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Tricom, storia di una fabbrica dei veleni e di come un paese rimane indifferente nonostante la copertura dei media

Una margherita mutante, una delle specie geneticamente modificate dal cloro esavalente della Tricom

Una tesi di laurea in forma di reportage sulla tragedia di una azienda galvanica accusata di aver avvelenato il territorio per decenni e provocato la morte di numerosi operai ricostruisce analiticamente tutta la vicenda, dall’ insediamento della fabbrica, negli anni Settanta, con fanfare e fuochi di artificio, alla scoperta dei livelli micidiali di inquinamento da cromo esavalente,  fino agli sviluppi più recenti, con i processi e le esumazioni dei corpi di alcune vittime – Una analisi approfondita e appassionata, anche sul piano umano, che alla fine mostra come, dopo un guizzo di attenzione quando sbarcano le telecamere nazionali (ma ’’più di stizza che di curiosità: a tanti del paese non fa piacere vedere i propri panni sporchi lavati in TV”), anche decisioni importanti per la comunità come i processi o le esumazioni dei corpi degli operai morti non sembra abbiano suscitato più di tanto reazioni

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L’ operaio che muore di tumore dopo 20 anni passati in una fabbrica che usa agenti chimici senza adottare le necessarie misure di tutela della salute non fa notizia. Perché? Perché è il risultato di un intricato insieme di fattori, un nodo di questioni molto complesse che è troppo lungo e difficile da spiegare in un mondo in cui tutto (anche l’informazione) diviene sempre più veloce e deve perciò essere semplice da descrivere, facile da comprendere e, soprattutto, spiccare come qualcosa di nuovo nel flusso continuo di notizie prodotte convulsamente dal sistema mediatico.

Morire a causa del lavoro svolto allora è un evento che viene facilmente soverchiato da fatti di cronaca sempre più cruenti, calamità naturali, conflitti internazionali, agitazioni sociali e politiche: perciò i media ne parlano poco, la società se ne dimentica.

Quello delle morti sul lavoro rimane così un tema spesso sottovalutato, che ottiene grande risalto a livello mediatico solo in occasione di eventi improvvisi e disastrosi (come il caso della ThyssenKrupp), ma che è in realtà molto più presente, diffuso e problematico di quanto non appaia.

Ma quando, in modo paradossale, il processo di rimozione non è imputabile all’ inerzia o alla superficialità dei media, che invece seguono gli sviluppi delle vicende in maniera sostanzialmente corretta, si finisce per scoprire che può essere la comunità stessa a scegliere di restare impermeabile agli stimoli dei giornali e delle emittenti radiotelevisive e a rifugiarsi nell’ oblio o il distacco.

E’ quello che testimonia la tesi di Elena Baù* – una studentessa vicentina che qualche settimana fa si è laureata in Scienza delle Comunicazioni a Padova (relatore il prof. Raffaele Fiengo) – dedicata alla ‘’Tricom: fabbrica dei veleni a nord-est’’, che Lsdi pubblica.

Operazioni di trivellazione nei locali interni della Tricom, per individuare la profondità della contaminazione

L’ ultimo capitolo della tesi – costruita come un ampio reportage sulla tragedia di una azienda insediatasi sul territorio “con festeggiamenti e fuochi d’artificio” ma diventata ben presto una delle tante ‘’fabbriche dei veleni’’, che produce margherite mutanti, geneticamente modificate dal Cromo esavalente, e famiglie orfane di uomini morti troppo presto a causa di forme di cancro incurabili – è dedicato infatti proprio alle reazioni con cui Tezze sul Brenta, il comune a metà strada tra Bassano del Grappa e Cittadella dove era insediata l’ azienda ha seguito la tragedia.,

‘’Tezze sul Brenta: un paese che non c’ è?’’ è il titolo del capitolo. Titolo che contrasta aspramente con i tioli che la stampa aveva dedicato alla vicenda. ”Cromo, fiori mutanti e operai morti”, ”Rovinati dalla fabbrica dei veleni”, ”Galvanica Pm, una nuova perizia; Verso la riesumazione delle salme”.

Dopo un iniziale fermento provocato dalla scoperta della gravità della situazione e un nuovo guizzo di interesse dovuto alla presenza delle telecamere di ‘’Report’’ o di ‘’Terra!’’, la reazione – osserva Baù – sembra ‘’più di stizza che di curiosità: a tanti del paese non fa piacere vedere i propri panni sporchi lavati in TV, in prima serata e su tutto il territorio nazionale.

E poi basta.

Basta – aggiunge – nel senso che la stragrande maggioranza delle persone di questo fatto ne ha avuto abbastanza e non l’ha più seguito; anche la decisione, arrivata dopo un percorso lungo e tortuoso (ben due le richieste di archiviazione presentate dal Pm poi dimessosi dall’incarico) di celebrare il processo relativo alle morti di alcuni dipendenti Tricom non sembra aver suscitato più di tanto reazioni.

Eppure molti di coloro i quali hanno lavorato nell’azienda erano del paese, avevano sempre abitato a Tezze o Stroppari, avevano amici e parenti, rapporti durati una vita, nel bene o nel male, di cui però non sembra essere rimasta traccia’’.

Il lavoro è impostato come un ampio servizio giornalistico, con la ricostruzione dei fatti e l’ analisi dei vari aspetti della vicenda, compresi degli approfondimenti accurati sul processo galvanico e sui rischi che può provocare l’ esposizione a metalli come cromo e nichel, fino ai recenti aspetti giudiziari. Il tutto accompagnato da foto, grafici, tabelle e documenti giudiziari e amministrativi.

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Un vero e proprio reportage giornalistico, che dedica una forte attenzione anche ai risvolti umani della vicenda, con la scelta di concentrarsi sulla storia di una delle vittime attraverso le testimonianze dei suoi familiari.

Fra di essi, in particolare, la vedova, che in una lunga intervista ricostruisce la tragedia e riflette sull’ atteggiamento del paese.

“La gente ha paura di esporsi. A parole ti sostengono, ti dicono che hai ragione a farti valere ma poi, quando c’è da farsi sentire o partecipare alle riunioni non vengono. Ma io non ho paura, i miei figli hanno il diritto di sapere perché il loro padre è morto, le giovani generazioni devono sapere cosa è successo, non si può sempre far finta di nulla, girarsi dall’altra parte sperando che i problemi tocchino gli altri e non noi. Perché questo è già un problema di tutti, che piaccia o no. Alcuni ci dicono che almeno otterremo il risarcimento economico, ma a noi non interessa: noi vogliamo giustizia, innanzitutto per mio marito”, racconta ad Elena Bau.

Che affida alle ultime righe della tesi anche un forte messaggio di impegno civile.

Questo lavoro – scrive – non si propone di stabilire chi abbia ragione e chi torto (a questo penserà la magistratura), ma vuol essere almeno un tentativo di definire in modo chiaro situazioni e persone, di cui ognuno si possa costruire un parere sì personale, ma basato su elementi reali.

Ritengo, infatti, che prendere atto della realtà e confrontarsi con essa, per quanto sgradevole possa essere, sia un atto di responsabilità dovuto a noi stessi, alla collettività e al territorio: solo così la comunità potrà andare avanti e lasciarsi serenamente la Tricom alle spalle.

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* Elena Baù, 26 anni, è nata e vive proprio a a Stroppari di Tezze sul Brenta, la frazione della Tricom. Dopo la tesi triennale frequenta il Corso di laurea magistrale in Strategie di comunicazione,  sempre a Padova. Aspira a fare la giornalista; le piacerebbe soprattutto la carta stampata.

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”Tricom: una fabbrica dei veleni a nord-est”


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