboccarsi le maniche e studiare seriamente, se si intende davvero salire sul “treno ormai in corsa†(in questo potrebbe aiutare la pachidermica lentezza del sistema Italia nel considerare, adottare e avviare a pieno regime l’innovazione).
Personalmente, inizio col raccogliere con piacere ed entusiasmo il suo “invito†a dare sostanziale seguito al mio lavoro. Immagino un seguito teorico, con un’appendice al libro; ed uno pratico, con un tavolo di lavoro operativo a stretto giro (staremo col fiato sul collo della FNSI per questo).
In termini generali, è senza dubbio necessaria una rapida quanto radicale evoluzione antropologico-culturale che consenta agli attori italiani (pubblica amministrazione, associazioni, società civile e, naturalmente, giornalisti) di calarsi con la necessaria consapevolezza nella nuova era inaugurata dall’affermarsi delle nuove tecnologie e della società dell’informazione.
In Italia, soprattutto, bisognerebbe consolidare il senso civico della collettività , a partire dai nostri amministratori fino a raggiungere i cittadini tutti; stimolare la partecipazione alla vita pubblica; ricreare i presupposti per la fiducia e il dialogo tra società civile e Amministrazione pubblica. Soltanto allora il contagio dell’Open Data potrà davvero attecchire (per veicolare il messaggio che tale cultura sottende non ci si può basare meramente sui vantaggi economici che l’apertura di certi dati può generare. Bisogna, infatti, essere pronti a farsi carico anche dell’altra faccia della medaglia: apertura e trasparenza implicano rettitudine e buon governo.
Dal punto di vista pratico – a partire da quello che ha dimostrato di essere l’anello più debole della catena, ovvero il giornalismo – mi vengono in mente alcune osservazioni.
Per i giornalisti è necessario innanzitutto un bagno di umiltà , che faccia prendere coscienza dei nuovi mondi prima esplorati e oggi fatti propri da molto buon giornalismo d’oltre confine. Tale presa di coscienza potrebbe essere facilitata da una de-gerarchizzazione delle redazioni – penso anche a una sorta di turn-over, tanto per mutuare un gergo calcistico, che dia spazio a figure professionali nuove e magari anche un po’ digitalizzate, con sovrastrutture professionali semplicemente diverse (nate diverse) rispetto ai giornalisti tradizionali. Insomma, bisogna far capire che c’è gente che ha vinto il Pulitzer con inchieste di Data Journalism, e che sicuramente non hanno interessato “solo quelli di Internetâ€â€¦
In breve, si potrebbero ipotizzare le seguenti iniziative:
- corsi di alfabetizzazione al giornalismo digitale e dei dati;
- sinergie tra addetti ai lavori (associazioni) e redazioni, al fine di ottimizzare le risorse, valorizzare le rispettive competenze e favorire l’apprendimento reciproco;
- accesso alla redazione di un Data Team: giovani giornalisti, ricercatori e sviluppatori (magari in partenariato con le università e le scuole di giornalismo)
- creazione di una sezione online integrata ai siti delle testate quale piattaforma di condivisione e dialogo tra giornalisti, associazioni, utenti, ecc.
- cassetta degli attrezzi: come fare per …
Naturalmente, per poter solo ipotizzare simili scenari, è necessario il convinto impegno di tutte le rappresentanze giornalistiche. La sola FNSI chiaramente non basta. (Un capitolo rimasto ancora chiuso, infatti, è quello degli editori … ).
Mi scuso per essermi dilungato, ma gli spunti sono molti e mi preme tener vivo il dialogo nel tentativo di rilanciare il discorso sull’Open Data – Data journalism in Italia prima che la polvere dell’incontro di giovedì 27 ottobre si sia già posata.
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Ringrazio, ovviamente, Adrea Fama per l’attenzione e le sue idee – ha commentato Tedeschini Lalli -. Speriamo che abbiano modo di attecchire, anche se – la mia convinzione resta inalterata – potranno attecchire solo se nelle redazioni entrerà la cultura digitale nel suo complesso, non questa o quella “tecnica†che nella mente di molti può essere sempre delegata a qualcun altro (un “tecnicoâ€, appunto, distinto dal “giornalistaâ€). Ma un cambio profondo di cultura è faticoso e doloroso, perché vuol dire rivoltare completamente strutture, usi, modi di relazione di un mestiere. Una rivoluzione, sia pur culturale, insomma – e le rivoluzioni non si fanno senza rompere qualche porcellana.