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Bob Woodward, il giornalismo, internet e le suole delle scarpe

Il giornalismo ha bisogno di molto di più di un paio di scarpe da consumare.  Lo afferma Mathew Ingram su Gigaom, replicando ad alcune recenti dichiarazioni di Bob Woodward (protagonista con Carl Bernstein del famoso Watergate, insieme nella foto classica),  secondo cui i giovani cronisti di oggi e gli studenti di giornalismo avrebbero una fede eccessiva nel potere di internet, mentre alla fine quello che realmente conta nel campo professionale è il giornalismo fatto con le suole delle scarpe, andando in giro di persona a vedere e a chiedere.

 

Woodward  – osserva Ingram – è un gigante nella storia del giornalismo investigativo. Ma solo per questo dovremo credergli quando  dice che internet non è di alcuna utilità concreta in vicende come il Watergate? Non necessariamente, risponde. Il giornalismo di ora  è molto diverso da quello di 40 anni fa – e probabilmente migliore.

 

Il giornalismo ha bisogno di molto di più di un paio di scarpe

 

Intervenendo nel corso di un incontro organizzato dall’ American Society of News Editors, in un dibattito su “Watergate 4.0: How Would the Story Unfold in the Digital Age?”,  il famoso giornalista ha raccontato di aver chiesto agli studenti di giornalismo di Yale come loro avrebbero coperto l’ affare Watergate. ‘’Ho rischiato che mi scoppiasse un aneurisma’’, ha aggiunto, quando ha sentito che quegli studenti  avrebbero usato Internet per ottenere dei dati sulla campagna segreta di finanziamenti  del presidente Nixon.

 

Secondo Woodward è l’ indicazione che internet viene vista come una sorta di ‘’lanterna magica’’ che potrebbe rivelare qualsiasi cosa – e che gli studenti sbagliavano quando ritenevano che la blogosfera avrebbe contribuito alla caduta di Nixon:

 

Ho cercato di fornire a quei ragazzi qualche elemento correttivo, ma il punto chiave è questo: la verità di quello che succede non sta su internet. La rete può dare un contributo, Può aiutare. Ma la verità sta nelle persone. Le fonti umane.

 

Woodward ha ragione naturalmente, commenta Ingram. La verità ce l’ hanno le persone – gente come Mark Felt, la cosi detta ‘’gola profonda’’ che fornì a Woodward e Bernstein le informazioni rilevanti che consentirono di far scoppiare il caso. E ovviamente, se ti capita che un alto funzionario dell’ FBI ti soffi quella benedetta informazione sul presidente, stai a posto. Felt avrebbe avuto un accout su Facebook? Probabilmente no. E certamente non si sarebbe mosso su Twitter o avrebbe aperto un blog su Tumblr. Su questo il premio Pulitzer ha ragione.

 

Il reporter solitario non è più l’ unico portatore di notizie

 

Ma questo – obbietta Ingram – non significa che l’ approccio di Woodward-e-Bernstein sia  l’ unico sistema che produce qualcosa di importante, o che  internet serva solo a fornire elementi ‘’supplementari’’ o a dare spazio ai commenti del dopo, come Woodward sembra suggerire.

 

 

Un avvenimento tipo la diffusione del video sui cosiddetti Collateral Murder, ad esempio, – rivelato da Wikileaks nel 2010 -, probabilmente non sarebbe potute accadere senza internet, che ha consentito la connessione fra Wikileaks e Bradley Manning, il soldato Usa accusato di aver passato segretamente il video.

 

Quel video e la successiva diffusione di migliaia di documenti diplomatici riservati non sminuiscono certo l’ importanza del Watergate, ma – osserva Ingram –  sono stati entrambi degli avvenimenti molto significativi in campo giornalistico anche senza il coinvolgimento di reporter prima dei fatti. Questa mancanza li rende meno importanti? No. Anzi il loro valore è maggiore. E il fatto che chiunque possa immergersi in quei materiali è un elemento ulteriore del loro successo giornalistico.

 

Il punto non è che lo sforzo e il lavoro individuale necessari nel giornalismo di inchiesta non siano importanti. Lo sono, ovviamente, e quelli che lo fanno sono persone di grande valore – come ad esempio il vecchio cronista  Seymour Hersh, che ha rivelato recentemente  la vicenda degli addestramenti segreti nel Nevada di truppe speciali destinate all’ Iraq. Ma Woodward (e la cosa non ci dovrebbe sorprendere, forse) vede ancora il giornalismo in stile cow-boy solitario piuttosto che come un processo collaborativo che coinvolge altre persone – inclusi “quelli che una volta venivano definiti l’ audience” come ama dire il professore di giornalismo Jay Rosen.

 

Questo punto di vista sarà molto più romantico. Potrà servire a quei giornalisti che si sentono un po’ una razza speciale, con dei poteri particolari che i comuni mortali non hanno. O alle ambizioni di quelle testate che vorrebbe continuare ad essere le sole fonti di valore nell’ ecosistema mediatico. Ma non serve certo al giornalismo o alla società nella loro interezza.

 

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