Le rivolte nel mondo arabo e lo tsunami nell’iper-tecnologizzato Giappone sono gli avvenimenti che hanno monopolizzato l’agenda mediatica internazionale nelle ultime settimane. In entrambi i casi a parlare sono storie di disperazione e di speranza. Storie raccontate con pennarelli e mouse, giornali scritti a mano e tweet digitati compulsivamente. Le parti, però, a volte sono sorprendentemente invertite.
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di Andrea Fama
Tunisia, Egitto, Libia – ma anche Bahrein e Yemen – sono Paesi in cui per decenni hanno regnato (e in alcuni di essi tuttora regnano) dittature occidentalizzate che hanno soffocato la libertà di espressione e la diffusione dei nuovi mezzi digitali di comunicazione e informazione.
Eppure questi Paesi sono (stati) teatro di rivoluzioni che hanno visto nei social media un alleato prezioso.
Azmat Kahn, giornalista digitale di Frontline e regista del film “Revolution in Cairoâ€, racconta come i manifestanti in Egitto, Tunisia e nel resto della regione abbiano utilizzato i social network quali strumenti di comunicazione, organizzazione e attuazione delle rivolte. E spiega anche come i giornalisti, fiutata la corrente, abbiano utilizzato gli stessi strumenti al fine di individuare le fonti e raccogliere le informazioni su quanto stesse accadendo.
In proposito, Khan fa notare che – giornalisticamente – la dipendenza quasi assoluta da tali mezzi di informazione e comunicazione, a scapito di una sana attività sul campo ‘alla vecchia maniera’ (che per la realizzazione di Cairo Revolution è stata “impagabile†a detta della stessa autrice), pregiudica la formazione di un quadro d’insieme esaustivo. Infatti, pur essendo indubbio il contributo significativo di Twitter e Facebook alla rivoluzione araba, sarebbe opportuno che i giornalisti si domandassero se l’utilizzo quasi esclusivo di tali piattaforme – a volte generosamente ridondanti – non limiti una visione complessiva di situazioni tanto articolate, la cui percezione epidermica spesso svela risvolti e sfumature altrimenti impercettibili.
A rendere ancora più stridenti i contrasti della cosiddetta digital revolution araba c’è il disastro che ha colpito il Giappone e costretto i media – nella fattispecie il quotidiano della sera della città di Ishinomaki, Hibi Shimbun – ad un disperato ritorno al futuro pur di fornire alla popolazione locale informazioni fondamentali alla sopravvivenza.
Senza elettricità , gas, carburante o linee telefoniche la città era in ginocchio, stremata, affamata – anche di informazioni. Gli eroici giornalisti del quotidiano locale (una città di 160.000 abitanti a nord-est di uno dei Paesi più tecnologizzati al mondo), impossibilitati all’uso anche delle più essenziali attrezzature, hanno così deciso di scrivere il giornale di proprio pugno, letteralmente, con carta e pennarello (nella foto). Una volta finito, ne hanno prodotto copie a mano da distribuire ai centri di emergenza attivati in città . Sono andati avanti per qualche giorno. Oltre ad aggiornamenti sulla catastrofe, il giornale forniva anche informazioni vitali come elenchi di negozi in cui era disponibile del cibo, di strade ripulite dalle macerie o di banche che ancora disponevano di denaro contante. Quando si dice del giornalismo al servizio della cittadinanza.
Contrasti, dicevamo. Popolazioni per decenni ancorate al passato a causa di dittature imbiancate hanno perseguito la libertà attraverso i mezzi di comunicazione più moderni oggi a disposizione della popolazione civile, che ha aperto la strada a molti professionisti dell’informazione catapultandoli comodamente con un click al centro delle rivolte. Gli abitanti di una cittadina della terza potenza economica del mondo, da sempre all’avanguardia in campo tecnologico, hanno invece avuto nella forza d’animo, nel senso civico e nella capacità amanuense di un pugno di giornalisti l’unica fonte di informazione proveniente dal mondo circostante, privato d’un tratto di ogni forma di connettività . Condizioni opposte di praticare la professione, a parti invertite, in un’epoca in cui tutto è il contrario di tutto.