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Copyright e CC, un piccolo manuale del diritto d’ autore nell’ era digitale

Daniele Minotti, avvocato ed esperto di diritto delle nuove tecnologie,  delinea il quadro normativo di un ambiente  in cui ha sempre meno senso la contrapposizione fra originale e copia e in cui il  copia&incolla è diventato una chiave per appropriarsi il mondo. Diritti e i doveri di chi pubblica in Rete un’opera dell’ingegno (e qualche pillola giuridica anche per i fotogiornalisti).

 

 

di Daniele Minotti

 

Il copia&incolla credo sia una delle più grandi conquiste dell’umanità: con soli due click si può clonare il mondo ed appropriarsene.

 

Il plagium latino, come furto o rapimento, nel diritto d’autore appropriazione dell’opera altrui per farla apparire, appunto, propria. Una pratica vecchia quanto l’arte, ma oggi mai così alla portata di tutti, di click, anzi, come visto, di due: quello del copia e quello dell’incolla.

 

E più comunichi, più l’opera si diffonde, e più ci si espone anche perché, nel mondo digitale, ha ben poco senso una contrapposizione tra originale e copia.

 

L’idea di scrivere ancora una volta qualche riflessione sul diritto d’autore nell’era digitale è nata da una piccola disavventura che ha colpito Pier Luca Santoro, il quale ha recentemente patito un copia&incolla un po’ allegro. Poi, Pino Rea mi ha chiesto di approfondire un po’ per LSDI.

Onorato, come si dice, ma senza retorica o piaggeria.

 

Pensate un po’ che la vigente legge sul diritto d’autore è del 1941. Precisamente, si tratta della legge  22 aprile 1941 n. 633 – Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

 

Il che, malgrado i tanti rimaneggiamenti, la dice lunga sull’esistenza del problema di sempre, cioè l’eterna rincorsa del diritto alla tecnologia con il primo sempre in affanno. Una femmina nata libera ed eternamente giovane corteggiata da un vecchio impacciato e senza fantasia che proprio non ce la farà mai.

 

Ma veniamo al tema, cioè ai diritti e ai doveri di chi pubblica in Rete un’opera dell’ingegno.

 

Il diritto d’autore usa distinguere tra diritti morali e diritti patrimoniali.

 

Tra i primi il più importante è quello di paternità che è addirittura inalienabile. Se un terzo si appropria della paternità della mia opera, nel senso che vi mette il suo nome, commette un plagio, comportamento vietato e penalmente sanzionabile.

 

I diritti patrimoniali (di utilizzazione economica, come dice la legge) comprendono, invece, quello di riproduzione, che è il più rilevante. Può essere ceduto dall’Autore a soggetti terzi (tipicamente, un editore) ma è sempre riservato a chi ne è titolare.

 

Premettendo che vi è riproduzione abusiva dell’opera anche quando è chiara e corretta l’indicazione della paternità, il corrispondente diritto soffre alcuni limiti. Il principale è previsto dall’art. 65 l. 633/41.

 

Ecco il primo comma, più rilevante

1. Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato.

 

Quindi, se per tutte le opere dell’ingegno vale la regola del divieto di riproduzione (salvo che vi si rinunci), per quelle individuate nella norma appena citata vale il contrario. Altrimenti detto, se si vuole evitare la riproduzione di questo tipo di articoli, si deve mettere la formuletta magica “riproduzione riservata”.

 

Poi, ovviamente, una riproduzione sistematica pur consentita può diventare atto di concorrenza sleale, ma così andremmo un po’ fuori tema.

 

Qualche pillola giuridica anche per i fotogiornalisti.

 

Non tutte le fotografie sono opere dell’ingegno stretto senso; donde il diversificarsi della relativa tutela.

 

Esistono tre tipologie di fotografie:

– semplici riproduzioni, cioè “ le fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili”;

– fotografie opere dell’ingegno, ad esempio uno scatto di Mapplethorpe;

– semplici fotografie – e sono le più comuni – vale a dire quelle di cronaca e/o che non abbiano carattere artistico, ad esempio la foto del sorpasso di Valentino su Casey giù dal cavatappi di Laguna Seca (e lo dico, addolorato, da ducatista).

 

Le riproduzioni, come intuibile, non godono di alcuna tutela che, semmai, spetta a quanto riproducono.

 

Le seconde, invece, sono disciplinate come qualsiasi altra opera d’arte. In particolare, va ricordata la durata settantennale dell’esclusiva.

 

Le ultime, infine, si trovano in una posizione giuridicamente intermedia perché ad esse si applica la regola di cui all’art. 90 l. 633/41

 

Gli esemplari della fotografia devono portare le seguenti indicazioni:

1) il nome del fotografo, o, nel caso previsto nel primo capoverso dell’art. 88, della ditta da cui il fotografo dipende o del committente;

2) la data dell’anno di produzione della fotografia;

3) il nome dell’autore dell’opera d’arte fotografata.

Qualora gli esemplari non portino le suddette indicazioni, la loro riproduzione non è considerata abusiva e non sono dovuti i compensi indicati agli articoli 91 e 98, a meno che il fotografo non provi la malafede del riproduttore.

 

Sicché, se non si vuole concedere una libera riproduzione, occorre mettere sempre queste indicazioni. Su quelle stampate, si usa annotarle sul retro, sui file è diffuso inserire un watermark in un angolo.

 

Per queste fotografie la tutela è limitata a 20 anni dall’anno di produzione (ecco perché deve essere indicato).

 

Altre eccezioni alla riproduzione riservata che ci possono interessare e riguardano tutte le opere sono contenute nell’art. 70 sempre della l. 633/41.

 

La prima

1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.

 

La seconda, invece, è più controversa e dai confini incerti

1-bis. È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al presente comma.

 

Chi ha avuto modo di seguire, negli ultimi anni, i sempre critici incroci tra diritto d’autore e Internet, ricorderà che la norma era stata fortemente voluta da Pietro Folena nel 2008.

 

Il punto è che, malgrado i nobili intenti e gli sforzi equilibristici delle novella, da un lato non è mai stata definita la portata della locuzione “qualità degradata”, dall’altro stiamo ancora aspettando il decreto ministeriale sui limiti degli usi didattici e scientifici. Evidentemente, per completa assenza di volontà.

 

Sin qui la teoria o poco più. Ma a voler essere pragmatici? In questi giorni ricorre il decennale di attività del gruppo Creative Commons. Bernardo Parrella, sempre su queste pagine digitali, ne approfitta per raccogliere un po’ di materiali di interesse sottolineando i non trascurabili aspetti filosofici tipici del movimento.

 

Io, che ho capacità più modeste e ambizioni più limitate, mi limito a qualche considerazione finale di carattere pratico-giuridico.

 

L’Autore chiede sempre il riconoscimento del proprio lavoro. Non necessariamente danari (quanti di noi  cedono gratuitamente le proprie opere), ma alla paternità non si rinuncia.

 

E non v’è dubbio che, attualmente, il modo più valido per rendere chiaro il regime giuridico delle proprie opere ove si rifiuti il modello “tutti i diritti riservati” (tipico della legge, ma derogabile) sono le licenze Creative Commons.

 

Sebbene, talvolta, siano adottate in modo acritico (senza una vera conoscenza di ciò che statuiscono), va detto che si distinguono sia per l’essenzialità delle regole che per la straordinaria efficacia dell’originale iconografia.

 

Se vogliamo, dunque, sono un ottimo strumento per evitare gli scherzi dei soliti furbetti.

 

 

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