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Gli Usa “a caccia di scalpi”, dopo Wikileaks nel mirino anche il New York Times

 

(a. f. ) – Nel dicembre 2010 Wikileaks pubblicava 250.000 file confidenziali provenienti dal cuore della diplomazia americana, scatenando le ire di governi, istituzioni finanziarie, organizzazioni internazionali. Tra pressioni e boicottaggi, denunce e processi, Wikileaks e il suo fondatore, Julian Assange, si sono trovati al centro di un’ azione di interdizione senza precedenti per un soggetto mediatico (o para-mediatico che dir si voglia).

 

Gli effetti collaterali che tale azione avrebbe potuto avere su tutto il mondo dell’informazione sembra fossero sfuggiti ai media internazionali, ma non agli osservatori più attenti.

 

 

 

Già allora, infatti, Clay Shirky sosteneva che Wikileaks non è un pericolo per la democrazia, ma piuttosto uno strumento che la tutela, e che una società democratica non può permettersi che un soggetto come l’organizzazione di Assange venga censurato dalla Rete in quanto perseguito dal Governo USA per aver rivelato informazioni attendibili ottenute da fonti certe. Il primo emendamento tutela i quotidiani americani in casi del genere, e per nessuna delle testate che hanno lavorato ai cabli è stata chiesta la chiusura (sebbene da più parti corressero voci di forti pressioni sui vertici di redazione). È, pertanto, inaccettabile permettere che “l’idea di un’Internet capace di democraticizzare la sfera pubblica subisca un simile colpo mortale”. Ogni attacco ai diritti di Wikileaks è un attacco al giornalismo, con buona pace per il diritto alla libertà di espressione.  (Per approfondire, vedi l’e-book “Open Data – Data Journalism: trasparenza e informazione al servizio delle società nell’era digitale”)

 

 

Oggi l’argomento sembra essere tornato di attualità e minaccia proprio quei media – New York Times in testa – che solo un anno e mezzo fa si erano dimostrati miopi nell’osservare la guerra mossa a Wikileaks dall’establishment del potere USA.

 

 

Infatti, come spiega Mathew Ingram su GigaOm, pare che il Governo statunitense, proprio come ha fatto con WL, intenda indagare anche giornalisti e media mainstream per la pubblicazione di quelli che definisce segreti ufficiali – il che rende ancora più importante difendere lo status di WL quale soggetto mediatico.

 

 

Ingram cita un post apparso sul sito della Electronic Frontier Foundation a firma di Trevor Timm, secondo cui durante una recente udienza diversi membri del Congresso hanno interrogato alcuni esperti in materie legali sulla possibilità di applicare la normativa esistente quale l’ Espionage Act (già usato contro Assange e soci) anche ai giornalisti rei di aver pubblicato informazioni classificate, come riporta anche il Los Angeles Times.

 

 

Secondo gli esperti presenti all’udienza procedere contro giornalisti o soggetti mediatici come il New York Times è materia complessa e scivolosa, specie in virtù del noto Primo Emendamento e della tutela della libertà di stampa.

 

 

Tuttavia, pare delinearsi la possibilità di perseguire i giornalisti che pubblicano segreti governativi, laddove si possa provare la consapevolezza delle conseguenze delle loro azioni sulla sicurezza nazionale. E non si tratta solo di speculazioni, vista la posizione del Senatore Joe Lieberman e del suo SCUDO che criminalizza i cosiddetti leakers, nonché di un alto funzionario del Dipartimento della Giustizia che ammonisce i giornalisti con un sobrio “siamo a caccia di scalpi”.

 

Nonostante le ovvie differenze tra WL e il NYT, lo scopo primario di entrambe e organizzazioni è molto simile: acquisire e pubblicare informazioni importanti su importanti eventi globali – informazioni spesso frutto di fughe di notizie governative.

 

È proprio per questa somiglianza, secondo Ingram, che il leggendario Daniel Ellsberg  ha definito l’operato di Wikileaks come la cosa più vicina che avesse visto ai Pentagon Papers, e che Jay Rosen ha descritto Wikileaks come “la prima testata apolide al mondo”.

 

Ebbene, se una minaccia a Wikileaks è una minaccia a tutti i media, conclude Ingram, ciò non significa che il New York Times debba invitare Assange a far parte del National Press Club,  ma implica che il NYT e tutti gli altri media dovrebbero essere di gran lunga molto più preoccupati per le conseguenze che le indagini su WL hanno sulla libertà di parola e di stampa.

 

Al post di GigaOm risponde direttamente l’ex direttore del New York Times, Bill Keller, che in una e-mail si è detto profondamente d’accordo con Ingram nel considerare “il tentativo di criminalizzare la pubblicazione di quei documenti da parte di Wikileaks come un attacco a ognuno di noi”.

 

Keller sottolinea che il Governo non ha ancora intrapreso alcuna azione ufficiale contro Assange o WL, e che un eventuale procedimento in base all’Espionage Act sarebbe una violazione del Primo Emendamento di fronte alla quale “i mainstream media dovrebbero schierarsi in difesa” di Wikielaks.

 

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