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I tre porcellini e il lupo: la strada dell’ Open Journalism del Guardian

Il Guardian procede determinato nella ricerca dell’interazione con il pubblico. Laddove, a fronte di una sempre maggiore quantità di informazioni,  la scarsità del tempo del lettore è divenuta la questione centrale per i media, evidentemente il coinvolgimento è la sfida del presente, anche dal punto di vista economico. E poi, come dice il quotidiano, ‘’i giornalisti non  sono gli unici esperti al mondo’’

 

 

di Antonio Rossano

 

Tre porcellini accusati di avere bollito vivo il “grande lupo cattivo”, catturati e portati a processo: ma qual è la verità? I porcellini sono dei criminali sanguinari, si sono difesi,  hanno agito per i propri interessi? La “tragica” vicenda  assume mediaticamente una vita propria, fino a diventare una storia di protesta sociale.

 

E’ questo il video advertising del Guardian lanciato il 29 febbraio scorso per promuovere la propria immagine di promotore/paladino dell’Open Journalism (‘’I giornalisti non sono gli unici esperti al mondo’’) ed introdotto da Alan Rusbridger in apposito editoriale.

 

Il messaggio, anzi i messaggi , che emergono da questa fiction in stile holliwoodiano, sono chiari ed inequivocabili e rappresentano l’idea e la strategia che negli ultimi mesi, con sempre maggiore impegno, il gruppo editoriale britannico sta portando avanti: il primo è che l’informazione, ancor prima che un dato “fattuale” o un valore culturale, è un processo “sociale”, la verità non è più un proiettile mainstream sparato nella testa della gente, ma il risultato di un processo transazionale di confronto/verifica e suscettibile di modifica o di conferma, ottenuto attraverso la partecipazione della gente, ì social network,  le survey e tutti gli strumenti possibili dell’intelligenza collettiva condivisa.

 

Il secondo, non meno importante e determinante nell’economia del video promozionale, è che l’informazione è un processo evolutivo “memetico”, che vive di vita propria. La notizia parte dall’evento di cronaca, ma la sua destinazione è tutt’altra: la protesta sociale. Non sono due entità distinte o differenti: è il “meme” della idea partecipativa che inizialmente, attraverso il veicolo della notizia/ omicidio, si evolve geneticamente in un veicolo completamente diverso, la notizia della rivolta.
Quello dell’Open Journalism, portato avanti da Guardian in svariate forme,  è divenuto ormai un progetto organico ed articolato.

A settembre del 2011, Polly Curtis, corrispondente del Guardian dal parlamento britannico lancia “Reality Check”, un live blog nel quale i reporters del giornale parlano delle loro inchieste, richiedendo informazioni e notizie ai lettori, in una sorta di vero e proprio crowdsourcing di inchiesta. La partecipazione è intensa e sul blog arrivano anche, tra i commenti, informazioni riservate ed importanti per le inchieste.

 

Ad ottobre del 2011 Dan Roberts ed altri editors del Guardian hanno annunciato  la pubblicazione del piano editoriale giornaliero, una sorta di spreadsheet contenente l’elenco delle notizie del giorno, in costante aggiornamento,  chiedendo ai lettori di interagire via email o via Twitter.


Il 30 gennaio scorso il Guardian ha annunciato Newsdesk live, un servizio di blogging all’interno del quale i redattori informano in tempo reale delle notizie di cui parleranno, in che modo sono state scelte e perché, chiedendo di intervenire nella discussione, via email o Twitter: “Send us your ideas, evidence and experiences to help shape our coverage”.

 

Newsdesk live incorpora nello stesso luogo il piano editoriale (Newslist).

 

L’obiettivo della testata inglese evidentemente, non è quello di ampliare la base dei propri lettori attraverso la viralizzazione ed i blogs (per questo svolgono egregiamente la funzione le pagine del giornale su Facebook, e gli account su Twitter) bensì di coinvolgere maggiormente i propri lettori, in un processo di interazione costante e dinamico, dove il lettore condivide la nascita, lo sviluppo e la pubblicazione della notizia fianco a fianco con i giornalisti e, laddove possibile, partecipa ala sua realizzazione, fornendo spunti e interconnessioni altrimenti impensabili. Laddove, a fronte di una sempre maggiore quantità di informazioni,  la scarsità del tempo del lettore è divenuta la questione centrale per i media, evidentemente il coinvolgimento è la sfida del presente, anche dal punto di vista economico.

 

Il 4 gennaio scorso, Clay Shirky notava “Non è più sostenibile la logica dei quotidiani che vedono il lettore come un cliente e le notizie come un prodotto,  concependo il giornale come un “pacchetto” generalista che possa soddisfare qualsiasi tipo di esigenza. I giornali debbono puntare alla creazione dei contenuti originali e di qualità , ed a quei lettori che sono disposti a sostenerli. Bisogna dare più importanza a motivazioni non-finanziare e non commerciali, come la lealtà, la gratitudine, la dedizione alla missione, un senso di identificazione con il giornale, il bisogno di preservarlo come istituzione piuttosto che come business.”

 

Saranno i coinvolti e partecipati lettori del Guardian, i “core users” di cui parlava poco tempo fa Shirky?  Il nocciolo duro dei lettori disposti a pagare per sostenere un giornale che non sia un potpourri mediatico di notizie di agenzia e noiosi commenti autoreferenziali, ma un prodotto dinamico e interattivo ?