(a.   f.) – I blog non sono i giornali. Punto. Una sentenza della Cassazione allontana il fantasma della stampa clandestina che assurdamente e anacronisticamente si aggirava tra le maglie della Rete italica.
Ma i blogger sono giornalisti?
È la domanda trita che da anni ingolfa retoricamente diversi dibattiti sulla professione, nel tentativo di cristallizzare in una definizione univoca gli operatori dell’informazione (magari distinguendoli tra tesserino-muniti e non). E col risultato di confinare sul piano semantico il dibattito sulla professione, la cui identità operativa pare invece sempre più frastagliata e inafferrabile.
E se i blog hanno contribuito ad una decisa accelerazione del bipolarismo giornalistico, Facebook prima e Twitter poi hanno aperto le porte ad una sorta di schizofrenia collettiva.
Bollare Facebook come la fiera delle vanità e Twitter come uno spasmo compulsivo è come sentenziare che la stampa è oscena perché esiste Penthouse. Allo stesso tempo sarebbe ingenuo attribuire particolari poteri salvifici a questo o quel media. In realtà si tratta solo di strumenti, mezzi, che poi si trasformano in grandi contenitori, calderoni dentro i quali si trova un po’ di tutto.
Ogni media, da quelli tradizionali a quelli sociali, ciascuno secondo le caratteristiche che gli sono proprie, è naturalmente in grado di esprimere del buon giornalismo. E dovrebbe essere proprio del buon giornalista intuire e mettere in pratica il potenziale dei nuovi mezzi di informazione. Il resto è conversazione.
La sterilità di alcuni dibattiti a fronte del profondo mutamento che si sviluppa quotidianamente in seno all’informazione è perfettamente sintetizzata dall’editoriale di Tullio De Mauro sull’Internazionale dell’11 maggio, dall’emblematico titolo di “Giornalistiâ€, che riportiamo di seguito:
 “Lei è un bugiardo, le sue cifre sono falseâ€, “Non è vero, sono corretteâ€. Mercoledì 2 maggio, tra le 21 e le 23.50, poco più di diciassette milioni di francesi hanno seguito in diretta il dibattito televisivo tra Nicolas Sarkozy e François Hollande. Quasi tre ore in cui i candidati hanno parlato di tutto, dall’immigrazione al fisco, dalla disoccupazione all’energia nucleare. Un dibattito preparato in ogni minimo dettaglio: il tipo di sedie, la distanza tra l’uno e l’altro, la temperatura dello studio.
Al centro c’erano due giornalisti, due volti noti della tv francese, Laurence Ferrari di Tf1 e David Pujadas di France2. Hanno garbatamente rivolto le domande ai due candidati e timidamente cercato di far rispettare i tempi. Intanto, nella redazione di Owni, un sito di informazione francese, c’erano quattro giornalisti tra i 22 e i 29 anni che davano vita al Véritomètre, una sorta di macchina della verità in diretta e su Twitter. Appena uno dei due candidati citava un numero (il debito pubblico francese, le centrali attive in Francia, i soldati presenti in Afghanistan), la redazione del Véritomètre verificava l’informazione, incrociava le fonti, se aveva dei dubbi chiedeva ad altri utenti, e nel giro di pochi minuti twittava il responso: correct, incorrect, imprécis, e quando il dato non era giusto riportava quello esatto, con tanto di link alla fonte. Chi seguiva il dibattito poteva così farsi un’idea in tempo reale dell’attendibilità dei due candidati. Hanno scritto 54 tweet, quasi uno ogni tre minuti.
Per la cronaca, l’indice di credibilità di Hollande è stato del 58 per cento, quello di Sarkozy del 47. A tutti quelli che si ostinano a ripetere che non è possibile fare del vero giornalismo in soli 140 caratteri, bisognerebbe chiedere chi erano i veri giornalisti durante il dibattito tra Hollande e Sarkozy: se i due mezzibusti televisivi molto sorridenti e quasi muti o i quattro ragazzi del Véritomètre con i loro tweet.