Un tempo Internet veniva vista da molti teorici, fra cui Clay Shirky, come una fonte di democratizzazione e di sviluppo, visto che dava voce a quanti  vengono marginalizzati dalle élite che producono il pensiero dominante sui media e in politica. Ora anche lo stesso Shirky sembra prendere le distanze dal suo primo idealismo utopistico. Come possiamo sottrarci all’ isteria che minaccia di erodere il dibattito pubblico –  si chiede Peter Beaumont, sul sito web del Guardian -, visto che la blogosfera viene alimentata  sempre di più da un linguaggio ad alta tossicità e frena qualsiasi vero impegno invece di incoraggiarlo?
How do we escape the hysteria that threatens to erode public debate?
di Peter Beaumont
(…) Nel pieno di una recessione globale e di una crescente sfiducia nei confronti sia della politica che dei media, il tono del discorso pubblico nei paesi occidentali sta diventando sempre più estremo e arrabbiato. Qualcuno ha notato in particolare come, nel Regno Unito, le vecchie regole non scritte vengono sempre più influenzate dalla contaminazione con lo stile più rissoso caratteristico degli Stati Uniti. Ma questo cambiamento nel modo con cui parliamo fra di noi è stato determinato anche dai vincoli e dalle opportunità offerte dal mondo online.
L’ argomento è stato affrontato la scorsa settimana dallo scrittore  Patrick Ness alla Conferenza mondiale degli scrittori a Edinburgo. Lì, Ness ha chiesto se “invece di portarci, tutti insieme,  in una continua discussione multiforme, internet non abbia invece reso il settarismo quasi una posizione di default, automatica”.
Ma non è stato solo Ness a porre la questione. Due giornalisti con posizioni politico-culturali opposte – Suzanne Moore e Peter Hitchens – erano in sintonia fra loro. Chiedendo se i social media come Twitter, più che incoraggiare il dibattito, di fatto non lo blocchino agendo invece come una “cassa di risonanza” che conferma le nostre opinioni.
Un tempo Internet veniva vista da molti teorici, fra cui Clay Shirky  (il famoso autore di Here Comes Everybody), come una fonte di democratizzazione e di sviluppo, visto che dava voce a quanti vengono marginalizzati dalle élite che producono il pensiero dominante sui media e in politica.
Poi anche lo stesso Shirky ha preso le distanze dal suo primo idealismo utopistico, quando, tre anni fa, ha detto a Journalism.co.uk che temeva di essersi sbagliato, insieme a tanti altri, e che la pressione pubblica attraverso internet, lungi dal condurre a una “legittimazione democratica “, avrebbe potuto essere vista come” un ulteriore livello di affermazione di particolari gruppi di interesse “.
Tutto ciò porta ad una domanda inevitabile: il nostro nuovo discorso pubblico, in gran parte mediato on-line, ha reso la nostra conversazione più aperta, democratica e responsabile? O, invece, più frammentata e avvelenata?
Tra i pessimisti si è schierato il docente americano  Cass Sunstein, che è stato uno dei primi a proporre un quadro più distopico di come il dibattito stesse prendendo forma online,  notando una contraddizione fondamentale. “Le nuove tecnologie –  suggeriva Sunstein -, compreso internet, rendeno più facile alla gente ascoltare le opinioni di quelli che la pensano come noi, ma isolano quelle di coloro che la pensano diversamente.”
Sunstein ha osservato poi che, mentre internet era molto efficace nell’ avvicinare comunità virtuali con interessi comuni, ha anche incoraggiato i partecipanti “a isolarsi intorno a  punti di vista conflittuali… (creando un) terreno fertile per la polarizzazione, potenzialmente pericoloso per la democrazia e la pace sociale”.
In altre parole, le comunità virtuali, a differenza delle comunità fisiche, che sono costantemente sotto pressione e obbligate a trovare dei compromessi, rischiano di coagularsi attorno a dei pregiudizi auto-confermativi. Una tendenza che, come le ricerche di neuroscienza di Daniel Kahneman e altri hanno sostenuto, ci porta a confondere le emozioni con il pensiero razionale.
È interessante notare, inoltre, come sia emerso che, al contrario di quanto si può supporre, non è detto che internet istituisca un nuovo egualitarismo nell’ insieme dello spettro politico, ma può accadere invece proprio il contrario. I blog politici tendono a conformarsi – nel modo con cui cercano di favorire la partecipazione e il dibattito – al punto di vista politico di base che essi riflettono.
Come Yochai Benkler e Aaron Shaw, dell’ Università di Harvard, hanno scoperto in una ricerca su 155 blog politici americani, i blog di destra tendevano ad essere più gerarchizzati e individualisti, meno disponibili a linkare altre fonti, con una piccola percentuale – solo il 13% – che incoraggiavano la partecipazione.
Al contrario, sul fronte della sinistra, il 40% dei blog avevano “adottato piattaforme con servizi avanzati di partecipazione degli utenti”.
C’ è poi il problema del modo con cui le persone si comportano online e perché. Un passaggio molto interessante di una ricerca condotta da Kristy Beers Fägersten sul comportamento degli utenti con i  BBS, i bulletin boards,  descriveva un modo di fare che è familiare a chiunque abbia passato parecchio tempo online. Lo scopo principale della partecipazione delle persone, osservava, era nella “chiara tendenza dei partecipanti ad utilizzare la prima persona nei loro messaggi … per affermare la propria identità , esprimere delle opinioni e portare avanti obbiettivi personali”.
Un ulteriore grosso pericolo è che tutto questo venga esacerbato dai media mainstream, che hanno cercato di adattarsi alla nuova realtà online e di integrare il principio popolare della più ampia partecipazione ai loro dibattiti.
Adeguandosi ai parametri del successo del nuovo mondo online –  tra cui numero di commenti e di pagine viste - è stato inevitabile, sostengono alcuni, che le voci più forti e più partigiane sembrassero le più attraenti. Il che lascia senza risposta una domanda chiave. Come quantificare il peso che tutto questo dovrebbe avere per coloro che sono gli animatori principali del dibattito pubblico, tra cui blogger, scrittori, giornalisti e commentatori.
Una parte delle considerazioni di Patrick Ness riguardava il fatto che la natura spesso brutale del mondo online ha iniziato a imporre una cultura dell’ auto-censura per cercare di evitare dei toni troppo ‘’bellici’’. Altri commentatori hanno invece sostenuto il contario, raccontando come, rivedendo i loro scritti, avevano cominciato ad usare gradualmente più rigidità nelle loro argomentazioni.
C’ è infine un ultimo problema, che mi è molto familiare: il desiderio, molto naturale quando il liguaggio del dibattito diventa troppo avvelenato e aggressivo,  di evitare o di allontanarsi da tutti quei luoghi dove si potrebbe avere a che fare con asserzioni offensive o insultanti, anche se l’ aggressività fosse generata da una passione genuina. Tutto ciò porta alla domanda più difficile. Come fare a indurre i media a una riconversione del contesto online e, alla fine, è una cosa auspicabile?
In ogni caso questo richiederebbe la necessità di affrontare una serie di problemi difficili, fra cui il valore dell’ anonimato e i modi per ‘’moderare’’ la conversazione online.
Alla fine, forse la cosa migliore che possiamo fare è ripetere quello che Shirky aveva detto tre anni fa. “E’ democrazia in azione, e in una fase così iniziale che non sappiamo nemmeno come integrarla con il resto del tessuto democratico”.
Ma nella fase di avvio di questo processo, abbiamo bisogno di prendere in considerazione per lo meno il modo in cui noi parliamo l’ uno con l’ altro.